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Offresi lavoro pesante e malpagato

16 min read

«Offresi lavoro pesante e malpagato, …
solo a bambini sotto i 15 anni»


"In Africa […] non c’è tempo per restare bambini!"
(da Mi manca Topolino, di D. Franzi e C. Giorgi)

i.
Introduzione

Il lavoro minorile e il suo sfruttamento rappresentano due aspetti di un unico fenomeno oggi spesso usato dai media per parlare di infanzia, ma di cui raramente si intuiscono i caratteri propri, le cause e le reali conseguenze che involvono problematiche e discipline appartenenti a molte e differenti scienze, dal diritto all’economia, dalla sociologia alla pedagogia.

Per introdurre questa disamina sul dibattito che a livello internazionale si sta conducendo sul tema vorrei per prima cosa contribuire a gettare un po’ di luce su alcuni "luoghi comuni" che spesso accompagnano i discorsi sui minori e il lavoro.
Per esempio, è usuale sentire o leggere che il lavoro minorile è una piaga propria dei paesi in via di sviluppo, mentre stando alle stime più attendibili e, comunque, appena approssimative data la natura del fenomeno considerato, risulterebbe che nel Regno Unito siano tra il 15% e il 26% i bambini di 11 anni che svolgono un’attività lavorativa anche saltuaria e tra il 36% e il 66% quelli di 15 anni1. Questo fenomeno è comune a tutti i paesi industrializzati e risulta ancor più negativo se lo si considera alla luce delle politiche sociali ivi promosse per le quali risulterebbe assodato il primato del diritto a un’istruzione obbligatoria e gratuita per tutti e la garanzia della vigilanza delle autorità preposte sulle categorie particolarmente meritevoli di tutela, quali i minori.

In secondo luogo, ci si scusa del lavoro minorile considerandolo appendice necessaria della povertà e, quindi, inevitabile e ineliminabile come la povertà stessa; sicuramente vi è uno stretto legame tra povertà e lavoro minorile, ma non si deve pensare che unico modo per debellare il suo sfruttamento sia quello di procedere a una nuova ed equa ridistribuzione delle ricchezze a livello planetario, utopica e inutile. Sono, invece, le iniziative mirate specificamente all’infanzia che possono e debbono portare a un miglioramento delle condizioni di vita dei bambini e al rispetto generalizzato dei loro diritti, tra i quali quello di poter crescere e diventare uomini e donne completi, in maniera più concreta e verificabile, come è avvenuto in conseguenza del Summit mondiale sulla Protezione e lo Sviluppo dell’Infanzia, tenutosi a Roma nel 1990, dopo il quale la maggior parte degli Stati della comunità internazionale, già aderenti alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989, ha adottato nei propri ordinamenti misure per tutelare maggiormente i minori2.

Terzo luogo comune, è quello per cui l’impiego più consistente di mano d’opera infantile sarebbe proprio delle grandi firme multinazionali che producono, nei paesi del Sud del mondo, beni destinati ai mercati dei paesi ricchi. Ci si dimentica che, se scarpe da ginnastica e tappeti hanno richiamato l’attenzione delle cronache per l’impiego anche massiccio di manodopera infantile, un numero ben più grande e inimmaginabile di bambini è impiegato nell’agricoltura non estensiva, nel commercio al dettaglio, nell’edilizia, nelle attività estrattive, nei lavori domestici, nella prostituzione, lasciando quindi all’industria per l’esportazione verso i paesi ricchi solo il 5% degli occupati3. Se ponessimo sotto processo tutte le multinazionali del mondo, riusciremmo quindi a intaccare appena il problema senza capirne la reale portata.

Da ultimo, pare, sentendo alcuni azzaccagarbugli della globalizzazione, che unica e semplice soluzione al problema consisterebbe nell’applicare un’azione combinata di opinione pubblica e governi, tramite il boicottaggio e le sanzioni economiche, ai casi di palese violazione dello stato di diritto. Non ci si rende conto che, così facendo, si svuota di significato il lento, progressivo ed efficace lavoro che organizzazioni internazionali governative e non governative stanno compiendo da anni in tutto il mondo con programmi mirati al recupero dei bambini-lavoratori, al sostegno delle economie familiari, all’affiancamento di ore-studio alle ore-lavoro4, oltre a non considerare le conseguenze spesso nefaste di misure economiche sanzionatorie che andrebbero a colpire, ancora una volta, quelle fasce di popolazione più debole e bisognosa, in primis i bambini5, senza intaccare i veri responsabili dello sfruttamento.

Ma cosa, cosa veramente intende la comunità internazionale, composta da Capi di Stato e di Governo e rappresentanti dei popoli, quando si dibatte, ci si interroga, si discute e si cercano soluzioni allo sfruttamento dell’attività lavorativa dei minori?

ii.
Il diritto internazionale pertinente

La comunità internazionale si è preoccupata di regolamentare lo svolgimento di attività lavorative da parte dei bambini sin dal 1919, anno in cui, in occasione della prima riunione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, venne adottata la Convenzione sull’Età Minima per i lavoratori dell’industria6. Ratificata allora da ben 72 nazioni, questo strumento fissava a 14 anni l’età minima per i lavoratori di certi settori dell’economia e rappresentò il primo tentativo per porre un freno all’impiego crescente di bambini nell’industria. In seguito, accordi specifici estesero la sua applicabilità agli altri settori lavorativi.

Nel 1930, poi, fu approvata la Convenzione sul Lavoro Forzato7 che, se pur non menzionava in nessun articolo i bambini, stabiliva l’abolizione di tutte le forma di lavoro forzato o coatto dandone al contempo una soddisfacente definizione8.

Ma fu il ventennio tra il 1966 e il 1989 il periodo in cui videro la luce gli strumenti convenzionali di diritto internazionale dal respiro più ampio.

Il 1966 fu l’anno del Patto Internazionale relativo ai Diritti Civili e Politici e del Patto Internazionale relativo ai Diritti Economici, Sociali e Culturali9, adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite quale completamento della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948.
Se nella prima si può trovare all’art. 8 il divieto di tenere qualcuno in condizioni di schiavitù o servitù e di esigere lavori forzati o coatti, è nella seconda che, all’art. 10.3, si richiede espressamente agli Stati contraenti di predisporre misure idonee alla protezione dei minori dallo sfruttamento e dall’impiego in attività lavorative che potrebbero nuocere alla loro salute o crescita armoniosa. Al contempo, impegna i Paesi firmatari a stabilire nei propri sistemi ordinamentali un’età minima per l’ingresso nel mondo del lavoro e misure sanzionatorie per chi violasse tali disposizioni.

Nel 1973, quindi, l’ILO vara la Convenzione sull’Età Minima di Ammissione al Lavoro10 che abroga i precedenti strumenti promananti dalla stessa Organizzazione e trova applicazione in tutti gli ambiti lavorativi. Gli Stati si impegnano a perseguire politiche volte alla totale abolizione del lavoro minorile e si stabilisce, al contempo, che nessun individuo possa essere ammesso al lavoro se di età inferiore a quella stabilita per il completamento dell’istruzione scolastica obbligatoria e, comunque, non prima dei 15 anni, che si elevano a 18 per quelle attività che possono in qualunque modo compromettere la salute, la sicurezza o la moralità del soggetto. Purtroppo questo atto non ha ricevuto il consenso auspicato e non può quindi essere considerato l’espressione di un diritto internazionale universalmente accettato.

È poi il 1989 l’anno più importante nella difesa e promozione dei diritti dell’infanzia: viene approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia11, strumento internazionalistico che, ad oggi, conta il maggior numero di ratifiche12. In essa, per la prima volta, vengono affrontati come un unicum indivisibile tutti gli aspetti che compongono il mondo dell’infanzia considerandoli tra di loro strettamente interconnessi per un equilibrato sviluppo della persona. Si potrebbe allora affermare che tutte le disposizioni che riconoscono diritti quali quello alla salute, allo studio, a un ambiente sano, al riposo e allo svago, esplichino la loro efficacia nel settore del lavoro minorile e lo si potrebbe fare senza tema di errare, ma tra gli articolati della Convenzione si può anche trovare una norma ad hoc, l’art. 32, che enuncia il diritto dei bambini di essere tutelati da forme di lavoro che, impegnandoli, possano comportare rischi e comprometterne la salute, l’istruzione o lo sviluppo, e impone agli Stati di stabilire delle età minime per l’ammissione al lavoro e di regolamentare le loro condizioni lavorative. Se l’entusiasmo è la prima reazione davanti a simile magna charta dei diritti dei bambini, bisogna subito ridimensionarne la portata dal momento che essa contiene in se i suoi stessi limiti: il desiderio di renderla quanto più universale possibile, e quindi accoglibile subito da tutti, ha fatto sì che molte sue disposizioni si presentino come inviti agli Stati contraenti di impegnarsi per il raggiungimento di un certo obiettivo comune e non come un vero e proprio riconoscimento di un diritto in capo al soggetto meritevole di tutela giuridica, quasi frutto di un compromesso politico-diplomatico; inoltre, la facoltà lasciata agli Stati di presentare riserve o dichiarazioni interpretative all’atto della ratifica, ha di fatto svuotato di significato la portata rivoluzionaria dei disposti dalla Convenzione per intere aree geografiche ove il peso della tradizione risulta ancor oggi più forte delle esigenze di protezione dei diritti umani13.

Comunque sia, si deve riconoscere che enormi passi avanti sono stati compiuti verso una reale tutela dei bambini dallo sfruttamento del loro lavoro anche se molto resta ancora da fare sia al livello della produzione normativa, sia a maggior ragione a quello della sua applicazione14.

iii.
Cosa si intende per "minore"

Nonostante le numerose definizioni che si possono evincere dagli strumenti normativi giusinternazionalistici di cui sopra, una nozione unitaria e univoca di minore, bambino, fanciullo (enfant, children, niño) non è rinvenibile, motivo per il quale, mentre l’opinione pubblica continua a parlare di "bambini lavoratori" o di "lavoro minorile" credendo di aver ben presente quali siano i soggetti delle proprie attenzioni, gli operatori del diritto necessitano di categorie precise (motivo per il quale, come si evince dalla veloce panoramica sopra delineata, massima preoccupazione di tutti gli atti convenzionali succedutisi e sovrappostisi a regolamentare la materia risulta essere la fissazione di una età limite per l’impiego legittimo di lavoratori).

L’impiego del termine minore risente di un certo eurocentrismo culturale dal momento che è tipico della cultura giuridica del vecchio continente la categoria del minorenne quale soggetto ancora incapace di comportamenti produttivi di effetti giuridici se non assistito da un esercente la potestà proprio a causa della sua immaturità e vulnerabilità sociale.

Ma parlando di lavoratori di giovane età il problema si complica e la normativa pertinente diviene caotica e fonte di molteplici e differenti interpretazioni.

La definizione di bambino che, a mio giudizio, più risponde alle esigenze dei tecnici si trova all’art. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989, ove si enuncia che è considerato bambino, e quindi soggetto destinatario delle disposizioni della stessa Convenzione, ogni essere umano di età inferiore ai diciotto anni15. Lo stesso articolo contiene diverse limitazioni: nella prima parte si dice che tale definizione è valida ai fini dell’applicazione della stessa e, si potrebbe aggiungere sola, Convenzione internazionale escludendo quindi una validità generale, mentre nella seconda parte si riconosce agli Stati contraenti la possibilità di derogare a tale disposizione se il proprio ordinamento nazionale pone un differente limite per il raggiungimento della maggiore età.

Parrebbe allora impossibile stabilire una definizione giuridica universalmente valida per la materia che qui ci interessa, considerando anche il fatto che limiti molto variabili sono applicati dai vari Paesi per le varie attività lavorative, come ad esempio 12 anni in Egitto, 14 nelle Filippine, 15 ad Hong Kong, addirittura 14, 15, 16 o 18 (a seconda dei settori) in Perù16. Ma si deve altresì considerare che la stessa Convenzione sui diritti dell’infanzia risulta essere, per il consenso di cui sopra, espressione di un diritto internazionale inteso come proprio della comunità internazionale, tanto da far ritenere l’enunciato dei suoi articolati patrimonio comune dell’umanità. Pure le riserve presentate sono spesso nella direzione evolutiva del suo dettato normativo, tant’è che nessuno Stato ha inteso esimersi dalla stretta osservanza della prima parte dell’art. 117. Da questo sembrerebbe chiaro che per bambino si intende il soggetto fino al compimento dei diciotto anni di età, ma da qui a considerare vietata ogni e qualsiasi forma di lavoro di tali soggetti il passo non è agevole a farsi, e risulterebbe erroneo quindi continuare a parlare di lavoro minorile, utilizzando nel senso sopra delineato la categoria minore senza ulteriori specificazioni, e stigmatizzandone tutte le sue forme. Le stesse legislazioni lavoristiche di Paesi industrializzati quali quelli delle Comunità Europee riconoscono, a certe condizioni, la possibilità di impiego in certi settori (come lo spettacolo) di bambini anche in tenera età e pure la Convenzione dell’ILO sull’età minima non riconosce un unico limite.

iv.
Cosa si intende per "lavoro"

Da quanto detto prima si capisce come, mentre l’espressione, abusata, di "lavoro minorile" evoca immagini di dickenseniana memoria, è necessario trovare precise coordinate per condurre una battaglia che possa portare a risultati concreti e non correre il rischio di combattere contro mulini a vento e avere la peggio.

Assodato che la piaga di cui stiamo trattando non riguarda ogni forma di impiego di soggetti di meno di diciotto anni, prendiamo in considerazione la definizione che diede l’UNICEF18 qualche anno fa quando, cercando di delimitare l’oggetto dei propri interventi, evidenziò che le caratteristiche nefaste che portavano ad avere sfruttamento del lavoro infantile erano:
– un’occupazione a tempo pieno in età precoce;
– un elevato numero di ore lavorative;
– un’indebita pressione fisica, sociale o psicologica;
– delle cattive condizioni di vita;
– una paga inadeguata;
– la presenza di eccessive responsabilità;
– l’impossibilità di ricevere una adeguata istruzione scolastica;
– la compromissione della dignità e del senso di autostima;
– il pregiudizio al completo sviluppo sociale e psicologico.

Tali elementi non debbono essere tutti contemporaneamente presenti e, inoltre, l’elenco non si considera esaustivo ma semplicemente esemplificativo. Il suo valore risiede nell’essere il prodotto di un attento studio della realtà mondiale condotto dal soggetto più qualificato per la tutela dei diritti e del benessere dell’infanzia e valido quindi come linee-guida per gli operatori del settore (legislatori nazionali e internazionali, operatori del diritto, educatori, operatori economici, parti sociali, società civile).

v.
Le posizioni etiche

Gli studiosi, davanti a un simile scenario, sono divisi e, io mi permetto di aggiungere, confusi: simile confusione risulta altresì dalle molteplici posizioni etiche manifestate dagli operatori del settore che, in sintesi, possono raccogliersi intorno a tre poli19.

Il primo polo vede schierati tutti coloro che ritengono che quelle forme di lavoro nelle quali vengono impiegati soggetti di giovane o giovanissima età siano del tutto legittime essendo espressione del diritto di ogni essere umano di svolgere una attività e trarne profitto. Logicamente, date le particolarità dei lavoratori de quo, si ritiene necessaria una regolamentazione specifica e dettagliata. Secondo i sostenitori di questa posizione, ritenuta abbastanza estremistica e inaccettabile dalle organizzazioni internazionali che si occupano del problema (in primis, ILO e UNICEF), in questo modo i bambini lavoratori goderebbero di una reale tutela e potrebbero finalmente far valere i propri diritti di lavoratori al pari degli adulti attivando i tradizionali canali sindacali20. Queste posizioni sono riassunte nella formula del "diritto dei bambini al lavoro".

Il secondo gruppo di operatori, considerando con prevalenza dati econometrici e sociali, ritiene che, nonostante il lavoro minorile sia criticabile per differenti suoi caratteri, ciò nondimeno risulta necessario agli equilibri economici della società in cui sono inseriti sia dal punto di vista micro (la famiglia) che macro (la comunità locale o nazionale) o, se pur non necessario, venga considerato utile all’educazione stessa del bambino. Questa posizione non considera quelle forme estreme di sfruttamento del lavoro che rasentano la riduzione in schiavitù o, quando lo fanno, non ritengono parificabili i due fenomeni, riservando gli strali di condanna solo per queste ultime. Simile punto di vista, proprio delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite (ILO e UNICEF), se da una parte si pone rispettosamente in relazione con le diversità sociali e culturali dei diversi popoli svolgendo analisi e valutazioni distinte per realtà a loro volta distinte, dall’altra parte rischia di aprire il fianco a pericolose interpretazioni relativistiche che potrebbero consentire giustificazioni altrettanto pericolose di fenomeni che ripugnano alla coscienza dei più21.

Infine, il terzo e più nutrito gruppo, anche se non sempre parimenti preparato, sostiene in maniera radicale l’inaccettabilità di ogni forma di lavoro in cui siano impiegati bambini, di qualunque età essi siano e qualunque sia la natura del lavoro. Specifico dell’età del bambino risulta essere il bisogno di cure e di formazione per affrontare nella maniera più adeguata il domani, cose queste incompatibili con un impegno lavorativo; obiettivo delle azioni promosse dai sostenitori di questa posizione è quindi quello di strappare i bambini che lavorano dai loro sfruttatori per ricondurli in un ambiente sano, costituito da famiglia e scuola, a volte senza considerare che proprio la famiglia può rappresentare il soggetto che ha condotto o che utilizza il bambino o che non sempre esiste un sistema scolastico realmente aperto a tutti.

vi.
Strade percorribili

Ma l’essere umano, come tutti gli altri animali evoluti, è dotato di spirito di sopravvivenza e, proprio grazie a questo suo istinto naturale saprà difendere i suoi cuccioli e, con essi, il futuro che rappresentano anche da questo pericolo. Come, non è facile a dirsi.

L’UNICEF, nel suo rapporto annuale 1997 dedicato al lavoro minorile22, suggeriva alcuni provvedimenti ritenuti urgenti per affrontare adeguatamente questo fenomeno tra i quali l’immediata eliminazione del lavoro minorile in condizioni pericolose e di sfruttamento, non quindi del lavoro tout court; la garanzia legale di un’istruzione obbligatoria e gratuita, magari affiancata a forme di lavoro più tollerabili per un sano sviluppo dei bambini; una maggiore tutela legale per i soggetti particolarmente meritevoli quali i minori di anni diciotto; la capillare registrazione anagrafica dei neonati per assicurare l’esistenza legale di ogni soggetto e, di conseguenza, la capacità di essere titolare di diritti e centro di imputazione giuridicamente rilevante; la raccolta di dati e il controllo del fenomeno lavoro infantile condotto in stretta collaborazione fra autorità locali, organizzazioni internazionali governative e non, rappresentanti delle parti sociali direttamente interessate; l’applicazione di codici di condotta per gli operatori economici dei vari settori, produttivi e non, ove possano trovare impiego i bambini (e, abbiamo visto, sono innumerevoli).

Qualunque sarà la strada che verrà percorsa, tre sono le parole d’ordine che si devono sempre tenere presenti per un’azione che voglia essere efficace: prevenire, disincentivare, riabilitare. Prevenire l’impiego di bambini in attività lavorative che possano nuocere loro, disincentivarlo ove già in atto e recuperare quei bambini che abbiano conosciuto in maniera traumatica il fenomeno lavoro23: solo così normative nazionali e internazionali, programmi di intervento, manifestazioni o cos’altro potranno aspirare ad essere significativi e lasciare un segno affinché il nostro mondo sia un po’ migliore di come lo abbiamo trovato24.

Davide Caocci


"Se non si abbassa lo sguardo non si incrocia lo sguardo dei bambini. […]
i bambini infatti sono più vicini alla terra e, come la terra, vulnerabili e indifesi […],
ma spesso non ci si abbassa per alzare un bambino, per farlo giocare, per aiutarlo a crescere.
Ci si abbassa per altri motivi
"
(Sentenza del Tribunale permanente dei popoli sulle violazioni dei diritti dell’infanzia e dei minori, 1995)

Immagine
"Mamme-bambine o bambine-mamme?", Korr-Marsabit-Kenya, 2000 © Giuseppe Marando
Per gentile concessione

1
Cfr. International Working Group on Child Labour, Child Labour in Britain, London, X-1995, p. 34.

2
Si vedano gli atti del Summit sulla Protezione e lo Sviluppo dell’Infanzia, Dichiarazione mondiale sulla sopravvivenza, la protezione e lo sviluppo dell’infanzia e Piano d’azione, traduzione a cura di Unicef-Italia, Roma, 1990.

3
Cfr. US Bureau of International Labor Affairs, By the Sweat and Toil of Children: The use of child labor in US manufactured and mined imports, vol. 1, US Departement of Labor, Washington, D.C., 1994, p. 2.

4
Si veda, per esempio, l’IPEC (International Programme on the Elimination of Child Labour) dell’ILO, partito nel 1991.

5
Si ricordi, per esempio, il caso del progetto di legge Harkin, nel 1992: presentata al Congresso degli Stati Uniti con l’intento di impedire le importazioni di beni prodotti con l’impiego di manodopera minorile, provocò ancor prima di essere approvata una ondata di panico in certi paesi fornitori, tra cui il Bangladesh, le cui industrie procedettero al licenziamento in tronco dei piccoli lavoratori, di poi costretti in condizioni sociali e lavorative ancor peggiori.

6
Si veda ILO, Minimum Age (Industry) Convention, n. 5.

7
Si veda ILO, Forced Labour Convention, n. 29.

8
Il termine lavoro forzato o coatto comprende tutti i lavori e servizi pretesi con la minaccia di punizioni e per i quali l’individuo non si offre volontariamente.

9
Si vedano UN, International Covenant on Civil and Political Rights e International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights.

10
Si veda ILO, Minimum Age Convention, n. 138.

11
Si veda UN, Convention on the Rights of the Child.

12
Sono solo due i membri della comunità internazionale che, ad oggi, non hanno ancora depositato i propri atti di ratifica della Convenzione.

13
Si vedano, ad esempio, le riserve e dichiarazioni interpretative depositate all’atto della ratifica dai Paesi di cultura islamica che, uno ad uno, svuotano di qualunque significato i diritti riconosciuti dalla Convenzione del 1989.

14
Può essere interessante gettare anche uno sguardo a quello che il diritto internazionale regionale dice in proposito, dal momento che ove le differenze culturali e sociali sono attenute dovrebbe risultare più agevole trovare una efficace soluzione a un problema comune: ed ecco allora che la Carta Sociale Europea adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa, già nel 1961 enunciava agli artt. 7 e 17 il divieto del lavoro minorile e stabiliva la fissazione di limiti di età, con precisi impegni per le autorità nazionali e le parti sociali; allo stesso modo la Carta Africana dei Diritti e del Benessere del Bambino, adottata in seno all’Organizzazione dell’Unità Africana nel 1990, enuncia dirittti del minore e doveri degli Stati nel suo art. 15 dedicato proprio al lavoro.

15
Cfr. UNICEF-Italia, Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, Roma, 1990.

16
Cfr. A. Bequele – J. Boyden, Combating Child Labour, Geneva, 1988, p. 10.

17
Cfr. D. Caocci, Nuova interpretazione della figura di fanciullo in diritto internazionale, Milano, 1996, p. 28.

18
Cfr. UNICEF, Explotetion of working children and street children, New York, 1986, p. 3.

19
Cfr. Save the Children, Small hands, Children in the Working World, London, 1998, p. 15.

20
È questa la posizione espressa anche ultimamente da alcune ONG operanti in America Latina, e rappresentanti associazioni spontanee di bambini-lavoratori (niños trabajadores).

21
Si consideri, ad esempio, l’aberrante giustificazione dell’impiego di bambine nel mercato della prostituzione in alcuni Paesi dell’estremo oriente motivato da ragioni economiche e culturali della specifica realtà in cui le stesse sono inserite.

22
Cfr. UNICEF, The State of the World’s Children 1997, Oxford, 1996, pp. 76-77.

23
Cfr. Mani Tese (a cura di M. Correggia – S. Ferrari), Il lavoro infantile nel mondo, Roma, 1998, pp. 8-11.

24
Cfr. D. Caocci – M. Finelli, Il dibattito internazionale, in Pianeta Infanzia-Questioni e documenti, Dossier monografico Minori e lavoro in Italia: questioni aperte, Istituto degli Innocenti di Firenze, Febbraio 1999, pp. 24-42.

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