Parafrasando una riuscita battuta di un noto giornale satirico si potrebbe dire che" Andreotti è stato assolto perché aveva i deflettori regolari", ebbene sì, quasi contemporaneamente alla "assoluzione" della ferrari abbiamo assistito anche a quella del senatore a vita Giulio Andreotti dalla accusa di essere un mafioso e il mandante dell’omicidio di Mino Pecorelli. C’è chi dice che era una sentenza inevitabile perché riconoscere Andreotti come colpevole era equivalente ad affermare che il nostro Paese per molti anni è stato dominato e controllato dalla mafia . Io non sarei così pessimistica e non considererei tanto deludente l’attività dei giudici. Ritengo che abbia fatto discutibili manovre politiche ma nessun intrigo delittuoso, sicuramente ha esercitato per decenni il potere con tutti i compromessi che questo può comportare. Penso che l’accusa al senatore a vita sia nata dalle caratteristiche dell’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata: emotivo, episodico, fluttuante, motivato solo dall’impressione suscitata da un dato crimine o dall’effetto che una particolare iniziativa governativa può esercitare sulla opinione pubblica invece che capillare e risolutivo dei problemi che sono alla base dell’emergenza mafia. Certo è più facile cercare dei capri espiatori piuttosto che concentrarsi su soluzioni concrete. La vicenda del senatore a vita permette di accostarsi a uno spinoso problema: il rapporto tra stato e mafia. Perché lo stato italiano non ha ancora sconfitto l’associazionismo mafioso? Sicuramente per l’appoggio della società civile su cui la criminalità organizzata può contare, per il malcontento generale del meridione nei confronti dello Stato, causato per lo più dalla piaga della disoccupazione. Inoltre lo Stato italiano è relativamente giovane (poco più di 100 anni) e per vent’anni è stato dominato da un regime fascista in cui era abolita ogni dialettica democratica, poi la Democrazia Cristiana ha monopolizzato il potere anche se affiancata da alleati occasionali, l’opposizione quindi nella lotta alla mafia ha confuso la lotta politica contro la dc con le vicende giudiziarie nei confronti degli affiliati a Cosa Nostra. Per altro questo errore si è verificato anche nel caso di Andreotti: dopo l’ assoluzione si sono moltiplicate le parole di soddisfazione e di congratulazione da parte dei politici della ex dc e le aspre critiche degli uomini dell’opposizione. Veramente vergognoso è stato poi a mio parere il tentativo posto in essere dopo la sentenza Andreotti di riportare in Italia Craxi come cittadino libero, quasi come se la sentenza di proscioglimento del senatore a vita dovesse tradursi in una sanatoria per tutti i politici della prima Repubblica ,qualunque fosse il reato commesso. Precisiamo, non sono contraria a un ritorno di Craxi per consentirgli di sottoporsi a cure mediche ma non può ammettersi che gli siano condonati i reati e torni da cittadino libero. Per tornare al rapporto tra Stato e mafia ritengo ,come affermava Falcone, che la mafia non s’impegna volentieri nell’attività politica, i problemi politici non le interessano più di tanto a meno che questi non minaccino le sue fonti di guadagno e la sua sicurezza. Spesso si "accontenta " di far eleggere amministratori e politici per orientare il flusso della spesa pubblica e per approvare leggi ad essa favorevoli. Oltre a questo può intervenire per assicurarsi quei piccoli servizi di ordinario clientelismo elargiti dai politici. E’ sicuramente la mafia, osservava ancora Falcone, ad imporre le sue condizioni, essa infatti per sua stessa definizione non trova interesse per l’attività politica la cui funzione principale è , o dovrebbe essere, la cura degli interessi generali, ciò che importa alla mafia è la sua sopravvivenza e nient’altro. Ritengo, in conclusione, di non poter condividere, così come il magistrato ucciso, l’esistenza di un "terzo livello" inteso come qualcosa esistente al di sopra di Cosa Nostra ove si troverebbero i veri responsabili degli omicidi politici costituito da massoni, banchieri, alti burocrati dello stato e capitani d’industria che impartirebbero ordini alla Cupola. Questa idea in realtà deriva da una distorsione di una relazione condotta da Giovanni Falcone e da Turone nel 1982, in cui essi avevano individuato i delitti della mafia inevitabili, posti al primo livello, connaturati alla stessa esistenza della criminalità organizzata, quali contrabbando, estorsioni, sequestri di persona; al secondo posto c’erano i delitti non essenziali ma che costituivano diretta conseguenza dell’attività dell’organizzazione; restavano i delitti del terzo livello né eventuali né strutturali ma commessi per garantire la sopravvivenza della mafia, ad esempio l’omicidio di un prefetto, un commissario di polizia , un giornalista. A causa di una profonda distorsione tale TERZO LIVELLO è stato inteso come il "vecchio burattinaio" che dall’alto della sfera politica tira le fila della mafia. Un conto quindi sarà parlare di compromessi e contatti tra politici e mafia e un altro parlare dell’esistenza di un vertice segreto che si servirebbe della mafia trasformandola in braccio armato di manovre politiche.
Rapporti tra Stato e Mafia
Francesca Sessa