Già dopo qualche minuto dall’inizio della visione di "Will Hunting – genio ribelle" una fastidiosa sensazione si stava impadronendo del mio corpo, una sensazione come di… assorbimento. Sì, il sonno, la noia e l’irritazione si stavano letteralmente impadronendo del mio fragile involucro, già seriamente minato da una forte contusione alle costole. Il mio sguardo ispezionava con fare pettegolo il resto degli spettatori, la mia mente divagava in tutte le direzioni e solo il mio senso del dovere e della dignità mi impediva di farmi divorare dalle poltroncine. Com’è possibile che un regista come Gus Van Sant di cui avevo ammirato "Drugstore cowboy", "Belli e dannati", "Da morire" si fosse impantanato in una banalità del genere? Com’è possibile che questo film abbia fatto alzare in piedi il pubblico del recente festival di Berlino? Com’è possibile che sia anche candidato all’Oscar? Com’è possibile che la stampa, specializzata e non, da qualche settimana non faccia altro che parlare del nuovo enfant prodige Matt Damon, qui sceneggiatore e attore principale?
Vediamo un po’. "Will Hunting" è il nome di un ragazzo un po’ scapestrato che per guadagnarsi da vivere pulisce un edificio del M.I.T. di Boston e, quando capita, risolve gli impossibili problemi che il più grande matematico dell’istituto lancia come sfida ai suoi allievi, lasciandoli sulla lavagna dei corridoi. Una mattina tutti si chiedono chi possa mai averlo fatto ma, sorpresa, nell’aula nessuno alza la mano per raccogliere gli onori. La matassa si dipana solo quando (la scena dopo!) il professore coglie Will Hunting intento a risolvere ‘ennesimo problema con la scopa in mano. Inizia la breve ricerca di questo fenomenale ragazzo che sembra avere veramente poca voglia di entrare nel "sistema" dei ricercatori. Il professore non si dà pace, vuole a tutti i costi occuparsi del ragazzo, lo vuole "ripulire" dalle imperfezioni e consegnare alla scienza. Will Hunting è contrario. Con una rissa dimostra di essere un ribelle, con la matematica dimostra di essere un genio. Fine del film? No, entra in scena il pur bravo Robin Williams nei panni dell’unico psicologo che riesce a perforare la corazza di Will Hunting, fino a liberare il suo istinto di genio, bravo ragazzo, innamorato e felice. Puah! Il soggetto è interessante ma la sceneggiatura è banale, scontata. Non penetra nel Will Hunting "genio", non incide sul "ribelle". Dobbiamo attendere lo stereotipato psicologo vedovo e represso per vedere che il dialogo gioverà ad entrambi. Come vi immaginate lo studio di questo psicologo? Cosi? Beh, è proprio così.
Dove pensate che abiti Will Hunting? In una catapecchia di periferia? Sì? Credete che la sua ragazza sia povera? No? Gli amici di Will Hunting sono ignoranti ma saggi? Sì? Il professore egoista e rancoroso si ravvederà? Si? Risposte esatte, "Will Hunting" è proprio come tutti se lo immaginano.
Non mi irrita la montatura eccessiva fatta attorno ad un film comunque guardabile e ad un giovane (Matt Damon) che vive il suo giustificato momento dopo un film con Francis Ford Coppola, "The rainmaker", un soggetto da Oscar ed un’altra interpretazione di prestigio. Quello che mi delude è proprio la regia di Gus Van Sant che accetta un copione piuttosto convenzionale e povero di spunti per la sua personale interpretazione. Non poteva certo permettersi il cromatismo e le inquadrature originali di "Da morire", così come i passaggi silenziosi e disperati di "Belli e dannati" o il realismo cinico di "Drugstore cowboy". Anche se reputo normale un rilassamento, un avvicinamento verso lo star system hollywoodiano dovuto alle insistenti sirene delle major e del successo, non posso perdonare questo passo falso, anche perché proprio con "Da morire" Gus Van Sant aveva dimostrato di come si può fare un buon film con dei grossi nomi che abbia un discreto successo di pubblico ed un’ottima accoglienza dalla critica.
Finito il Gus?
Michele Benatti