Il cinema come esperienza vitale, che libera la mente, è allo stesso tempo uno schermo dietro cui ripararsi dalla realtà. Schermo di fronte al quale sedersi il più vicino possibile, per ricevere per primi le immagini ancor fresche quando rimbalzano verso di noi, mentre nelle ultime file arrivano ormai già vecchie e stanche.
L’utopia cinematografica così viva negli anni 60 è sopravvissuta a quella politica e sessuale? Credo che in pochi oggi si appassionino tanto ai film al punto di perdere la testa, come accade agli hooligan del calcio, discutendo se sia migliore Chaplin o Keaton, la poesia o la prosa delle immagini. Il cinema però può ancora svegliare le menti, come uno scatenato tip tap di Fred Astaire (o dei contadini e delle geishe di Takeshi Kitano). Grazie al cinema si può nascere alla vita sui Campi Elisi gridando New York Herald Tribune, oppure correre a perdifiato tenendosi per mano tra le stanze del Louvre, sfiorare le pareti di una stanza che non ha pareti, per trattenere i ricordi con tutti i sensi, ballare intorno a uno scimmione che nasconde una venere bionda, oppure decidere di morire per un’insostenibile vergogna, fino a quando la strada non irrompe nella nostre vite e ci risveglia dal cinema, che può far male fino alla morte.
Nei 60 il cinema era ancora un’esperienza altamente erotica, per la visione di film dove quasi tutto quello che riguardava il sesso era represso e taciuto. E anche per quei giochi cinefili in cui per chi non riconosceva certe scene e citazioni scattavano le punizioni più piacevoli e più temute, quelle erotiche.
Il francese era la lingua del cinema e Parigi la sua città, dove capitava di incontrarsi alla Cinematheque di Henry Langlois che proiettava di tutto, film belli e brutti, che non dovevano però rimanere nelle cantine, ma uscir fuori, riprendere e irradiare luce magica. Films pas flics, film non poliziotti è quello che volevano nei 60 a Parigi e non solo. Cinefagi per grandi bouffes, mangiatori di film e sesso.
Andare al cinema è sempre stato un incontro d’amore e un’esperienza sessuale e sensuale, non una cosa da sfigati. Enzo Ungari, giovane critico dei 60 lo racconta così in Proiezioni private: "In ogni palco un segaiolo solitario, una coppia hard-core, due coppie petting oppure, zero/uno per cento, una famiglia o qualcosa del genere".
Com’è triste il mondo oggi senza il cinema, quando la sala chiude, gli ultimi spettatori si aggirano solitari tra i suoi corridoi, insieme ai fantasmi dello schermo. Cinema come luogo dimenticato, che accoglie alla fine della sua esistenza gli emarginati della società, anziani, donne zoppe, gay, spiriti solitari e irrequieti, fino alla sua inesorabile demolizione. Fine del guardare che ci costringe ad immagini fisse come quelle di Tsai Ming-Liang.
La solitudine dell’ultimo spettatore per un verso è come quella del lettore che si augura Jonathan Franzen, che consente di distoglierci dal frastuono della società dello spettacolo che ci circonda. Eppure c’è un rimpianto per la visione come esperienza collettiva in una calda e accogliente sala buia.
Per cui ci accontentiamo anche di ridere, seppur amaramente, del cinema straccione e artigianale di Ciprì e Maresco, che fa ridere con la sua umanità sopravvissuta in un tempo da post-apocalisse che ha distrutto la bellezza e lasciato in vita l’orrido puzzolente, anche se con un finale amaro, agghiacciante e tenebroso, sul lato oscuro della storia. Ballo macabro.
Ma il cinema nel tempo presente sembra ispirare solo queste immagini di fine di un sogno, anche un po’ folle, e di un mondo, di amore e morte del/per il cinema inestricabilmente intrecciate, a Taipei come in Sicilia. Quasi come se fosse la nostra vita, vuota senza cinema e senza amore. Solo i giovani sognatori di 60 anni come Bertolucci ci sanno ancora trasmettere una passione contagiosa: allora viva Bernardo, spirito burlone che non rimpiange niente.
E tu sei uno di noi, one of us?
PS: si consiglia la visione di The Dreamers di Bernardo Bertolucci, Il ritorno di Cagliostro di Ciprì e Maresco, Goodbye, Dragon Inn di Tsai Ming-Liang, Zatoichi di Takeshi Beat Kitano
C’è troppo amore nel cinema
Non esiste l’amore, ma solo le prove d’amore, anche per il cinema, potremmo dire parafrasando Jean Cocteau. Alla Mostra del cinema di Venezia edizione 2003 ne abbiamo viste molte di queste prove, forse persino troppe per la nostra salute mentale, ma forse utili per resistere in un panorama umano così desolante.
Paolo Baldi