Terza parte
Ripercorrerò qui solo brevemente il corpus zeppeliniano, e lo farò sempre con preciso riferimento al mio giudizio personale, non essendo mia pretesa quella di ergermi ad improbabile giudice universale del loro lavoro.
Comincerò allora con il primo ed omonimo album, un esordio persino abbagliante dal mio punto di vista. Dopo l’apertura di Good Times Bad Times sfilano uno dopo l’altro il chiaroscuro di Babe I’m Gonna Leave You, i blues viscerali You Shook Me e I Can’t Quit You Baby, l’oscura e sulfurea Dazed And Confused (che esce in quest’edizione inevitabilmente ridimensionata nel confronto con le interminabili cavalcate nelle quali sfociava in concerto), Your Time Is Gonna Come e la sua singolare introduzione all’organo, l’assolo di Black Mountain Side (di yardbirdsiana memoria) e la devastante Communication Breakdown: a chiudere il secondo lato è chiamata How Many More Times, il cui riff si dimostra senz’altro all’altezza del compito affidatole. Da non credere alle proprie orecchie!
II rappresenta per gli Zeppelin la vera consacrazione. A garantire loro un posto d’onore nella storia del rock provvede infatti la prima traccia, quella Whole Lotta Love che divenne immediatamente un classico nonostante la band non avesse autorizzato il taglio della famosa sezione centrale in prospettiva di una commercializzazione quale singolo. Osannata talvolta forse anche oltre i suoi effettivi meriti, Whole Lotta Love inevitabilmente sottrae attenzione al resto dell’album, di cui comunque vanno citate almeno What Is And What Should Never Be, che sentiremo spesso dal vivo; The Lemon Song, il cui limone rimanda alle ardite metafore sessuali di Robert Johnson ("Squeeze my lemon till the juice comes down my leg", suggeriva il buon Robert senza tante esitazioni…); Heartbreaker, un grande esempio della ritmica zeppeliniana, e Moby Dick, il saggio di bravura di Bonham che su un album odierno sembrerebbe anacronistico ma all’epoca era invece usanza piuttosto diffusa ed apprezzata (come testimonia anche il calore con cui gli stessi fans ne accoglievano la versione dal vivo, capace di dilatarsi anche oltre i venti minuti durante i quali il resto del gruppo si concedeva una meritata pausa!).
Con III si cambia decisamente pagina: concepito lontano dalla frenesia "on the road" dei primissimi anni, l’album evidenzia un’anima folk che pochi avrebbero associato all’immagine del gruppo e che non molti sembrano sul principio accogliere come una novità positiva. Non che manchino canzoni all’ultimo respiro (Immigrant Song ed il suo grido di battaglia, o Celebration Day), ma l’atmosfera generale è meglio rappresentata dalla serpeggiante Friends, che verrà più avanti registrata anche con musicisti indiani al fianco di Page e Plant; dalla melodiosa Since I’ve Been Loving You, dal recupero della tradizionale Gallows Pole qui proposta in una versione irresistibilmente sferragliante; e soprattutto dal duo Tangerine – That’s The Way, un meraviglioso concentrato di poesia Zep.
Con il quarto album, che la band volle anonimo e che nel corso degli anni è stato identificato via via come IV, Four Symbols o Zoso (queste ultime due ipotesi in virtù della simbologia contenuta nella confezione e comprendente infatti quattro simboli, uno per ognuno dei musicisti), gli Zeppelin salgono definitivamente in orbita. Aperto dagli "stop and go" di Black Dog, l’album mette in fila nell’ordine: Rock And Roll, al cui ritmo sfido chiunque ancora oggi a rimanere fermo; The Battle Of Evermore, un etereo quadretto dipinto dal mandolino di Page ed arricchito dalle voci sinuose di Plant e dell’ospite Sandy Denny; Stairway To Heaven, sulla quale permettetemi di non aggiungere nulla a quanto è già stato detto; Misty Mountain Hop, basata su uno dei mirabili riff che Page sapeva far girare come pochi; Four Sticks, al quale spetta invece la poco invidiabile palma di unico pezzo non proprio all’altezza; Going To California, altra pennellata acustica di rara finezza, e per concludere When The Levee Breaks, rifacimento di un vecchio blues di Memphis Minnie trasformato nell’occasione in una danza vorticosa nella quale è inevitabile essere assorbiti.
Se la sbornia non proseguì con Houses Of The Holy (la cui title-track, caso più unico che raro, sarà pubblicata solo nel successivo Physical Graffiti), si può almeno dire che esso garantì perlomeno una certa ebbrezza. Si tratta infatti di un album bellissimo, che solo l’ombra del suo irraggiungibile predecessore può in qualche modo ridimensionare. Aperto dall’inno The Song Remains The Same, si snoda lungo le poetiche The Rain Song e Over The Hills And Far Away (stupenda nelle sue dinamiche interne), proseguendo poi con echi di James Brown (The Crunge) e di atmosfere reggae (D’Yer Mak’er) intervallati dalla solare Dancing Days, e si chiude con l’epica No Quarter, terreno fertile per la tastiera di John Paul Jones, e The Ocean, che a Plant fu ispirata dalle sterminate distese di pubblico che si trovava ormai solitamente a fronteggiare.
Physical Graffiti, forse anche perché doppio e quindi foriero di una dose ancora maggiore di materiale Zep, mette i brividi. Immaginate di poter portare a casa in un solo colpo la cavalcata mistica di Kashmir, i riff implacabili di Custard Pie, Trampled Underfoot e Sick Again, la vivacità contagiosa di Houses Of The Holy, Down By The Seaside, Night Flight, Black Country Woman e The Wanton Song, la maestosità di The Rover, In The Light e Ten Years Gone, la lucida sofferenza di In My Time Of Dying, il delizioso e brevissimo intermezzo di Bron-Y-Aur e il "divertissement" Boogie With Stu: ora riaprite gli occhi e guardate la copia di Physical Graffiti che avete tra le mani! Album-contenitore in cui vide la luce anche materiale lasciato da parte negli anni precedenti, questo non potrebbe essere più lontano da quanto normalmente si intende con tale termine, configurandosi piuttosto come un "punto della situazione", una rassegna di tutto lo scibile zeppeliniano nella sua forma migliore.
Tocca a Presence lo sgradevole compito di mostrare che nemmeno i Led Zeppelin, ahimè, sono perfetti. Registrato sotto pressione e senza un vero filo conduttore, come ammise lo stesso Page, ha diviso e ancora divide la critica fra chi lo ritiene molto sottovalutato e di grande potenza e chi, come il sottoscritto, lo giudica invece piuttosto monocorde ed insolitamente gravato dal peso degli anni. Comunque lo si giudichi, non manca di episodi significativi come la lunga e complessa Achilles’ Last Stand, apice tecnico (ma non certamente creativo) della carriera di Page con le sue sovraincisioni di chitarra, o la scarna ed urticante Nobody’s Fault But Mine in cui molti hanno voluto leggere riferimenti ad un vagheggiato patto con il demonio siglato anni addietro da (alcuni?) membri del gruppo. Sul resto il giudizio, come accennato poco sopra, è ancora sospeso e può essere risolto da chiunque in base ai propri gusti: la sola mancanza di uniformità nel giudizio è però la palese testimonianza che qualcosa nel meccanismo non ha funzionato come al solito.
La parabola discendente degli Zeppelin non ebbe però modo di perdurare nel tempo: la scomparsa di John Bonham nel 1980 fece sì che l’unica altra prova in studio della band rimanesse In Through The Out Door, uscito l’anno prima. Si tratta di un album che abbozza le linee di una transizione che non avrà modo di compiersi o semplicemente il risultato del maggiore spazio occupato occasionalmente da Jones in fase di preparazione del materiale? Non essendoci ovviamente modo di rispondere al quesito, possiamo solo apprezzare i brani di un lavoro che, seppur non trascendentale, offre una moltitudine di spunti inediti: si comincia come se nulla fosse cambiato con In The Evening, brano potente e zeppeliniano fino alle ossa, ma poi si prende a svariare con la saltellante South Bound Saurez, le divagazioni sudamericane di Fool In The Rain, la divertente Hot Dog, il tour de force tastieristico di Carouselambra e la meravigliosa ed insolita ballata All My Love, prima di rientrare (per sempre…) alla base con il blues molto pulito, distante anni luce da quello degli esordi, di I’m Gonna Crawl. Il passo d’addio del Dirigibile è così un disco che lo coglie chiaramente ben lontano dai fasti dei primi anni ’70 ma che conserva una profonda dignità, e testimonia di un gruppo ancora pronto almeno a mettersi in discussione e a sperimentare soluzioni musicali nuove. Il che, parlando di una band sulla cresta dell’onda da dodici anni, non era affatto cosa da poco.
A completare la storia zeppeliniana arriveranno poi nel corso degli anni alcuni ritagli che si erano persi per strada, molti dei quali raccolti nell’antologico Coda: possiamo qui apprezzare out-takes dell’ultimo periodo, tra le quali è d’obbligo citare la furiosa e vitale Wearing And Tearing, insieme a pezzi risalenti al periodo aureo come We’re Gonna Groove o Poor Tom. Qualcosa ancora rimane fuori, ma si tratta ormai solo di briciole che verranno riesumate in occasione delle varie rimasterizzazioni e compilation: mi sento di segnalare solo l’inattesa Hey Hey What Can I Do, affascinante ballata semiacustica uscita a suo tempo come b-side di Immigrant Song, o le ufficialmente ancora inedite e strumentali Swan Song, poi confluita in una canzone dal titolo Midnight Moonlight che Page avrebbe inserito nel primo album dei Firm, e Jennings Farm Blues, dall’andamento trascinante e confluita poi in Bron-Y-Aur Stomp.
Non credo sia lecito sperare per il futuro in ulteriori scoperte di gemme nascoste in qualche polveroso archivio discografico: l’impressione è che l’intera produzione degli Zep sia ormai venuta alla luce e non vi siano nastri pieni di tracce inedite da ritrovare. Non bisogna infatti dimenticare che già durante la loro carriera gli stessi Zeppelin pubblicarono via via alcuni pezzi che inizialmente avevano accantonato ma sui quali erano poi tornati a lavorare, procedendo così essi stessi alle operazioni di recupero che altrimenti sarebbero toccate anni dopo ai curatori di qualche antologia. Chi è alla ricerca di altra loro musica farebbe meglio a rivolgere la sua attenzione al florido mercato dei bootlegs, nella speranza peraltro che chi di dovere metta mano al progetto di pubblicazione ufficiale di una serie di storiche testimonianze live dei Led Zeppelin giacenti, queste sì, da qualche parte e circolate fin qui solo in edizione pirata.
Fabrizio Claudio Marcon
Visioni del Dirigibile