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Il cinema al lavoro

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Il cinema al lavoro

Una delle domande più ricorrenti che poniamo ad una persona incontrata per la prima volta è: cosa fai nella vita? Cioè, che lavoro fai? L’identità sociale della gran parte di noi è determinata dal lavoro e lo sarà sempre di più nel futuro. Qualche decennio fa, negli anni 70 ad esempio, sembrava invece che l’aumento del tempo libero e, in generale, una liberazione da ritmi e tempi di lavoro pesanti e molto condizionanti ci portassero verso scenari aperti alla libera espressione al di fuori della sfera, opprimente, del dover fare. Poi qualcosa è cambiato, con il c.d. post-fordismo.
La società dei lavori oggi è fatta, secondo le analisi del sociologo Aris Accornero, di un universo di lavori molto diversificati e atomizzati, meno subordinati e più autonomi, meno durevoli, meno uniformi; diffusi spazialmente al di là della sede tradizionale di lavoro e dispersi in senso temporale, durante tutta la giornata e tutto l’anno. Questa nuova idea di lavoro contiene molti aspetti di segno diverso: dall’oppressione della ripetitività si è passati all’ansia per un ritmo frenetico e una tensione continua; l’identità professionale si basa sempre più su numerose esperienze, e non un solo ruolo lavorativo o mestiere; lo scenario della precarizzazione a vita incombe su molte persone.
Il cinema europeo ha iniziato ad affrontare questi nuovi scenari, che toccano soprattutto nelle sue mutazioni il vecchio continente, in cui si sono affermati a partire dal dopoguerra modelli di welfare state e di rapporto capitale-lavoro che oggi tendono ad essere scardinati. Prendiamo due film presentati al Festival di Venezia e usciti di recente anche nelle sale italiane: Paul, Mick e gli altri di
Ken Loach1 e A tempo pieno di Laurent Cantet, entrambi registi che hanno messo il lavoro al centro delle loro opere precedenti.
Il primo è un lucido esempio degli effetti delle privatizzazioni (delle ferrovie, in questo caso) e della conseguente disarticolazione dell’impresa, come direbbe Accornero con il linguaggio neutro del sociologo, dietro le cui parole stanno storie di persone in carne ed ossa: il caso è quello dei dipendenti "ceduti" dall’impresa principale (privatizzata) a una esterna, e magari chiamati a svolgere il vecchio lavoro, con una retribuzione più bassa, maggiore precarietà e meno diritti. Lo stile è essenziale, quasi documentaristico, ma molto efficace nel descrivere i paradossi di questa evoluzione dei rapporti, la difficoltà di adeguarsi ai tempi nuovi, la rabbia e le umiliazioni che ne derivano, la perdita della solidarietà tra compagni (ebbene sì!) di lavoro; la partecipazione del regista, nei confronti dei suoi protagonisti, è piena ed affettuosa; in tutto questo, l’umorismo è una qualità che non viene persa neanche nei momenti più difficili ("Lo scacco matto è quella situazione in cui, qualunque cosa tu faccia, hai perso" dice un personaggio di fronte ad una scacchiera. "Sembra la storia della mia vita" risponde un altro).
Un altro aspetto di questi nuovi scenari viene descritto invece nel film francese A tempo pieno, di quel
Laurent Cantet che aveva raccontato nel suo lavoro precedente, Risorse umane, gli effetti delle ristrutturazioni sugli operai, e questa volta costruisce un film più notturno, fatto di atmosfere, ma anche di sentimenti trattenuti e dolorosi, con uno stile meno partecipato e più distaccato di Ken Loach, sul tentativo di essere liberi (dal lavoro appunto) e non rinunciare a ribellarsi senza essere distrutti.
Partendo da una storia vera (manager licenziato si inventa per gli altri una nuova vita lavorativa fino a quando viene scoperto…), il regista vuole esplorare l’universo mentale di chi tenta di sfuggire al lavoro, ma non ci riesce perché i vincoli che esso crea sono troppo stringenti per essere disarticolati, senza avere la forza (che il personaggio principale non possiede) di perdere il prestigio, sociale e familiare, legato al ruolo. Il protagonista riesce a costruirsi una doppia vita, una finzione nevrotica, con un falso lavoro che dà rispettabilità e una vera attività, che fornisce una parvenza di libertà. Il suo ritorno alla normalità finale rappresenterà il mesto fallimento del tentativo di fuga.
Peccato che il cinema italiano, dagli anni 70 almeno, non sembri avere niente da dire, in maniera efficace, su un tema forte come quello dei nuovi lavori.

Paolo Baldi



1
Sullo sfondo una scena del suo film presentato a Venezia col titolo di "The navigators"

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