Ti aspetto, ti aspetto seduta su una panchina nel cuore di un giardino che conosce il mistero della poesia, ti aspetto all’ombra di Perseo. So che sei un poeta e so che cerchi la tua Euridice. Pensi di poterla salvare stavolta? Non ti volterai a baciarla? Prego per te: ti sarò guida, parteciperò con te del cammino, delle strade e dei percorsi. Troveremo insieme la poesia e il tuo amore… e vieni, entri per la porta principale del Giardino Wallenstein, entri che già il sole si disorienta e non sa se allungare ancora ombre. Entri e osservi il viale tra le statue di bronzo nello spazio circoscritto, delineato, ordinato; cammini leggero sulla ghiaia, cammini leggero estasiato dallo spazio. Vieni! seguimi, vieni! ti tendo la mano per condurti fino al padiglione centrale. Guarda i dipinti, gli affreschi marziali, le statue inerpicate sui timpani dei portoni murati, sono donne, sono bellissime con le loro gambe nude, perfette nelle dimensioni magre e invitanti, a sinistra c’è il lago artificiale con i pesci e le anatre, la vegetazione e le statue immerse in essa, a destra c’è la parete di una caverna: è una finzione barocca che puoi interpretare, sono stalattiti a cielo aperto, e sono mani protese sull’inferno, sono anime dannate che ambiscono ad un ristoro e ci sono i pavoni che passeggiano con calma placida e guardinga tra i passanti del giardino e vieni, adesso, seguimi fuori di questo incanto voluto da quel generale di armate nere, vieni questa è Praga. Vieni con me, ci sono luoghi che voglio mostrarti, ci sono strade che voglio presentarti, ci sono fantasmi che voglio offrirti e splendori di secoli, assiepati dietro ogni pietra, accanto ad ogni statua lungimirante. Tu sai già, perché poeta che conosce ogni canto, che anch’io ho un percorso abituale, fatto di abitudine e disabitudine che si tace di meravigliarsi o di gioire per le bellezze delle strade, per le inarcature dei palazzi, per le linee dei portoni, per le decorazioni degli architravi. Ma sai? Attraverso il tuo sguardo di poeta posso sentire che nessuna via è d’abitudine, che ad ogni passo compiuto al tuo fianco si apre il miracolo dello stupore. E allora? Vieni saliamo in tram a Malostranská e scendiamo oltre il ponte che attraversa la Vltava, vieni scendiamo in via Kriovnická, e infiliamoci a passo sostenuto in via Kaprová, accanto al portico della facoltà di filosofia, da qui se guardi di fronte a te, nelle giornate di sole o sotto la pioggia battente, puoi vedere la sagoma, reclinata sotto la piuma del destino, del castello, se giri la testa verso destra ti appare il Rudolfinum, altare della musica classica, e più vicino a te puoi scrutare la lenta, imperscrutabile, ellisse della Vltavá. Possiamo girare per la Valentinská, occhieggiare i libri di un Antikvariat e sperare di trovare tesori e poi sfociare a Marianské Námestí nel cuore annerito dalla sapienza del Klementinum; oppure possiamo attraversare la piazza della città vecchia ad occhi bassi, e inoltrarci per la Celetná, schivando i passanti e arrestandoci nel suo mezzo per respirare l’eco della memoria di un’altra strada che è a Roma accanto al Pantheon. E possiamo, poi disperderci nella folla di turisti che assiepano la piazza e insinuarci per Husová ulice, la via che si intreccia su se stessa e si incrocia con la Karlová gremita di negozi, specchietti per turisti, intarsiata di strettoie somiglianti all’angoscia, un’angoscia che pende da ogni dove e si appoggia con forza contro i titani che sostengono le intelaiature dei portoni, e poi andare oltre fino alla clemente fine della via che approda alla piazzetta linda, lustra, desolata e malferma di Betlemské Námestí, e se svoltiamo, invece, a destra nuovamente sbuchiamo allo scoperto, al confine tra la città vecchia e la nuova dove s’apre ad ogni aspettativa la Národní trida, proprio nel punto in cui gomita e si trasforma in via Spalená, sotto la supervisione del Tesco, l’enorme magazzino, ormai desueto, aperto sempre, ricovero di turisti, passanti e raminga umanità che ci si assiepa sotto, per mendicare qualche soldo o per trafficare qualche polvere o qualche affare. E possiamo lasciare questo mondo da intravedere e svoltare a sinistra, attraversare la fioritura delle rose del Frantiká Zaharada e di lí terminare i nostri rantoli di stupore nei passaggi che si fanno luce nell’enormità di Vaclavské Námestí, la piazza in trionfo del santo a cavallo, la piazza in forma di enorme via che si ostinano a chiamare piazza, dove, se guardi in alto, vedi le sagome irregolari delle ardite coperture dei palazzi di contorno, e se dal fondo di Mustek alzi gli occhi hai di fronte, immutabile e pesante, l’orchestrato palazzo del Museo Nazionale, scuro edificio di pietre e statue, lí si nasconde l’orma del sacrificio di Jan Palách, e se scendi con lo sguardo trovi riviere di fiori che rendono omaggio al santo nazionale, e poi ci sono i negozi, a destra via Vodicková e via tepanká, a sinistra via Jindriská, e il pasa Lucerna, fatto costruire dal nonno di Vaclav Havel che nasconde un tesoro dell’ironia: un identico santo Venceslao sospeso per aria a cavallo di un cavallo a testa in giù, cavalcioni di una panza di cavallo con la lingua penzoloni. E sia, dal momento che sei mio compagno in questa giostra di percorsi, ti riporterò indietro, senza badare alle tue proteste, verso il cuore della città vecchia e ti risparmio i miei piaceri nel crogiolarmi per le vie che vanno verso Karlovo Námestí, e piu giù verso Emauzy, e poi verso Albertov, sempre più in fondo verso gli abitacoli e le vie assolate, popolari dove scorrono i tram e vivono le persone che non viaggiano e non sperano, non cammina nessuno qui con il naso per aria a seguire una guida sparuta che non sa mai cosa dice, ma ripete e ripete, che qui ha abitato Kafka e qui anche, che qui allo Zlátého tigra Hrabal veniva ad ubriacarsi, che qui Jan Hus fu arrostito e qui ancora e ancora, altre favole e altri conti di una storia fotografata in cartolina, e non ti ho detto che da Karlovo Námestí si pun risalire con fatica per la Jecná, attraversare la moderna piazza I.P.Pavlova e andare a deporre le proprie preghiere davanti la chiesa gotica dei Santi Ludmila e Vaclav in Piazza della pace, sulle panchine in faccia alla facciata della chiesa, ai suoi pinnacoli e strombature, potremmo sederci a chiedere una tregua, e se volessi non ti risparmierei il percorso che da Vaclavské Námestí scende fino alla più antica stazione ferroviaria dedicata a Masaryk e di là andare in via Na Porici, fino al Kavarná Imperial, ridondante, pacchiano, arsenale di orientaleggianti motivi liberty, dove è bello prendere il caffè, leggere il giornale, mangiare un dolce offerto dalla casa, ascoltare stantia musichina jazz, e riprendere ancora la via fino a piazza della repubblica, passare sotto la torre delle polveri e rifluire in via Celetná, tra le orde di turisti e le masserizie di souvenir in vendita, e arrivare alla fine di strettoie fino all’Orologio astronomico che batte il tempo per ogni ora e fa mostra dei suoi giochini di santi in processione affacciati a finestrine e sbuca allo scoccare dell’ultimo secondo di ogni ora la facciaccia di una morte ischeletrita che fa luce con un lumicino e amorevole ti dice: ricordatelo che il tempo non scorre invano perché devi morire. E adesso, che lo spettacolo è finito, voltati a destra e guarda l’ombra del sole che già declina sul selciato della piazza della città vecchia che ora è sgombra di quelle botteghine che sembrano giocattoli che smerciano oggettini, preziosi curiosi o banali, dozzinali o meravigliosi in occasione della Pasqua e del Natale, e adesso ti prendo per mano e ti porto con me, sotto le arcate che nascondono ben bene, con dovizia e premura, un ingresso, un adito alla paura in un fitto corridoio angusto aperto al cielo eppure chiuso che implora in faccia ad una porticina che se la scosti entri dentro, nel cuore più antico di un edificio che si chiama Tyn, è una chiesa, perciò fa silenzio, è barocca, dicono, per via di quei cristi crocifissi che piangono spine di sangue lustro, per via del pulpito ricamato d’oro e per i putti tutt’altro che celesti, ma senza fatica puoi ritrovare, in mezzo agli orpelli aggiunti poi, l’improvvisa volta a sesto acuto, la gramaglia fitta di nostalgia e dolore di una grata gotica e le luci sinistre che mescolano insieme la gloria dei gesuiti e la paura del peccato, il supplizio celeste e la sfida di Hus e dei fratelli boemi e solo qui puoi comprendere come si snatura una terra, come si commettono i crimini di cui la storia si fregia, e usciamo di nuovo all’aperto che tanto incenso mi fa male, ma non restare indietro, e non sbalordirti se quella dentro il cunicolo che conduce alla cattedrale è un’ambasciata, è l’ambasciata francese…, ma lascia stare. Ecco la storia che si racconta attraverso l’arte, il gruppo scultoreo di bronzo per resistere al tempo è in memoria della libertà del pensiero di Jan Hus e delle guerre ussite, che ebbero poi un epilogo triste, la sconfitta della montagna bianca nel 1620. Praga cambiò faccia allora, da quel momento in poi il ceco fu bandito, una lingua da non parlare, da sussurrare soltanto a una puttana o da strillare e sbrodolare nelle hospody. E dove ti porto adesso? la tentazione è traviarti per di qua a destra ancora e mostrarti un’altra leggenda data in pasto alle piantine e alle guide della città: ti porto a Josefov, quartiere ebraico dove si mescolano alle sinagoghe, i palazzi più rigogliosi di tutta la città, intarsiati di pietra, leggeri, suadenti come smerigli di vetro soffiato colorati di bianco, di verde, di querulo rosato, di crema e d’arancio, di grigio e di sole se scende a colmare i lastricati, i selciati delle vie, i viali alberati della via più preziosa di questa Praga, e poi a scrutare nelle feritoie del cimitero antico, nell’ammasso remoto di stele e di tombe, di cataste di pietra votate al tempo, di ammonimenti e presagi, e giù, in fondo, scorre ignara l’acqua del fiume… E potremmo di nuovo, se non sei troppo stanco, occhieggiare la mastodontica mole della chiesa del San Salvatore che farnetica di cristianità romana in questo angolo di ebrei. E vieni ancora, seguimi! Per il lungo fiume, perché no? per guardare i battelli, i cigni, le anatre, i giochi di luce, gli angeli di Stepanuv most, il metronomo in lontananza che batte il tempo della ritrovata libertr dai regimi che guadagna il tempo della città e la segmenta con un elettrico clangore. Ed eccoci fino a Karluv most che ti conservavo e ti lasciavo presagire da lontano, con le torri guardiane, con le statue di pietra che giocano anch’esse, con un turco che sogghigna e santi in estasi e santi che promettono grazie, e miracoli, perché no?, a questuare non ci si rimette niente, ed ecco l’isola di Kampa inabissata sotto l’abbraccio del fiume, ed ecco la certovká, che ha una sua magia che le parole non possono che tradire, il mulino dei gufi e Malá Strána, ma per l’ascesa per via Nerudova, dove ogni palazzo ha un suo nome è ancora presto e mentre aspettiamo la sera fermiamoci per un caffè a U Hrubín, andremo poi per Hellichová e Ujezd, alla chiesa del bambino di Praga e di lì vorrei portarti ad Andel, alla Bertramká, la casa di Mozart, e il quartiere così bello solo ieri che oggi si rovina sotto i pilastri di un cavalcavia e l’orrore dei centri commerciali, ma sulla Plsenzka resta intatta l’atmosfera di irriverente reverie di bordelli e herna bar, di fecce umane che deambulano ubriache, di pensieri profondi impressi sulle cancellate del Malostranske Hrbitov. Ed e quasi ora torniamo indietro verso Hradcaný, a cercare le orme del passante di Praga, dell’ebreo errante di Apollinaire, andiamo a cercare le ombre, le tenebre che si fanno tenere sugli imponenti lastroni del pavimento del castello, lo attraverseremo, guardando la solitudine degli edifici che si intrecciato l’uno all’altro e si ribattono il tempo che li ha posseduti, che li ha creati e fatti ad arte, e dentro l’abbraccio delle mura di un castello settecentesco, inteso come un salotto, si annidano la cattedrale di San Vito con le guglie e i mostri di pietra, e la chiesa di San Giorgio, la più antica, e poi andiamo per la viuzza d’oro, con le piccole casette per gli alchimisti e la spaventosa sagoma della Daliborka, che chiude lo sguardo sul fossato dei cervi e ridiscendiamo per il quartieretto di Nový Svet, incastonato sotto le mura del castello e l’aurea, bianca mole di Loreta, e ridiscendiamo fino a Malostranska, nel punto in cui ti ho aspettato all’inizio, ma di quante cose non ti ho parlato, quanti posti non ti ho mostrato, in quante osterie potremmo ubriacarci e in quanti luoghi potremmo smarrirci, per quante strade potremmo ridere, e quanti tram potremmo prendere per vedere in movimento la città che si attedia di domenica. Praga è questo luogo di incontri, questo crocicchio immaginario dove potremmo tendere agguati alla dea dei trivi e indurla a usarci clemenza, ecco la città rivestita di luce, come cantava Seifert, ci sta intorno come un’aureola rassicurante con i suoi piccoli teatri e le gallerie d’arte, il Veletrní Palác, o il complesso liberty della fiera permanente, che solo poche settimane fa ha ospitato la fiera del libro, e sciagurata! non ti ho portato a Zikov né a Smichov, né alla stazione centrale, né a Viehrad, né a Strahov e non ti portato nemmeno a Pohorelec, né al lago di Divoká Sarka, né nelle risacche della migliore speranza riposta in un barile di birra a U sudu, né al Vagon, o sulla Dlouha in un teatro e in un club, ma tu devi già andare hai fatto incetta di immagini e sei deluso perché non hai incontrato il tuo amore camminando al fianco di me che l´amore l´ho invece smarrito, il mio amore l’ho smarrito anni fa in queste reti viarie, in questi condotti di apparenze, di code di pavone ruotate, aperte, meravigliose. Ed eccoci insieme alla deriva dei nostri amori che hanno smesso di ballare con noi prima della fine dell’amore, eccoci in giugno a Praga, come risvegliati da un sonno, legati in questo vagabondare a tentare di lenire le ferite, rimarginare le ombre e solo qui le ombre si diradano e le paure si addormentano perché la sola vista di tanta bellezza, ridente sotto il sole, ci guarisce dalla delusione e dall’ovvio dolore che consegue ad una separazione con la gioia dei raggi di sole impressi su ogni singola pietra, baluginante su una qualunque delle cento torri, d’oro, di bronzo annerito o di rame inverdito di questa città.
Praga, giorni di sole e di pioggia
Paola Caramadre