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Senza fine

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Senza fine

Mi dispiace signor Smith, sua moglie non ce l’ha fatta, è morta 20 minuti fa. Gli rimbombavano ancora nella mente quelle fredde, agghiaccianti parole che il dottor nonmiricordopiùcomesichiama gli aveva pronunciato al telefono.
Adesso era lì sulla statale 101 che viaggiava speditamente verso Derry sulla sua Ford. Erano le 23, sperava di arrivarci per mezzanotte. Era sconvolto e molto provato, forse avrebbe dovuto dare ascolto a James che gli aveva offerto la sua compagnia per il viaggio ma lui, testardo come al solito, aveva preso la macchina ed era partito. Guardava verso nord-ovest le nuvole nere che preannunciavano un temporale imminente. Dalla radio le note di Sitting of the dock of bay cercavano invano di rendere meno triste l’atmosfera. La strada era deserta e per questo poteva premere sull’acceleratore senza prestare troppa attenzione. Pensava a Clorinne, al motivo per cui era andata a Boston, all’incidente. Era distrutto. E’ vero, avevano ottenuto da parecchio tempo la separazione, erano ormai passati due mesi da quando l’aveva vista per l’ultima volta, ma non poteva dimenticare tutto quello che c’era stato fra loro, dopotutto un tempo, anche se remoto, aveva amato quella donna. Una lacrima gli solcò la guancia. Aveva perso quel poco di concentrazione che conservava alla guida quando una sagoma apparve all’improvviso davanti all’automobile. Lo scontro fu inevitabile. l’ostacolo urtò contro il parabrezza, mandandolo in frantumi, per poi ricadere a lato della vettura che Simon riuscì a fermare soltanto dopo una ventina di metri. Cos’era, si chiese atterrito, un’animale forse, anche se grosso, grosso come… sbiancò all’idea, un uomo, poteva anche essere un uomo. Uscì dalla vettura temendo il peggio. Sul ciglio della strada riverso sull’asfalto c’era una sagoma scura. Distava più di una dozzina di metri, ma anche da quella distanza poteva capire che i suoi dubbi erano fondati. Era un assassino, aveva ucciso un uomo.
E adesso?! gli avrebbero ritirato la patente, rischiava il carcere.
Era omicidio colposo. Ma come avrebbe potuto evitarlo? Cosa diavolo ci faceva in mezzo alla strada a oltre 4 chilometri dal più vicino centro abitato. Ma queste non erano certo delle attenuanti, avrebbe potuto benissimo evitarlo se non fosse stato per il fatto che non era attento alla strada. Avrebbe potuto evitarlo. Ma forse non era ancora morto, era solo ferito, forse nemmeno gravemente, doveva soccorrerlo. Un tuono irruppe nell’aria, il temporale era ormai vicino. In macchina aveva una di quelle valigette pronto soccorso, avrebbe potuto prestargli le prime cure in attesa di… in attesa di un cavolo, erano tre quarti d’ ora che aveva imboccato quella strada e non aveva incrociato nessuna altra automobile, inoltre la sua macchina aveva il lunotto infranto e quindi non poteva né chiamare l’ambulanza, né (e a questa eventualità aveva pensato fin dal primo momento) scappare. Non gli rimaneva che aspettare, primo o poi, qualcuno sarebbe passato di lì. Prese la cassetta del pronto soccorso. Un altro tuono. Raccolse una torcia elettrica e un plaid con il quale avrebbe potuto avvolgerlo. Il cielo tuonò ancora dopo di che incominciarono a scendere le prime gocce.
Anche la pioggia, questa proprio non ci voleva, avrebbe reso tutto più difficile. Incominciò ad avvicinarsi al corpo a passi lenti. Giunto a cinque, sei metri di distanza accese la pila per vedere un po’ meglio. Si trattava di un uomo con i capelli corti e brizzolati, era di corporatura media e da una prima occhiata, anche senza vederlo in faccia, pareva fosse sulla quarantina (poteva benissimo essere suo coetaneo). Fece ancora qualche passo in avanti. La pioggia adesso cadeva molto più forte. Non
riusciva a staccare gli occhi da quel corpo immobile, c’era qualcosa che lo colpiva. Era come se gli ricordasse qualcuno. Si avvicinò ancora. Era ormai ad un paio di metri quando realizzò il perché di quella strana sensazione. Impallidì, non era possibile era solo una allucinazione. Strabucchiò gli occhi, niente, non era cambiato. Era come se si stesse vedendo allo specchio. Quel fagotto insanguinato ai suoi piedi era identico a lui. Gli girava la testa. Stava impazzendo, non c’era altra spiegazione. Si mise a correre, così alla cieca, senza una meta precisa ma con il desiderio di allontanarsi il più possibile da quel posto. Non vide una buca sulla strada e cadde picchiando violentemente il capo.

Riprese i sensi. Aveva smesso di piovere e lui si trovava lì disteso sull’asfalto. Era confuso, non ricordava bene come fosse finito in quel posto. Sentì il rumore di un’automobile che stava sopraggiungendo lungo la strada. Avrebbe potuto chiedergli aiuto. Cercò di alzarsi in piedi ma con sua grande sorpresa si accorse che il piede si era incastrato in un buco dell’asfalto. Non riusciva a capire come diavolo aveva fatto a infilarci dentro la gamba. Diede uno strattone, nulla, non ne voleva sapere di liberarsi. Nel frattempo la macchina si avvicinava e sembrava avere una velocità sostenuta. Cercò di aiutarsi con le mani ma nemmeno questa volta ottenne il risultato desiderato. Alle sue orecchie nel frattempo sopraggiungevano, mischiandosi al rombo del motore, le dolci note di una vecchia canzone di Otis Redding di cui non si ricordava il nome. Provò ancora a districarsi, niente. Poco male, tanto fra qualche istante avrebbe potuto servirsi dell’aiuto di quell’ignoto automobilista. Alzò le braccia per segnalare la sua presenza. La macchina sembrava non rallentare, evidentemente non l’aveva ancora notato. Fece ancora segno di fermarsi. La macchina anziché rallentare sembrava stesse accelerando. Ormai era vicina. Perché non lo vedeva. Se non avesse rallentato lo avrebbe certamente investito. Gesticolò ancora. Niente, niente, assolutamente niente. Guardò impotente l’automobile, una vecchia Ford, come la sua, sopraggiungere. Tentò per l’ultima volta di liberarsi da quella morsa, ci riuscì, ma era tardi. Fu questione di un attimo, l’urtò, il rumore di vetri infranti, una brusca frenata e poi la fine.

Michele Brustia

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