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Esecrato nemico

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Esecrato nemico

Sempre la solita storia, quando tento di rimette insieme i pezzi, di capire e raccontare cosa avvenne quel giorno tutto il filo si ingarbuglia e mi ritrovo con i polsi stretti in una matassa inestricabile di lana dura. E non so nemmeno perché dovrei farlo, è passato tanto tempo. Non si tratta neppure di un avvenimento di rilievo, di un fatto straordinario. E’ qualcosa di semplice e veramente minimo, tanto che dopo dieci anni dovrei essermene scordata. Ci ripenso solo ogni tanto mentre ascolto certe canzoni, o meglio, quando le ascolto in un certo modo. Sono al buio, da sola, avvolta da un tepore confortevole e mentre la musica inizia a fluire, torna un’antica sensazione. Calore. Calore e confusione. Calore e fastidio. Calore e batticuore.

"See the stone set in your eye
see the thorn twist in your side…"

La prima volta che sentii questa canzone, che la sentii davvero, misurando il silenzio fra un respiro e l’altro di Bono, il ricordo mi strinse le braccia attorno e fui di nuovo in quel calore oscuro. Questa volta però non sono sdraiata sul mio letto con la porta ben chiusa e la tenda accostata, anche se nel locale non c’è molta gente ed il mio accompagnatore è un ragazzo paziente. Gli sorrido a labbra chiuse e lui sa che non ho voglia di parlare. Magari pensa sia stanca, invece, se mi alzassi da questo sgorbio di sedia potrei battere il record dei centro metri e magari insegnare l’umiltà a Schumacher, non appena raggiunto il parcheggio. Ma rimango qui, sorrido e cerco di non guardarmi intorno.

Cerco di non girare il capo e fisso dritta avanti a me, perché nell’altro angolo della sala, un poco a destra e non molto lontano, non debbo guardare. Perché laggiù c’è il mio nemico e come se questa canzone l’avesse annunciato, un leggero fremito mi aveva colta, ancor prima che entrasse nella stanza. E’ una cosa stupida, stupida e infantile che una donna adulta conservi le paure di quand’era ragazzina e grazie a questo bel discorso, che mi ripeto come una nenia, resisto all’impulso di fuggire dal locale.

Sento la sua voce da laggiù, ha un tono gentile. Eppure io odo ancora gli strilli di quando mi passava accanto abbassandosi su di me, guardandomi cattivo, prima di esplodere in qualche insulto e nell’eco lasciato dagli strilli si insinua ancor più perfida la voce roca che sussurrava minacce al mio orecchio nel breve periodo che occupò il banco dietro il mio.
"Margarina, hai fatto inglese? Margarina passami inglese. Margarina passami inglese. Non me ne frega un cazzo se è sbagliato, ma se non me lo passi… Margarina passami inglese, dai, stronza, che ti costa? Passami quel cazzo di quaderno, brutta secchia marcia non ti faccio campare se non mi passi quel cazzo di compito di inglese…" e via di seguito. Ed io tremavo.
Stupida, stupida, stupida! Anche allora, era solo un ragazzino come te, che poteva farti?
Ma ecco il nemico si alza ed io ho ancora paura.

E’ proprio come lo ricordavo, alto e massiccio, solo i capelli biondi sono un poco più corti. Indossa jeans blu indaco ed una larga camicia bianca con le maniche rimboccate, le braccia muscolose allora non lo erano tanto di meno. Mi faceva paura, me ne faceva tanta quel corpo così grande condotto da un cervello tanto scarso! Le mani poi, le mani erano addirittura sproporzionate e sembrava fossero cresciute all’improvviso, da quanto era goffo nell’adoperarle. Allora portava i capelli lunghi e non riusciva a raccoglierli in una coda che durasse più di qualche istante. Manuela ogni tanto ne aveva pietà e con la sua spazzola gli accomodava i capelli. Io non riuscivo a capacitarmi di come le altre riuscissero a trattare con lui, mi facevano l’effetto di bambini che giocassero con un orso.

E proprio come un orso ammaestrato faceva giochi per loro e se all’improvviso aveva uno scatto violento, con sicurezza lo calmavano dandogli un colpetto sul naso. Io non ci sono mai riuscita ed ammetto che forse il mio atteggiamento tra lo spaventato e il risentito non aiutava a migliorare le cose.

– Margherita, qualcosa non va?-

Il mio silenzio è stato veramente lungo. La voce del mio cavaliere mi ridesta proprio mentre lui passa accanto al nostro tavolino ed il suo sguardo distratto incontra il mio stupito.

– Scusami, oggi ho la testa fra le nuvole. Beh, più del solito-

I primi anni del liceo, nella mia classe c’era un ragazzo biondo, ed in fondo non brutto, che si comportava come qualsiasi altro bullo ignorante adolescente, facendo lo sbruffone e prendendo di mira con scherzacci e battute continue le ragazze meno attraenti e più studiose della classe. Io ero una di queste: cicciotella, capelli lunghi, sguardo basso, vestiti e modi goffi, buoni voti. Non è certo una storia nuova. Anzi è noiosa ed io non mi voglio annoiare. Sono in un locale alla moda insieme ad un giovanotto pieno di premure, che sorride garbato e mi parla cortese. Cosa temere? Anche se lui mi riconoscesse, che potrebbe accadere? Un saluto, forse un "come stai" e certamente "è passato tanto tempo".
Ma il mio nemico si siede e riprende il suo posto attorno al tavolino dei suoi amici. Non mi ha riconosciuta, forse non mi ha neppure vista. Nulla è accaduto.

– Conosci quel ragazzo?-

– Co…cosa? Ah, sì, credo di sì. Mi ricorda un compagno del ginnasio, una zucca bacata di prima qualità-

– Interessante…-

– Sì?-

– Sì, io adoro gli Smashing Pumpkins…-

Una battuta idiota. Mi sforzo di sorridere e sento i muscoli facciali cigolare. Lancio un’occhiata all’altro tavolo, cogliendo lo sguardo azzurro del nemico. E’ solo un istante, si è già voltato verso gli amici e forse uno di loro gli sta chiedendo chi sono. Non parlerà, no, non lo farà. Può avermi riconosciuta o forse no, ma di una cosa sono certa, non racconterà cosa accadde quel giorno. Non ho mai capito se fosse un’ennesima cattiveria od uno dei suoi goffi tentativi di fare la pace. Forse ero io la più cattiva, ma proprio non riuscivo a fidarmi. Un giorno, durante la ricreazione, un piccolo gruppo era rimasto in classe. I miei capelli erano ingarbugliati come non mai e chiesi a Manuela la sua spazzola. Mi disse di prenderla dal suo zaino, ma lui era più vicino di me e infilato il braccio nella borsa, la trovò subito.

"Te li spazzolo io!"
"Tu?"

Possedevo una lunga chioma castana, capivo che per lui poteva essere un gioco divertente passarci dentro la spazzola. Però quelle mani…

"Sono capace. Dai, Margarina, vieni qua!"
"Non ci penso nemmeno!"
"Ma non te li tiro! Promesso! Eddai!"

In qualche modo riuscii ad evitare quell’esperimento e lui non ci provò più. Solo ogni tanto si peritava di farmi da parrucchiere, strappandomi all’improvviso il mollettone dai capelli, che ricadevano sciolti sulle spalle. Lui si divertiva a veder fluire quella massa ed affermava con sicurezza: "Così stai meglio! Dai retta a me che sono un ragazzo". Già, di tanto in tanto, fra una torsione brutale del mio povero braccio o l’ennesima parolaccia sibilata nel mio orecchio, si ricordava che sono una ragazza e con l’aria di uno a cui non importi nulla, arrivava presso di me ciondolando e mi chiedeva senza preamboli:
"Margarina, quanto porti di reggiseno?"

– Ti sto annoiando?-
– No, scusami, tu. Stasera sono un po’ assente-

A parte questi scarsi tentativi di riappacificazione, fra cui oserei contare le mie ripetizioni, il disprezzo era reciproco ed evidente. Se ci guardavamo era in cagnesco. Lui mi tiranneggiava, io gli rispondevo sarcastica e non ridevo mai alle sue buffonate. Quel giorno non cambiò nulla fra di noi. Fu una parentesi di cui egli stesso sembrò vergognarsi, come se avesse spinto il gioco troppo in là. Ed anch’io dovrei pensare a quel fatto come ad una parentesi, come a qualcosa di lontano, trascorso, sepolto.

"See the stone set in your eye
see the thorn twist in your side…"

La stessa canzone di prima, ma il volume è più alto. Bono presto smetterà di sussurrare e mi farà scoppiare i timpani con le sue urla, senza pietà per le amenità che già mi sono dovuta sorbire stasera e il ricordo di quel giorno. Non resisto.

– Scusami, dovrei…-
– Oh, certo-

Mi alzo, ora con passo calmo mi dirigerò verso la toilette. Crescendo ho imparato ad essere orgogliosa delle mie forme di donna e cammino a testa alta, con le spalle ben dritte, e non mi vergogno di ancheggiare. Sento un brusio levarsi sopra la musica, dal tavolo laggiù. Sì, ragazzi, vi capisco, anche a me piace molto questo vestito. Con la coda dell’occhio scorgo che l’amico accanto a lui gli fa cenno, lui scansa il suo gomito infastidito, ma si gira ugualmente verso di me. Mi fermo a guardarlo, accenno un sorriso. Mi allontano.

Non avrei dovuto, lo so. Un sorriso, proprio a lui. Mai! Mi mordo le labbra mentre raggiungo la toilette, entro e cerco subito lo specchio. Ho il viso in fiamme. Ragazzina! Ragazzina come allora, come sempre! Come quel giorno che lui entrò in classe mentre ero lì da sola, urlando e dondolando come uno scimmione, e prima che potessi levarmi dal suo passo mi strinse forte chiamandomi per nome. Mi disse solo "Margherita vieni qui" ed ero già fra le sue braccia, stretta da non potermi muovere. Ricordo tutto: il caldo, il fastidio, le preghiere inutili. Io tentavo, tentavo di liberarmi facendo leva sulle braccia, ma lui me le teneva schiacciate lungo il corpo e potevo solo sforzarmi di sgusciargli via. E ricordo le frasi oscene di scherno, mentre mi divincolavo e poi più nulla quando mi accorsi che così non facevo che strusciarmi su di lui e rimasi immobile.

Anche lui smise di parlare, di gridare e restammo così, abbracciati. Tenevo la testa rivolta in basso, premuta contro il suo petto, e nel silenzio lui era dappertutto con il suo calore. Era sopra di me, era attorno a me, era dentro di me, nella mia mente. Guardo lo specchio e mi rivedo davanti allo specchio del bagno di casa. Mi ero detta "appena a casa mi laverò, mi toglierò il suo odore di dosso", invece lo cercai sulle braccia e senza trovarlo mi stesi sul letto nella mia stanza, rivivendo la scena non so quante volte.

Suonò la campanella e mi lasciò andare. Io non riuscivo a guardarlo, tenevo ancora la testa reclinata e lui si abbassava cercando il mio sguardo. Parlava, e nella confusione di quel momento ricordo che la sua voce non mi sembrava baldanzosa come al solito. Mi fece promettere di non parlare, mi disse di non vantarmene in giro, che nessuno mi avrebbe creduta. Arrabbiata gli gridai che ero io che non volevo farlo sapere, che non lo avrei detto mai a nessuno. Ed in tanti anni non lo dissi mai.

Il tempo spense l’emozione, affievolì il ricordo. Rabbia e umiliazione scivolarono via.
Per non rovinare il trucco faccio scorrere acqua sui polsi, poi bagno le dita e mi rinfresco la nuca. Forse mi ha guardata, ma non mi ha riconosciuta. Ora sono snella, femminile, sicura. Porto capelli corti e gonne ancor più corte. Non sono più la stessa. Non lo sono più. Mi osservo nello specchio e vedo una donna dove c’era solo una ragazza.
Perché sento un piccolo intenso dolore?

Prendo un respiro profondo ed apro la porta del bagno. Lui viene verso di me. Cammina frettolosamente nella mia direzione, il cellulare premuto sull’orecchio. Una rapida occhiata, poi infila l’uscita. Resto in piedi sulla soglia. Misuro la strada che mi allontana dal tavolo e dal mio cavaliere. Muovo un passo, un altro, poi guardo verso l’uscita. Fuori solo una corta scalinata e dall’altra parte della strada un parcheggio di ghiaia deserto.
Il mio nemico è lì.

Potrei uscire, scendere le scale e fargli tutte quelle domande che avrei sempre voluto fargli. Potrei farmi riconoscere, costringerlo a ricordare, a parlare, a spiegarmi almeno perché. Potrei farlo se almeno sapessi perché non mi difesi quel giorno, perché non mi lavai dopo, perché a volte rivivo ancora quel momento, ascoltando una canzone d’amore.

Attraverso la porta, scendo le scale e sento l’affanno, perché il cuore è rimasto impietrito qualche passo più indietro e la mente protesta colpendo le tempie con un maglio.
"Cosa fai? Cosa fai? Cosa fai?"
Cerco di non ascoltarla e ripenso a tutte le eroine di carta che si sono difese a filo di spada, com’erano i versi?
"Che io debba temere un esecrato nemico?"
"Che io debba lodare un esecrato nemico?"
"Che io debba…

Hannan

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