KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Richard Ashcroft – Human Condition

3 min read

Richard Ashcroft
Human Conditions
(Hut, 2002)

Preceduto dal singolo Check The Meaning, approda finalmente nei negozi il secondo lavoro solista di Richard Ashcroft, l’ex-leader dei discioltisi Verve. Dopo aver raggiunto fama mondiale urtando a spallate i passanti nel video di Bittersweet Symphony (eravamo nel 1997) Ashcroft si è ricostruito una carriera, lasciandosi alle spalle la lunga e tribolata esperienza con il proprio gruppo proprio all’indomani del raggiungimento di quel successo commerciale a lungo apparso inafferrabile, e ottenuto in ultimo grazie ad una sottile ma evidente virata capace di portare i Verve dalla psichedelia incompromissoria al rock melodico vero e proprio. Da quelle basi il cantante britannico è ripartito in solitario, dando gran prova di sé già con il debutto di Alone With Everybody: il 2002 segna il suo ritorno in grande stile con un album nuovo di zecca.
Human Conditions è il prodotto di un’artista straordinariamente maturo ed equilibrato, dotato di classe e raffinatezza da vendere. Dal primo all’ultimo brano il comune denominatore è un rock melodico interpretato con consumata maestria, arrangiato con i controfiocchi, quasi del tutto scevro da accelerazioni e palesemente improntato alla ballata. L’arte di scrivere grandi canzoni non è mai stata estranea ad Ashcroft, che ora però l’esercita in proprio e sembra esprimerla con una naturalezza quasi imbarazzante. Se anche fosse entrato in sale prove con qualche preoccupazione commerciale, Ashcroft qui non lo dà a vedere: il primo singolo dura qualcosa come otto minuti, insomma non proprio i canonici tre che la programmazione radiotelevisiva invoca a garanzia di un ragionevole passaggio mediatico; ed il resto dell’album non è da meno, con una media di cinque e mezzo a brano. Non che ci sia nulla di strano: la musica qui proposta richiede tempo per respirare a pieni polmoni.
Si diceva della classe, della raffinatezza dell’artista. Ad accompagnare Ashcroft c’è un’intera orchestra, con gli archi quasi sempre in squisita evidenza, mentre il piano di Chuck Leavell arricchisce Check The Meaning, Buy It In Bottles e Lord I’ve Been Trying; quasi a voler indicare apertamente il terreno d’elezione, l’ultima traccia si avvale infine dei backing vocals di Brian Wilson. Se il debito contratto con il beach boy è forse più ideale che concreto, non si può nascondere che un filo invisibile leghi in ultimo le due esperienze musicali, la seconda delle quali ancora in evoluzione ma ormai ben indirizzata. La rilassatezza e la limpida armonia delle tracce presenti sull’album rimanda in certi frangenti addirittura a certi Bee Gees, richiamando altrove alla mente la rarefatta dilatazione dei Verve meno commerciali. All’interno di questo scenario Ashcroft appare completamente a proprio agio, quasi come se non avesse suonato null’altro da vent’anni a questa parte: difficile abbinare queste note all’immagine scapestrata e psichedelica che lo caratterizzava non più di una decina di anni fa. Quanto si è perso in ruvidezza e schiettezza d’espressione lo si è guadagnato in melodia e grazia: Ashcroft, che songwriter lo è sempre stato, pare aver trovato solo ora la propria vera identità, o quantomeno l’ambientazione sonora nella quale rendere al meglio. Sperimentazioni in questo senso non erano mancate già al tempo dei Verve, ma all’epoca si trattava di singoli momenti; episodi nei quali, tra l’altro, il massiccio intervento orchestrale si configurava a volte più come sovrastruttura calata dall’alto che non come coerente e logica integrazione. Oggi come oggi i brani paiono nascere già in questa chiave, guadagnandone in naturalezza ed efficacia.
Senza stilare graduatorie che mortificherebbero ingiustamente i pezzi non citati ai primissimi posti, sarà meglio sottolineare come Human Conditions si ascolti letteralmente tutto d’un fiato. Gli scarti qualitativi fra brano e brano sono minimi, sia che si parli di ballate sussurrate e meditabonde (Running Away), di un episodio più spigliato e dinamico (Bright Lights) o di veri e propri affreschi di suprema fattura (Nature Is The Law). Ancor più placido del già sedato predecessore, il presente album manca in effetti di ritmiche palpitanti, alle quali supplisce però con un gusto armonico di livello superiore.
Suonando in questo modo Ashcroft ha davanti a sé una carriera potenzialmente interminabile. Gli artisti di classe non invecchiano, e se anche lo fanno l’incedere degli anni è per loro sinonimo di costante perfezionamento e miglioramento. Cento di questi album!

Fabrizio Claudio Marcon

Commenta

Nel caso ti siano sfuggiti