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Auf der Maur

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Auf der Maur
S/T
(Capitol, 2004)

Ritengo Melissa Auf der Maur di gran lunga la ragazza più affascinante del panorama rock attuale. Cosa c’entra con la musica?, direte voi. Poco, in effetti. Però vi permetterà di valutare la mia recensione più obiettivamente, tenendo conto della predilezione nutrita dal vostro puntuale censore per la squisita fanciulla che ha prestato il proprio cognome a quest’ultima creatura musicale. Deciderete voi se la sfavillante massa dei suoi riccioli rossi mi abbia annebbiato vista, ed udito, al punto da trattare questo prodotto discografico con eccessiva indulgenza…
Per inquadrare Melissa a beneficio di chi non la conosce sarà sufficiente citare i due gruppi principali nei quali ha militato in carriera: Hole e Smashing Pumpkins. Inevitabile comprimaria, della debordante Courtney Love nel primo caso e del genialoide Billy Corgan nel secondo, la bassista canadese ha ben figurato in entrambe le circostanze senza però intaccare la leadership dei due sopracitati deus ex machina. A distanza di qualche anno Melissa si riaffaccia al mondo del rock che conta, questa volta con un ruolo di protagonista: indiscutibilmente suo il gruppo, sua la scelta dei compagni di viaggio, sua soprattutto la firma in calce al materiale. Il passo compiuto è notevole: da membro di un gruppo a sua fondatrice ed anima. Per la prima volta, la personalità artistica di Melissa può dispiegarsi senza costrizioni.
Nel tracciare le coordinate di questo debutto non si può prescindere dalla scelta dei collaboratori. Oltre ad essere straordinariamente ricca, la guest list è assolutamente indicativa: vi figurano fra gli altri i Queens of the Stone Age praticamente al gran completo, Brandt Bjork, James Iha, Eric Erlandson & Paz Lenchantin. Cosa se ne può ricavare? Che il passato di Melissa non verrà rinnegato, e che la collocazione sonora del nuovo gruppo sarà nel filone rock alternativo di cui i Queens of the Stone Age sono oggi indiscutibili alfieri.
Lightning Is My Girl mette subito le carte in tavola: a quanto anticipato qui sopra si aggiungano i vocals di Melissa, che in questo brano così come altrove riportano alla mente Shirley Manson dei Garbage.
Followed the Waves è stato scelto come singolo di lancio, ed è effettivamente la proposta più accattivante di tutto il lavoro: melodica quanto basta, non rinuncia ad un impatto strumentale relativamente heavy e fa affidamento su efficaci pause di rarefazione. I ripetuti passaggi su MTV non devono sorprendere.
Real a Lie ha un attacco in puro stile Garbage: il deciso riferimento ad una delle band cardine dell’alternative anni ’90 si ripresenta con immutato vigore nella successiva Head Unbound, che non avrebbe sfigurato nell’epocale self-titled del gruppo di Butch Vig. E’ invece vagamente tardo-pumpkinsiana Taste You, arricchita verso il finale dall’inconfondibile voce di Mark Lanegan; mentre I’ll Be Anything You Want richiama le Hole, anche in virtù di parte dell’interpretazione di Melissa.
Che dire invece di Beast of Honor? Il drumming, i vocals ed in generale il mood della canzone sono Queens of the Stone Age al cento per cento. Con questo esauriamo l’elenco delle influenze dirette, a quanto pare: spetta a My Foggy Notion il compito di cominciare ad amalgamarle, aggiungendo agli ingredienti già citati anche un riff chitarristico che personalmente ho trovato in qualche misura southern.
L’apertura di Would If I Could è ariosa e promettente: questa volta il termine di paragone sono gli Echobelly. L’accostamento tra la voce di Melissa e quella di Sonia Aurora Madan non mi pare campato in aria, e testimonia di come i mezzi vocali della Auf der Maur siano senz’altro sufficientemente eclettici.
Non poteva mancare nel menu una ballata riflessiva: è Overpower Thee, che però, forse per via del contributo di Josh Homme, rifugge parzialmente dagli stinti pattern melodici in voga oggigiorno e costringe Melissa ad alzarsi in maniera sofferta con esiti non dissimili da quelli di PJ Harvey.
Skin Receiver non mi suggerisce alcunché di preciso, se non un certo sovraccarico ed un effetto di estraniamento. Procedo dunque senza indugi a I Need I Want I Will, dove la co-firma di Homme è ancora una volta gravida di ripercussioni sullo stile del brano; e giungo così al termine.
L’impressione complessiva è quello di un disco studiato, capace di vantare genitori e levatrici assai illustri; ma forse, a dispetto di ogni previsione, non in grado di esprimere per intero la personalità della titolare. Circondata e sostenuta da un nugolo di mostri sacri e vecchi soci, Melissa non ha voluto (o potuto) tenere a bada la carica delle influenze esterne. Può anche darsi che la scelta di tinte così espressamente riconducibili ai Queens of the Stone Age sia stata del tutto spontanea, ma il prodotto finale sarebbe stato il medesimo se Homme e compagni si fossero limitati ad un mero atto di presenza? Il sospetto è che Melissa, che qui si conferma interprete di pregio nonché bellezza rara e si scopre autrice tutt’altro che mediocre, debba uscire dall’ala protettiva di questi influenti amici per mostrare il proprio vero volto artistico. Senza dubbio quest’ultima esperienza ne segnerà un’ulteriore maturazione, di cui magari il prossimo album porterà i frutti.

Fabrizio Claudio Marcon

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