Una notizia "sconvolgente" è passata sotto silenzio negli ultimi giorni a causa della tragica guerra che sta dilaniando la ex-Jugoslavia: la richiesta di ergastolo per Giulio Andreotti, l’uomo che per mezzo secolo è stato il simbolo vivente del potere, di un potere così sicuro di sé da fargli rispondere ad ogni attacco con la grande ironia di un estremo cinismo che lo ha portato a ribattere ai giornalisti che lo intervistavano: "Se vogliono far pagare a me i decenni di governo democristiano, io ripeto :non sono stato il commissario unico della Repubblica italiana". Veniamo ai fatti: lo scenario finale dell’accusa contro Giulio Andreotti si concretizza nella richiesta di ergastolo da parte dei pm di Perugia a causa dell’omicidio di Pecorelli, "giornalista scomodo" direttore della rivista OP (Osservatorio Politico, ex agenzia scandalistica diventata settimanale di fatti e notizie), egli fu ucciso la sera del 20 marzo 1979 da un killer che gli sparò contro un intero caricatore per volontà dell’allora presidente del consiglio (sempre stando alle dichiarazioni dell’accusa) e da Vitalone Il motivo era il fatto che il giornalista sapeva e voleva diffondere i segreti del caso moro e dello scandalo Italcasse. Questa è infatti una storia di finanziamenti illeciti, per un totale di 150 milioni che Andreotti ricevette da Nino Rovelli, presidente del gruppo Sir. Gli "assegni del presidente", così li definiva Pecorelli in un suo articolo che non fu mai pubblicato perché in una cena in un ristorante romano accettò di bloccarlo in cambio di trenta milioni. La vittima attraverso Carlo Alberto Dalla Chiesa conosceva anche la parte dedicata ad Andreotti e allo scandalo Italcasse del memoriale di Aldo Moro scritto durante la prigionia. Pecorelli con queste rivelazioni era una seria minaccia per il senatore. Vitalone si rivolse allora a due suoi "amici": i cugini Salvo; questi informarono Badalamenti e Bontate che misero in azione Pippo Calò, rappresentante di Cosa nostra a Roma, in contatto con la banda della Magliana. Il senatore aveva paura per la sua carriera politica. Andreotti secondo l’accusa avrebbe mentito su tutto: ha sempre affermato che non sapeva nulla della cena al circolo Piemontese in cui si cercò di convincere Pecorelli a non pubblicare il servizio sui fondi neri Italcasse. Voleva restare fuori da quella storia, non far sapere che i soldi li aveva presi lui. Poi c’è l’incontro con il boss mafioso Gaetano Badalamenti, lo rivela Buscetta a cui lo riferì lo stesso "don Tano".
Secondo il grande pentito di Cosa nostra accadde nello studio di Andreotti, nel 1979, c’era anche uno dei cugini Salvo. In quell’occasione si sarebbe parlato dell’aggiustamento di un processo, non si sarebbe fatto cenno a Pecorelli, ma per l’accusa dimostra dei contatti fra Andreotti e Cosa Nostra, esecutore materiale del delitto. L’ergastolo non è stato chiesto solo per il senatore a vita ma anche per Gaetano Badalamenti, per Pippo Calò e per Claudio Vitalone, ex ministro della Repubblica e magistrato.
Questo conclusosi con la richiesta dell’ergastolo è un processo indiziario, con un’accusa sostenuta da un complicatissimo mosaico di riscontri incrociati, di dichiarazioni di pentiti, di minuziose indagini sulle amicizie degli imputati. Un processo che per buona parte s’intreccia con quello di Palermo dove Andreotti rischia altri quattordici anni per concorso in associazione mafiosa. A proposito dei processi di Perugia e di Palermo, Ettore Gallo, presidente della corte costituzionale quando Andreotti era presidente del consiglio afferma: "Questi sono processi allo specchio e le difese ragionevolmente volevano celebrare un unico processo". Infatti a Palermo Andreotti è accusato di essere stato associato a Cosa Nostra e a Perugia di aver commissionato l’omicidio di Pecorelli servendosi di uomini della mafia. Naturalmente, sempre secondo Gallo, l’accusa della procura di Perugia sta in piedi solo se confermata da quella di Palermo. Se dunque i due processi non raggiungessero un esito omogeneo per quanto riguarda le sentenze o se non condividessero le responsabilità di Andreotti ad esempio affermando l’appartenenza a Cosa Nostra ma l’insufficienza di prove per il mandato ad uccidere Pecorelli verrebbe a determinare un conflitto logico tra le due pronunce. Quindi un’assoluzione a Palermo inficerebbe il presupposto logico di un’eventuale condanna a Perugia. Il senatore a vita potrebbe quindi chiedere la riunione dei due processi. Bisogna ricordare che le richieste di ergastolo dei pm non equivalgono a condanne ma è certo molto grave pensare che l’uomo chiamato a guidare il nostro Paese per molto tempo e che incarnava il potere democristiano sia accusato di delitti e reati così nefandi. Si dovrebbe riconoscere, se queste accuse risultassero fondate, che qualcosa si era incrinato in quel periodo nel rapporto fra governanti e governati, che i primi accecati dal potere e dal guadagno avessero "perso di mira" l’onestà, la rettitudine che devono appartenere alla classe politica e avevano cominciato a sentirsi onnipotenti, i secondi, invece si sentivano al sicuro da ogni controllo. Si era creata e consolidata una squallida convivenza tra la mafia che agognava al controllo del Paese e politici che non volevano certo perdere le loro poltrone. Forse questo molti lo hanno sempre sospettato ma ora, con la richiesta di ergastolo per Andreotti sembra quasi essere stato ricoperto di ufficialità. Gravissime poi, a mio parere, le reazioni di molti uomini politici di vari partiti che mostrano sdegno e rammarico per tale accusa riconoscendo nel senatore a vita un "pezzo della storia d’Italia"; certo questo sarà vero ma se questo"pezzo di storia" è negativo perché difenderlo a spada tratta? Alquanto irritante, infine, la dichiarazione di Craxi che, ridicolizza la gravità delle accuse chiedendosi perché ad Andreotti non sia stata imposta la pena di morte. Rimane solo da chiedersi se il ceto politico e chi ci vive alle spalle abbiano capito che almeno l’illusione dell’immunità totale, dell’omertà che tutto riesce a nascondere, dei giochetti subdoli e vincenti è finita, o almeno è stata fortemente intaccata, che non ci sono muri che riescono a contenere per sempre delitti, che anche la corruzione deve avere dei limiti.
E’ crollato il muro della intangibilità politica?
Francesca Sessa