S/T
(V2 Music, 2002)
L’emisfero australe ci ha regalato nel corso del 2002 ben due interessanti novità musicali: i canguri Vines ed i kiwi Datsuns. Dei primi ho già parlato recentemente, mi si lasci ora spendere due parole sui secondi. Detto che entrambi i gruppi si muovono sostanzialmente nell’ambito del rock grezzo e rudimentale che ha trovato negli Strokes i rappresentanti più osannati, occorre precisare come i Datsuns non siano affatto assimilabili tout court ai nomi qui citati.
Christian, Dolf, Matt e Phil (il cognome, va da sé, è Datsun per tutti…) formano un quartetto che pare essere stato sollevato di peso dai primi anni Settanta e scaraventato in pasto alle folle del nuovo millennio. Mai prima d’ora mi era capitato di ascoltare una band più impregnata di pura essenza Stooges: la mimesi dello storico gruppo di Iggy Pop è a tratti quasi perfetta, come se i quattro neozelandesi fossero stati in tour con lui per trent’anni suonando sempre e solo i brani di Raw Power. Quello che stupisce nello sporco garage rock dei Datsuns è proprio l’assoluta mancanza di modernità: tutti i referenti individuabili hanno vissuto il proprio heyday nei giorni in cui le illusioni del flower power sfociavano nella schizofrenia elettrica del decennio successivo. Si potrebbero indicare, oltre agli imprescindibili Stooges, i Blue Cheer, gli MC5, i Rolling Stones d’annata, magari gli Steppenwolf… tra i solchi di questo debut album scorre veramente la storia di un’epoca, che però i Datsuns possono solo aver sentito raccontare. Nonostante questo, la finzione è priva di punti deboli. Se il disco fosse uscito con l’etichetta remastered appiccicata sopra, ben pochi avrebbero sospettato che non si trattasse effettivamente di un album del ’70 riproposto in edizione riveduta e corretta a trent’anni di distanza. Qualcosa di simile accadeva nell’ascoltare i Mudhoney, i quali un recupero fedele delle sonorità care all’Iguana l’avevano messo in pratica ai tempi dei primi vagiti del grunge: oggi, a circa quindici anni di distanza, il garage evidentemente non ha ancora smesso di mietere vittime…
La genuina furia che caratterizza tutti i dieci brani, i vocals spesso un incollatura oltre la soglia del controllo, la chitarra solista talvolta ad un passo dalla sguaiatezza metal (l’assolo finale di What Would I Know o l’incedere alla Guns N’ Roses della successiva At Your Touch potrebbero essere elencati fra i pochi elementi sulla base dei quali discernere l’effettiva collocazione cronologica dell’album) ma spesso tesa e sferzante: su queste fondamenta si ergono brani coinvolgenti seppur avari di melodie realmente catchy. La scarsa concessione all’orecchiabilità può essere confrontata, se si è in vena di paragoni, con la proposta degli Hardcore Superstar, campioni di quella scena punk’n’roll svedese a cui si deve in buona parte il recupero del garage nel corso degli anni Novanta: laddove lo stile vocale di Jocke Berg non differisce sensibilmente da quello ascoltabile nel lavoro dei Datsuns, questi ultimi mantengono un impatto strumentale più crudo rispetto a quello dei colleghi scandinavi.
Dopo il buonismo musicale del new acoustic movement, pare proprio che il mondo del rock stia nuovamente virando verso la vibrante sfrontatezza degli esordi: la scena più cool del panorama attuale è quella a cui appartengono anche i Datsuns, e in linea generale non posso che compiacermene. Difficile dire quanto durerà, considerando che negli ultimi dieci anni in tale ruolo si sono già avvicendati il grunge, il brit-pop, il new-punk, il crossover e il già citato NAM. Il sospetto è che l’assalto all’arma bianca possa sfondare molte porte, ma non tenerle aperte a lungo. Più probabile allora che siano i Vines, fin qui più versatili, a tenere alto l’interesse del grande pubblico per qualche altro annetto: ai Datsuns è più facile pronosticare un futuro da band di culto, il che non sempre equivale ad un largo successo commerciale…
The Datsuns
Fabrizio Claudio Marcon