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Natale 1937

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Natale 1937

Stamattina operano il papà. Lo ha ripetuto la mamma prima di uscire di casa. Lo sapevo, del resto, ma lei ha sentito il bisogno di ripeterlo con un sospiro. Io sono rimasto in silenzio. Non sapevo che dire.
Sono rimasto a casa; sono in vacanza; le vacanze di Natale. E’ una vacanza di quindici giorni. Si torna a scuola dopo l’Epifania. Oggi è la vigilia di Natale, ma all’ospedale non fanno vacanza. Papà ha l’ulcera gastrica e deve essere operato. Sono anni che ha l’ulcera e sono anni che soffre. Non si può più aspettare, hanno sentenziato i medici, bisogna operare, ché se si perfora sono davvero guai grossi.
E’ vecchia questa storia dell’ulcera. Papà racconta che è cominciata che stavamo ancora a Ferrara, in via del Fossato e la padrona di casa era una specie di arpia, anziana, brutta e indisponente che mio papà chiamava, con un termine dialettale che vuol dire scarafaggio, "al scaravazz".
Forse non eravamo a posto con l’affitto, immagino, e quella ci angariava in tutti i modi tanto da rendereci la vita difficile. Io non capivo niente di ciò, ma mio papà ne aveva sofferto – dice – fino a farsi venire l’ulcera".
Mio papà non è un eroe, anzi è un po’ fifone, l’ho visto quando ha tentato di togliersi da solo un dente che ciondolava. L’aveva legato con uno spago, il suo spago da calzolaio, ben impeciato, come quando cuce le suole, affinché non scivolasse sul dente e non perdesse la presa. Poi ha cominciato a tirare, saltellando per la stanza perché sentiva dolore. Ma non ha trovato il coraggio di continuare. Dopo uin po’ ha tolto lo spago e si è deciso ad andare dal dentista.
Non è un eroe – dicevo – ma di fronte a certe situazioni ha sempre trovato la prontezza di spirito per reagire e prendere la soluzione giusta, anche se costava sacrificio. E anche questa volta, sebbene si trattasse di ulteriore dolore da subire si è sentito d’accordo con i medici, anzi ha desiderato che questa operazione si facesse al più presto.

Oggi è Natale. Sono andato a Messa a San Francesco, poi son tornato dritto a casa perché la mamma deve andare in ospedale per fare assistenza a papà. L’operazione è andata bene e papà – dice la mamma – quando si è risvegliato dall’ anestesia, ieri, le è apparso subito di buon umore. I medici le hanno detto che, a parte l’ulcera, non c’era nient’altro di sospetto e perciò si aspettano un buon decorso della convalescenza. Ma per qualche giorno avrà bisogno di assistenza. E il fatto che oggi sia Natale non fa differenza.
Sono rimasto a casa da solo. La cosa, per me figlio unico, non è nuova. Ho degli amici, ma a Natale non sono disponibili e poi, anche se lo fossero non potrei invitarli. Non viene mai nessuno da me, semmai vado io da loro. E il perché è semplice. Noi non abbiamo una nostra casa o almeno un nostro appartamento. Da quando siamo venuti ad abitare a Terni, stiamo a camera ammobigliata. Cioè in casa d’altri, dove ci è stata affittata una camera. Camera con uso di cucina, dice il contratto, il che significa che la mamma può usufruire di un fornello per cuocere il pranzo o la cena. Siamo un po’ come prigionieri perché non possiamo circolare liberamente per tutto l’appartamento, la nostra casa è solo questa stanza, praticamente una camera da letto, con in più un tavolo che basta appena per tre e tre sedie. Il letto matrimoniale dei miei genitori e il mio lettino. Io sono riuscito a ricavarmi un pezzo di parete dove sistemare uno scaffaletto trovato da un rigattiere, per i miei libri di scuola e un tavolinetto ancora più piccolo su cui fare i compiti. Chi potrebbe dunque venire da me? I miei compagni non sanno nemmeno il mio indirizzo. Un giorno che uno di essi, Terrosi si chiama di cognome, è venuto trovandomi chi sa mai come, non potei che farlo entrare. Era venuto per chiedermi un quaderno. Non disse niente altro. Si guardò attorno, incredulo, io non cercai di dare spiegazioni, la vergogna mi strozzava la gola. Gli diedi il quaderno e lo salutai accompagnandolo alla porta. Non se ne parlò più nemmeno a scuola, ne ritornò mai più da me, pur sapendo ormai dove abitavo.
Ecco perché sono solo. ho finito una parte dei compiti che ci hanno assegnato. Ho molto tempo davanti, ma preferisco togliermeli di torno al più presto. Mi rimane poi tutto il tempo che voglio per leggere e per scrivere sul mio diario, come sto facendo ora. E’il mio unico interlocutore. A volte viene Norma, la figlia della padrona di casa, per farsi aiutare a fare i compiti. Lei ha undici anni, cinque meno di me; fa la quinta elementare mentre io sono ormai al penultimo anno delle Magistrali. Ai suoi occhi è come se fossi già maestro.
In realtà i suoi problemini sono un gioco per me e così i suoi esercizi di analisi grammaticale.
Norma è buona e dolce e sta volentieri con me. E io sto volentieri, molto volentieri con lei. Mi sta d’accanto a sinistra, e io scrivendo o spiegandole qualcosa, la cingo col braccio stringendola a me e lei è arrendevole. Sento la morbidezza del suo corpo contro il mio e questo suscita in me fantasie proibite. Non posso negare che aspetto spesso di sentire il suo bussare discreto alla porta.
Non posso tacere nemmeno il fatto abbastanza curioso che lei viene sempre quando sono solo, quando mia mamma non c’è. E talvolta mi pare proprio che quel suo bisogno d’aiuto sia una scusa bella e buona. Ma siccome tutto ciò non mi dispiace affatto, va tutto bene così.
Dovevo anche mangiare qualcosa oggi, perché la mamma non ha avuto tempo e modo di preparare niente. Non mi andava di andare di là, in cucina a fare…che cosa poi? non lo so nemmeno io. Allora ho messo un tegamino d’acqua sul fornelletto a spirito che la mamma usa per fare un po’ di caffè o per scaldare il latte al mattino, e quando l’acqua bolliva ho buttato dentro un pugnello di pastina da brodo. Poi vi ho messo anche un dado Magi, quelli che usa talvolta la mamma, e un cucchiaino di burro. La mamma la chiama minestrina vedova, talmente è povera e fatta quasi di niente. Ma che potevo fare?.C’era anche in casa, per fortuna un po’ di pane e un po’ di mortadella e mi sono fatto due panini. La dispensa (ma come si può chiamare dispensa una cassa da imballaggio foderata di carta da pacchi per farla sembrare meno grezza, se una vera credenza non l’abbiamo?) è rimasta sguarnita in questi giorni con la storia del papà e della mamma che doveva prendersi cura di lui.
E’ l’imbrunire. forse la mamma a momenti tornerà, sarà magari un po’ preoccupata anche per me, senza immaginare che me la sono cavata benissimo.
C’è chi il giorno di Natale mangia il cappone, dopo i tortellini in brodo, poi il dolce, il vino, il caffè e cos’altro? Io me la sono cavata con una bella minestrina calda (la pastina era "all’uovo", però) e due panini con la mortadella. La preparazione è stata sollecita e la consumazione altrettanto.
E in fin dei conti, Natale in che cosa è diverso dagli altri giorni? Solo per il fatto che è nato Gesù.
Che è nato in una stalla, che dormiva in una magiatoia e che si scaldava al fiato del bue e dell’asinello.
Io ho almeno lo scaldino della mamma, in cui ho aggiunto un po’ di carbonella. Vi ho soffiato sopra e mi ci scaldo le mani mentre leggo, tenendolo fra le cosce.
E con questo ho finito anche la mia pagina di diario di oggi.
Giorno di Natale del millenovecentotrentasette.

Franco Braga

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