S/T
(Ipecac, 2001)
La maggior parte degli appassionati di musica conosce Mike Patton per via dei suoi trascorsi nei Faith No More, ai quali è tuttora legata la memoria più vivida dell’eclettico cantante. Di questi tempi però Patton è impegnato in una serie quasi incredibile di progetti a carattere più o meno estemporaneo, nei quali prova a dar sfogo alla propria creatività; e come se non fosse abbastanza, nei ritagli di tempo supervisiona l’attività dell’etichetta Ipecac, per la quale esce anche questo omonimo lavoro dei Tomahawk.
Il gruppo in questione raccoglie, oltre al già citato Patton, il chitarrista Duane Denison (Jesus Lizard), il batterista John Stanier (Helmet) ed il bassista Kevin Rutmanis (Melvins): la line-up già potrebbe fornire qualche coordinata entro la quale collocare la musica dei Tomahawk, ma solo l’ascolto dell’album può effettivamente far capire di cosa si stia parlando…
Come tutti i ‘supergruppi’, anche i Tomahawk sono caratterizzati da una notevole confidenza nei propri mezzi, la quale rischia sempre di sfociare in sopravvalutazione degli stessi ed in palese auto-indulgenza. Quando a questo si unisce la voglia di sperimentare, di uscire dagli schemi e forse di stupire, i risultati finiscono per essere solitamente ostici all’ascoltatore medio, il quale sembra essere l’ultima variabile a cui i musicisti pongano attenzione durante la realizzazione del lavoro. Non si può dire che Tomahawk smentisca questa regola.
Il disco in se’ è cupo, strisciante, insidioso e per queste stesse ragioni in fondo affascinante. Adesso che ne abbiamo sinteticamente tratteggiato i pregi, passiamo però a sviscerarne con più pazienza i difetti … Tanto per cominciare, sono veramente pochi i brani in cui ci sia concesso di sentire il cantante cantare: tra sussurri, recite, grida, vocals variamente trattati e filtrati, sembra che Patton abbia perso l’abitudine o la voglia di fare il suo mestiere. Accade così che in certi brani l’atmosfera che si respira sia fumosa, misteriosa finché si vuole ma di ascolto estremamente stucchevole e ben poco eccitante; in altri invece la linea melodica irregolare e nevrastenica ci porta dritti con la memoria ai Deftones o a gruppi analoghi e tutto sommato inflazionati. Lasciando da parte i vocals, la parte eminentemente strumentale dell’album si muove fra suggestioni minimaliste, ricordi new wave ed infiltrazioni goticheggianti. L’atmosfera prevale sulla melodia, ma non è quel genere di atmosfera che faccia venir voglia di accomodarsi in poltrona e godersi lo spettacolo: improvvise, insinuanti dissonanze ed occasionali effetti stranianti rendono l’ascolto troppo imprevedibile e discontinuo per lasciarsi cullare dalle note.
La stoffa non manca, i quattro Tomahawk sono fior di musicisti e l’esperienza accumulata con i rispettivi gruppi non è acqua fresca. Per di più, se dobbiamo credere alla presentazione che del disco offre la Ipecac Records sul proprio sito, Patton e soci si sono anche divertiti e rilassati parecchio nella registrazione dell’album: la musica che hanno sfornato però non è affatto divertente, ne’ tantomeno rilassante. E’ pur vero che il rock d’avanguardia raramente lo è, quindi non è questa l’accusa da muovere agli imputati di questo improvvisato processo.
Può anche essere che per lavori come questo passi il futuro di quel genere che una volta fu dei Rolling Stones, dei Led Zeppelin, degli Aerosmith. Può darsi invece che un giorno nemmeno tanto lontano, quando ancora Jagger, Plant e Tyler mieteranno tributi girando per i quattro angoli del globo, tutte o quasi le derive sperimentali che ascoltiamo oggi saranno già state sepolte e dimenticate. Nel frattempo più che struggerci nell’interrogativo ci converrà prestare orecchio, nel modo più imparziale ed obiettivo possibile, a quanto licenziato dai gruppi più avanguardisti. Questi Tomahawk personalmente non mi hanno fatto impazzire, ma la ricerca della next best thing non si ferma mai…
Tomahawk
Fabrizio Claudio Marcon