Nell’angolo in fondo a sinistra del locale la luce non arriva mai se non a volte quasi per magica rifrazione accompagnata dal ronzio fastidioso dell’automobile (sicuramente di qualche residente) che, mossa da non so che impegno inderogabile, senza troppe smancerie si affretta a passare oltre. E’ solo in questi casi appunto che un improvviso e sgradevole fascio di luce gialla illumina con un rapido flash la sedia di formica verde con le sue gambe rachitiche e il tavolo appoggiato contro il muro; tutto il bar allora sembra scricchiolare per quell’improvviso mutamento di luce ed ogni cosa assumere un aspetto nuovo o meglio quello stupore da ebete di chi è stato colto in fragrante distrazione dal professore di chimica: la macchina del caffè smette d’un tratto di sbuffare i suoi vapori nell’aria, lo spinatore sembra raccogliere l’ultima goccia di birra che se ne stava lì da un pezzo indecisa se cadere o no nella vaschetta, il frigo da sotto smette di canticchiare quella sua unica, vibrante nota e se ne sta per un attimo buono, le tazzine di solito calme, sembrano ruotare tutte insieme di mezzo grado come infastidite da quel bagliore inopportuno, i due neon impallidiscono e tutte le altre sedie e tavolini diventano viola. Ma questo solo per un attimo.
Ora il vero problema, come spesso mi capita di ricordare al proprietario, è che non si riesce a tenerlo d’occhio quel buco, capita a volte che un malaugurato cliente se ne stia lì più di mezz’ora fumando e battendo insistentemente l’accendino sul tavolo senza essere per questo degnato di uno sguardo, e più di una volta mi è capitato con la bocca impastata dal sudore di dover correre a scusarmi con qualche pensionato (i peggiori, credetemi) ormai risoluto ad andarsene senza aver bevuto il suo camparivinobianco. Il fatto è che di lavoro non ce n’è molto e che quindi dovrei tenere d’occhio facilmente tutti i tavoli ma in quello là sembrano aspettare che si riempia il locale per sedercisi, possono passare settimane senza che nessuno si accorga di quella gracile sedia nell’ombra; ogni tanto qualcuno più indeciso degli altri fermo davanti all’ingresso, grattandosi la barba, sembra passare in rassegna il luogo per decidere se approfittare del momento di tranquillità che la solitudine di quell’angolo indiscutibilmente gli offre, allora fa per avvicinarsi guardandosi intorno muove lentamente il primo passo con fare furtivo e quando si accorge che da dietro il bancone lo tengo d’occhio, che da un pezzo ho inteso le sue intenzioni scarta improvvisamente di lato, sentendosi scoperto finisce per sedersi lì nel mezzo vicino al biliardo vuoto, con gli occhi bassi, ed è inutile qualsiasi mio sorriso o lieve cenno di complicità, allora di solito ordina, fuma, spegne la sigaretta tenendo sempre gli occhi fissi al bicchiere o al posacenere poi si alza e se ne va salutando con un rapido movimento della bocca, accennando un sorriso senza riuscire a compierlo. Così l’angolo rimane inutilizzato fino a che qualcuno non visto nella confusione riesce a raggiungerlo e prenderne possesso in tutta tranquillità; e più di una volta ho chiesto al proprietario di metterci anche solo una lampadina appesa al muro, che tanto non sono i problemi d’estetica che contano in questa bettola, per renderlo un po’ più accogliente senza sminuire "quell’aura di rifugium peccatorum che dà un tocco così maudit a tutto il locale" come lui sostiene ogni volta, compiaciuto di questa sua impennata di stile. Mostra la dentiera gialla soddisfatto del mio arreso silenzio, e allora che fare?, gli allungo un mezzo sorriso distratto e torno al lavandino disgustato.
E così come dicevo in uno di quei giorni in cui sembra che improvvisamente tutto il mondo si sia ricordato di avere un appuntamento in sospeso chissà da quanto alla "Barca del pescatore" (e non l’ho mai capito questo nome per un buco sotto un vecchio palazzo lontano chilometri dal mare), era un pezzo ormai che correvo avanti e indietro dal bancone ai tavoli rimpiangendo la piccola cameriera dell’anno scorso con le sue gambette corte e un po’ storte che non mi ha mai detto più che ciao e lo diceva così piano che sembrava un miagolio; la gente cominciava a spazientirsi ma ancora rimaneva seduta, ero fortunato, la cosa peggiore è quando tentano di fermarti al volo mentre stai portando il vassoio magari proprio al tavolo accanto e che tanto lo sai che qualsiasi cosa dicano appena ti giri l’avrai dimenticata e dovrai tornare umiliato a richiedere; qualcuno, come sempre, sbracciava cercando di cogliere la mia attenzione mentre io sgusciavo fra i tavoli con lo sguardo altrove ripensando al grembiule azzurro della cameriera che svolazzava per la sala nascondendo a sufficienza i polpacci carnosi, (che è sempre un buon trucchetto quello di trovare un immagine che ti tenga lontano da quella massa nevrotica). A poco a poco la piena sembrava andare scemando, cominciavo a riprendere fiato e a rallentare il ritmo, un occhio di sfuggita all’orologio: era ancora presto ma evidentemente l’ora di punta era finita. Il padrone non si era ancora visto e dalla strada non arrivavano più rumori, gli ultimi rimasti bevevano parlottando a bassa voce, anche il cagnolino yorcsciair della signora con la permanente alla Branduardi si era zittito fra le tettone della donna. A un tratto la luce da fuori riempie l’angolo dimenticato, fa rabbrividire il locale come sempre e per un attimo sorprende anche le mie fantasticherie sulla cameriera; non sono sicuro ma mi sembra di aver notato contro il muro l’ombra di qualcuno confondersi con quella conosciuta della sedia e infatti a guardar meglio nell’ombra appaiono appena i contorni di una chioma ampia e una mano sbuca da sotto il tavolo rilassata lungo il fianco, ("ma porca…!"), mi asciugo la fronte e con calma preparando un sorriso sornione, mi avvicino. Lei mi guarda silenziosa, due sigarette nel posacenere fanno circa mezz’ora ma non si direbbe a guardarla, comunque:
– Buongiorno, desidera?…
-…(alzando distrattamente lo sguardo e come mettendo lentamente a fuoco) Bellina quella giacchetta forse un po’ demodé ma ha il suo fascino, si intona allo stile del locale. Molto, molto carina mi piace.
– Dice?
-……
– Le porto un listino?
-……
Niente, sembrava non aver sentito, ormai non mi guardava più, i lunghi capelli neri le coprivano la fronte e le guance, la destra giocherellava con il pacchetto di sigarette. Forse l’avevo fatta aspettare troppo e ora che aveva deciso di andarsene l’avevo bloccata qui senza che avesse più voglia di ordinare.
– Sa, mi scusi, ma la luce…("ma che cazzo stai dicendo")
– Eh, come? A si, no, no, non importa, tanto…
– Allora, vuole che le porto qualcosa?
-… tanto ti sei sempre fatto aspettare. Certo anch’io non sono mai stata molto puntuale, ma tu… per te è proprio un vizio.
-…….Ma insomma, non esageriamo, certo l’orologio da polso l’ho perso, ma bene o male me la cavo sempre, signorina, più di dieci minuti è difficile che ritardi, il proprietario non si è mai lamentato.
– A davvero?
Adesso sembrava che avesse accennato un sorriso subito dissimulato lungo la piega sotto lo zigomo. Continuava a tormentare il pacchetto distrattamente. Mi guardai intorno per vedere se fosse arrivata altra gente; niente, per quel giorno il grosso era fatto. Respirai.
– Venire a rintanarsi qui dentro è certo una bella astuzia per sopravvivere.
– Come? Ah be’ sì non passa mai molta gente, di solito poi è proprio vuoto, anche il padrone viene di rado e senza farsi notare troppo se ne va. Pensi a volte passo giornate intere dietro il bancone aspettando che arrivi qualcuno ma poi…, anzi visto che le piace il posto……
– Ma riuscire a salvarsi è tutt’altra cosa. Non credere che mi inganni quella tua faccetta da perfetto bravoragazzo. ..
Il viso era uscito improvvisamente dalla penombra mettendo in evidenza la luce liquida degli occhi. Assomigliava sfacciatamente alla locandina di uno di quei film un po’ retro dove una ragazza con un vestito anni 20 tutto luccichino, fissa l’obiettivo con uno sguardo fra l’interrogativo e il provocatorio, ma con in più una smorfia crudele e ironica agli angoli della bocca. Cominciava a rendermi nervoso, ma ero solo un cameriere.
Improvvisamente si era fatta malinconica, mi parve che la piega ironica della bocca si fosse allentata, ma non riuscivo ancora a capire cosa dicesse.
(Doveva avermi guardato a lungo, pensai ancora a quella piccola cameriera, a come era silenziosa e sfuggente, non assomigliava per niente a questa donna così fastidiosamente prolissa), e mi accorsi allora di essermi fatto sfuggire un altro di quei sorrisi che tanto la avevano tormentata, spaventato cercai di dire:
Si era interrotta improvvisamente, un altro fascio di luce aveva colpito il suo corpo che di scatto si contorse in uno spasimo di voluttà. Fu allora che mi accorsi che era completamente nuda, i seni si ergevano imponenti in piena luce, tutto il locale sembrò vibrare, poi ritornò il buio, ora nel silenzio potevo vedere i suoi occhi fissarmi con fare inquisitorio, scintillando nell’ombra ; ma ormai avevo capito. Allungai la mano a cercare la sua, si alzò lentamente senza parlare, ci avviammo all’uscita, un lampione illuminava appena il vicoletto; eravamo fuori, la porta si richiuse alle nostre spalle, non c’era più da aver paura. Entrambi sapevamo bene che al di là di quella stradina sotto il ponte scorreva il fiume.
Ed ora che ci ripenso da qui, e che tutto è così chiaro come neanche a me era mai stato, mi chiedo se poi mai ne avrebbe parlato, Matteo.
Giovedì, 6 Luglio 2000
L’angolo in fondo a sinistra
Matteo Vescovi