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Days of the New

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DAYS OF THE NEW

Qualche tempo fa recensivo su queste colonne un album autoprodotto, virtualmente introvabile sul mercato, di un autore il cui nome suona familiare solo a poche orecchie: Travis Meeks. La sua notorietà al grande pubblico passa, anche se ormai é purtroppo piú corretto dire "passava", per la militanza nei Days of the New: parlare di uno senza parlare degli altri é pressoché impossibile, ragion per cui a qualche mese di distanza mi accingo a fornirvi un quadro piú completo di questa band ed a fare nel contempo luce sulla figura del suo leader.
I Days of the New sono un gruppo insolito per almeno una ragione: il loro album d’esordio, privo di titolo ma regolarmente indicato come Orange per via della tonalità predominante della copertina, é completamente acustico.
Di per sé non si tratta di una rivoluzione, e neppure di una vera e propria novità: considerando peró che l’album in questione esce nel 1997, quando suonare rock significa per i piú attaccare gli amplificatori ed alzare i volumi al massimo, si deve ammettere che la scelta non sia esattamente banale. Si aggiunga a questo dettaglio un paio di considerazioni: il leader, cantante e principale autore dei Days of the New all’epoca é diciassettenne; ed Orange, forte di un singolo di lancio a presa rapida come Touch, Peel, and Stand (seguito da altri due pezzi, non altrettanto implacabili ma indiscutibilmente validi: la meditabonda Shelf in the Room e la vibrante The Down Town), scala imprevedibilmente la vetta della Billboard Rock Charts e vi rimane per 17 settimane. Niente male per un disco d’esordio! Disco, tra l’altro, che poggia principalmente sulle spalle del talento precoce di Travis Meeks, un ragazzo dell’Indiana che Scott Litt aveva provveduto ad aggregare alla scuderia Outpost (label nell’orbita della piú nota Geffen) senza forse nemmeno presagire di avere tra le mani il fenomeno rock del momento. Eppure a ben vedere Orange non é un disco che faccia saltare dalla sedia. A colpire sono soprattutto la maturità e l’uniformità del songwriting; nonché la forza obliqua delle atmosfere, a tratti cupe e sinistre, sulle quali Meeks puó distendere la propria notevole voce, che si piazza al crocevia tra Chris Cornell e Layne Staley. Nell’insieme, un’esperienza d’ascolto con tanti alti e nessun basso.
Come si sa, peró, la fama porta con sé anche conseguenze spiacevoli, specialmente quando arriva inaspettata ed in dosi massicce: al termine di tour estenuanti, nel 1998 gli altri tre membri dei Days of the New (Jesse Vest, Todd Whitener, and Matt Taul) decidono di lasciare Meeks ed intraprendere una nuova strada, che li avrebbe da lí a breve portati a formare i Tantric assieme al vocalist Hugo Ferreira. Tocca quindi al solo Travis il compito di portare a termine il secondo lavoro della band, che esce nel 1999 senza titolo e viene da allora identificato come Green.
La piú evidente differenza rispetto al predecessore é senz’altro l’abbandono delle atmosfere acustiche: Meeks peró non si limita ad imbracciare una chitarra, giacché il repertorio di Green é piú diversificato rispetto a quello di Orange. Assistito da una truppa di musicisti che include anche un’orchestra al completo, Travis puó sbizzarrirsi e sperimentare con molta maggiore libertà di quanta gli avesse consentito fin lí la propria sei corde: ecco allora spiegato, a titolo di esempio, un brano come Enemy, che presenta una base ritmica cosí scandita da ricordare la musica dance; ed ecco anche spiegata l’insistita presenza di backing vocals femminili, inseriti in un tessuto assai meno regolare e piú propenso alla sorpresa. Nel complesso il marchio di fabbrica dei Days of the New non va perduto, ma le atmosfere vagamente lugubri di parte di Orange vengono rimpiazzate da un’attitudine rock piú diretta e solare, arricchita e sottolineata dalla presenza di cori ed insolite aperture strumentali.
Nonostante le buone premesse, Green non replica il successo del disco d’esordio: piace alla critica, o almeno a parte di essa, ma non sfonda fra il grande pubblico. Se il successo puó avere conseguenze spiacevoli, l’insuccesso ovviamente ne ha perlomeno altrettante: Meeks organizza un ambizioso tour promozionale, ma al termine di questo é costretto a smontare i Days of the New una seconda volta e ripartire da zero con nuovi compagni di viaggio ed una nuova etichetta discografica.
Siamo arrivati alle soglie del nuovo millennio: Ray Rizzo alla batteria e Mike Huettig al basso completano la nuova, scarna line-up dei Days of the New, mentre Meeks é impegnato anche a rendere omaggio ad una delle band che maggiormente lo hanno ispirato, prestando la voce ad una nuova versione di "The End" registrata con i membri superstiti dei Doors. Questo comunque non gli impedisce di lavorare alacremente sul nuovo album, che vede la luce nel 2001: come al solito non é fornito di alcun titolo ufficiale, ragion per cui passa alla storia semplicemente come Red. Forse piú vicino a Green che a Orange a dispetto delle attinenze squisitamente cromatiche, il nuovo disco attinge a periodi diversi della storia creativa di Travis ed accosta rock robusto e grintoso a pezzi piú complessi. Sebbene l’insieme risulti piú coeso ed uniforme rispetto al passato recente, la matrice acustica di parte del materiale testimonia di una continuità mai spezzata con le origini della band; cosí come il gusto melodico riporta prepotentemente alla mente entrambi i dischi già licenziati.
Ancora una volta, gli sforzi profusi nella realizzazione di Red non vengono ricompensati da un meritato successo di pubblico: i Days of the New rientrano silenziosamente nell’anonimato, complice anche la scarsa promozione che la Interscope riserva al nuovo album. Per ritrovare Travis Meeks sulle scene bisogna allora aspettare il 2003, quando il chitarrista e cantante intraprende un tour solista nel corso del quale ripercorre le tappe principali della propria carriera con i Days of the New e permette al pubblico di assaporare nuovi brani che va componendo di settimana in settimana: il tour si snoda tra piccoli locali, lontano dai riflettori, e riconsegna al pubblico un artista al quale dopotutto gli ambienti raccolti e le atmosfere acustiche hanno sempre riservato piú soddisfazioni delle grandi arene, addicendosi molto meglio alle sue inclinazioni compositive. A testimonianza di questo periodo resta un album, quel Live Bootleg già recensito e di cui a distanza di tempo non posso che continuare a tessere le lodi.
Il 2004 sarebbe dovuto essere, nelle intenzioni, l’anno del ritorno dei Days of the New veri e propri. I pezzi del nuovo album, ufficiosamente indicato come Purple, sono già stati composti e provati: sfortunatamente, il gruppo adesso come adesso non ha ancora un contratto discografico, sicché l’attesa per l’uscita del quarto disco si protrarrà ancora per qualche tempo.
Sebbene le prospettive a ben vedere non siano rosee, dalla parte dei Days of the New rimane non solo il talento ma anche la giovane età del loro leader. Meeks in effetti, a dispetto di una carriera già importante alle spalle, ha solo venticinque anni: per quanto sordo alle lusinghe della sua musica il mercato possa essere, é improbabile che l’ottusità delle case discografiche possa tarpargli le ali a tempo indeterminato. L’augurio é che presto la musica dei Days of the New, e la voce di Travis Meeks, possa trovare un palcoscenico appropriato dal quale esprimere il proprio valore, che é da tempo ben noto a chiunque abbia fin qui avuto la fortuna di appassionarsi alla loro produzione.

Fabrizio Claudio Marcon

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