Accolto freddamente a Cannes, smontato e rimontato più corto dallo stesso insoddisfatto Wenders (oltre che per esigenze di distribuzione), uscito con il più accattivante titolo "Crimini invisibili", preceduto da un trailer ingannevole "The end of violence" non riesce comunque nei suoi scopi. Non riesce prima di tutto negli intenti dell’autore e regista Wim Wenders, ancora impegnato nella sua personale riflessione sulla civiltà delle immagini e della tecnologia dopo "Fino alla fine del mondo", ma non riesce nemmeno negli intenti della Cecchi Gori che ha tentato in tutti i modi di "commercializzare" Wenders come un film di massa. Il risultato? Il film è visto solamente dal solito pubblico d’essay e delude nei contenuti e nella realizzazione. Una breve
riflessione sulla distribuzione. I presupposti ci sono tutti: doppio titolo sostantivo-aggettivo che ha già fatto la fortuna di decine di film, la presenza di attori hollywoodiani di un certo nome, l’assenza di ogni riferimento al regista ed ai suoi film precedenti, un promo che nasconde le intenzioni del film mostrandone solo le frasi ad effetto trainante. Il primo film "hollywoodiano" di Wenders è un pallido tentativo di sdoganare il regista dall’etichetta di "europeo, intellettuale, noioso e impegnato" che si era meritato per i film precedenti. Il tentativo non riesce forse perché proprio Wenders è il primo a non esserne convinto tanto da far pronunciare ad un personaggio di "Crimini invisibili", un regista europeo che lavora controvoglia ad un mediocre film americano, questa frase "Ma chi me l’ha fatto fare di venire in America a girare un film…". Sono fermamente convinto che sia Wenders stesso a pronunciare quella frase, tra l’altro in un momento particolarmente deludente del film. Passiamo alla storia.
"The end of violence" vuole essere un film sulla violenza invisibile, quella che si può intuire e non proprio da tutti. Quale luogo migliore di Hollywood per parlare di tutto questo? Mike Max (Bill Pullman) è il più famoso produttore cinematografico del momento e sta facendo fortuna con film ricchi di effettoni speciali, film su invasioni aliene o straniere. Sembra, ma lo capiamo solo dalle sue parole, che voglia esorcizzare quello che per lui è diventato un incubo e cioè il pericolo contro il quale non ci si può opporre, che non si può prevedere. Non ha tempo (ma neanche voglia) di cagare la moglie (Andie Mac Dowell) che è talmente annoiata dal lusso e dal dolce fra niente che decide di andare in Guatemala: "Hai voglia di squallore?" è la risposta di Mike… Tra una telefonata e l’altra Mike si accorge di avere nella propria e-mail un corposo dossier su di un nuovo sistema di protezione messo a punto nientemeno che dalla NASA e dall’FBI. E’ a questo punto che entra in scena Ray, interpretato da un’immobile Gabriel Byrne, un programmatore della NASA prestato all’FBI per concludere un progetto di enormi dimensioni. Per debellare la criminalità è stato impiantato un fitto reticolo di telecamere in tutta la città, visibili da un centro di controllo situato nell’osservatorio astronomico che la domina. Ray si accorge ben presto che siamo ad un passo dal "grande fratello" quando nota che la telecamera non scorge solo criminali ma anche ragazze che piangono, code di auto silenziose, interni di abitazioni vuote e così via. Il cerchio si chiude quando due balordi sequestrano Mike Max per ucciderlo ma, nella scena seguente, è lui a uscirne miracolosamente vivo mentre ai due è stata staccata la testa. Il detective Doc (Lauren Dean) è incaricato di seguire il caso mentre Mike Max si rifugia dai giardinieri messicani. Doc è quello che rappresenta il cinema Hollywoodiano per Wenders. Veste sempre in modo classico ed elegante, si muove sempre atteggiato, si innamora della bellona-che-tutti-credono-una-scema-ma-ha-anche-dei-sentimenti, si fida del suo fiuto ma non di quello dei due collaboratori, ecc. Nel frattempo Paige, la moglie di Max, è diventata proprio come quel marito dal quale voleva fuggire, impegnata, asettica, superiore. Mentre Max scopre di amarla ancora, lei va a letto col ricco gangstarapper Six, non prima di averlo visto difendere quel genere musicale che parla così realisticamente di un mondo che non gli appartiene certo più. Insomma basta. Il film dura due ore, i personaggi sono tanti e la storia fatica veramente a districarsi e distendersi sotto ai nostri occhi. Wenders sembra non trovare mai il tempo giusta o la scena migliore per dirci che la violenza non è solo fatta di sangue e coltelli ma può essere più
subdola, che la violenza non è solo dietro l’angolo ma anche sopra e dentro di noi, che l’immagine è solamente una proiezione di quello che siamo. E dire che è anche stato tagliato! "Definisci la violenza", chiede a tutti la bellona ma forse dovrebbe chiederlo proprio a Wenders che con "Crimini invisibili" si spreca nel filmare in modo affascinante, ma per lui già consueto, qualcosa che non parla, scene che non raccontano tutto e dialoghi che non sfociano dove dovrebbero. Convince invece la scelta di Hollywood, una Hollywood che non vediamo sfavillante di luci o attraverso le scenografie posticce di qualche set ma come una città qualcunque attraverso le finestre degli ambienti, dalla cima di un monte, dalle baracche degli immigrati.
Wenders non convince
Michele Benatti