KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Due pagine

6 min read

DUE PAGINE

Era il superstite di una generazione, l’ultimo restato di quegli uomini che avevano stretta, con i propri gesti gentili, una tenera fratellanza. In strada era l’unico che ancora cedesse il suo passo, mimando un inchino e un probabile suo prostramento, soprattutto davanti alle donne e a chi presumeva più anziano di lui. Il solo che, nei giorni di pioggia, alzava in alto l’ombrella, come un cameriere il suo vassoio, in una danza dagli incerti equilibri.
Era l’ultimo esemplare vivente che, con impareggiabili modi, ad uno sguardo ricevuto, faceva lievitare il suo cappello, di poco, e si dedicava totalmente porgendo un gioioso "buongiorno a lei".
D’essere fuori dal tempo attuale, lui non lo sapeva. E seppure, si fosse insospettito del fatto che erano ben più di cinque anni che non aveva avuto più modo di dare alcun "salutato Gesù Cristo", continuava, ugualmente e con lo stesso spirito, a raccogliere il suo album personale, tutto di gentilezze, di sorrisi e di visi accesi dal suo buon umore, durante le sue passeggiate mattutine.
Usciva di casa, alle sette e quarantacinque, s’incamminava, in salita per il Corso, Palladio, e svoltava per via Santa Barbara. Poco prima che la via s’apriva sulla piazza, Dei Signori, si fermava all’edicola, pagando con tutte monetine il quotidiano locale, che lui lo chiama ancora con il primo titolo che dal mille e ottocento e vario era cambiato sette volte. Poi, lunga la diagonale, tagliava la Piazza, a piccolo trotto, pestando giusto nel centro tutti i lastroni, e senza guardare mai in terra. E in discesa per la strada dove nacque il viaggiatore, il Pigafetta, una sosta all’angolo della stessa dove entrava in una caffetteria; sorseggiava, sorridendo, un espresso, con in mano cappello e giornale, guardando sempre un quadro, una veduta della città in autunno, che lì c’era rimasto appeso anche dopo le tre ristrutturazioni dei locali e dopo i cinque cambi della gestione.
Dopo trentaquattro "buongiorno", si congedava dal gestore e gli indicava sempre il quadro e ogni volta gli ripeteva: "era così, lo sapeva? Eh, la nostra città…".
E via.
Imboccava il ponte, con lo sguardo giù all’acqua del fiume, e, oltrepassato, diceva il quotidiano commento "è calata! a vista d’occhio". Pochi metri e calpestava il porfido a cubetti della via degli Apostoli, Santi e Santissimi, ma con l’espressione più severa e anche fiera. Lì in quella via, era conosciuto solamente come "il professore".
All’incirca a metà di quella via, si fermava e stava, per cinque minuti, davanti ai cancelli chiusi di un palazzo del Seicento, restaurando con gli occhi ogni suo angolo, finché, alzando il cappello, con il braccio teso sopra la testa, diceva "Buongiorno a te e che tu possa ritornare bella e più bella di come eri".
E ritornava sui suoi passi, lasciandosi alle spalle l’edificio dove c’era stata dislocata una sezione del Liceo scientifico locale e dove il "professore" era entrato in pensione dopo quarantatré anni di insegnamento, lingua italiana la sua materia, e senza mai un’assenza.
All’angolo della via cominciava la mattina della sua seconda vita, sempre con dell’imbarazzo, come un bimbetto che s’è smarrito, e sicuramente perché ancora non ci si era abituato all’idea di trovarsi lì a quell’ora, alle otto e trenta, quando, per tanti anni stava a metà del registro delle presenze. Si raccontava che stesse lì finché non si ricordasse tutti i cognomi dei suoi allievi e di tutte le sue classi e di tutti gli anni, e che si dimenticasse sempre quelli dei ripetenti.
Dopo una buona mezz’ora, guardava l’orologio e borbottando "solamente perché il Dante non gli andava a genio", si schiodava e camminava otto passi sulla strada del ritorno, ma d’improvviso, con una piroetta, tornava indietro e prendeva la via a destra, che aveva visti i natali del fondate del Club Alpino Italiano, il signor Paolo Lioy e andava verso il sud della città, là dove c’era un’osteria, "al carabiniere ammazzato" poi "Cursore".
"Buongiorno a voi tutti", così diceva appena ci entrava.
Metteva il suo capello a riposo sull’attaccapanni. Poi, diritto e muscoli tesi, davanti al balcone, a un metro distante, con i piedi allargati e le mani appoggiate sul bancone, tutto proiettato dentro un bicchiere da mezzo litro, riempito mezzo e mezzo con del vino bianco e acqua minerale gasata. afferrava il bicchiere, senza muovere nient’altro che il braccio, e con baldanza, se lo portava alla bocca, e, tirati prima tre lunghi respiri, beveva tutto, lentamente.
Si puliva le labbra con il dorso del pollice, guardava fisso in un angolo del soffitto e declamava a voce alta:
"Ogni notte, prima che la vita mi giri attorno, un attimo prima di precipitare nel vuoto senza memoria, poco prima che il sogno sia l’unico senso, metto il libro, che stavo leggendo, in piedi sul supporto rotondo della lampada, con le pagine aperte, là dove è sopraggiunta l’immagine che mi ha portato via con tranquillità.
Poi mi sento vinto, e, anche se le palpebre diventano pesanti, faccio ancora uno sforzo e controllo che le parole stampate non siano all’ingiù. La mano mi finisce sul cordone elettrico della lampada, si blocca sull’interruttore e, un attimo prima di fare clic sul pulsante, guardo un’altra volta il libro e sento di possedere due pagine che mi saranno compagne questa notte, che avrò due pagine che veglieranno sui miei sogni.
Se non lo facessi, un attimo prima di addormentarmi, credo che la mia vita sarebbe maggiormente piena di solitudine, più di quel che già c’è.
Schiaccio il pulsante e nel buio, ancora per poco, qualche barlume di luce resta presente nei miei occhi: tutta la vita gira in un istante, come un mappamondo di immagini, a volte l’India negli occhi del mio amico che me l’ha raccontata, là un bazar lungo le rive del mar Nero ancora dentro i denti di David. E altre e quelle due pagine che ci girano assieme.
Poi è vuoto, e chissà per quanto ancora, è anche paura che non possa finire con un semplice comando…
Poi è di nuovo luce, il giorno che si rinnova, e quelle due pagine sono ancora aperte, lì, come le avevo lasciate la sera prima. Sorrido ad esse e penso che potrò andare in giro, in mezzo alla gente. Metto ordine alle coperte, ma con cura come se sopra si fosse riposato un malato. E mi penso fortunato per aver lasciato la sera prima due pagine aperte accanto a me e ai miei sogni.
Il giorno passa e mi ritrovo col cuscino sotto la testa e due pagine davanti, ma prima di andare oltre, prima di leggerne delle altre, a mente me ne racconto di mie, tutto d’un fiato e senza importanza e poi giro pagina un attimo prima che tutta la vita mi giri attorno.
E tutto si spegne e altre due pagine che mi stanno a guardare, due pagine senza età, senza memoria, due pagine che erano con me un attimo prima…"
Tutti i giorni fuorché il turno di chiusura.
Poi si sedeva ad un tavolo, dove stavano seduti tre uomini, raccoglieva le carte da gioco, le metteva in ordine e dando un’occhiata al suo compagno, gli diceva:
"Vediamo di non perdere, almeno oggi!"
E cominciavano a giocare, sempre a coppie fisse.
Alle dodici e quaranta, preciso preciso, anche nel bel mezzo dello scarto, si alzava, si metteva il cappello in testa e salutava, "Buon pranzo a tutti".
E spariva sino alla mattina dopo, proprio come fanno i professori ancora adesso che non li si vede mai né al supermercato né in discoteca.
M’è venuta voglia di comperarmi un cappello.

E senza fondo, posò il napoleone e ne prese un altro, ma ci ripensò lo posò e prese una coppa da champagne.


Giancarlo Gandini

Commenta

Nel caso ti siano sfuggiti