Il cimitero di Babbio non è grande né piccolo. Non grande rispetto alle distese delle città, limitate in periferie poco illuminate o impreziosite da monumenti più alti. A Parigi pioveva, mezzo secolo prima, scritte in inglese correvano tutto intorno alla tomba. Nessun fiore, e sua moglie chiese se era per via dello spazio o del tempo.
Non piccolo, il cimitero di Babbio, rispetto alle dimensioni del paese, bar chiesa farmacia comune e due file di case allineate ai lati della provinciale numero quattrocentocinquantadue.
Si sale lungo tornanti che ricamano la montagna, un paio di chilometri su una strada deserta, per scoprire che l’automobile non sta né dentro né fuori. Il cimitero di Babbio lo hanno costruito quando si andava solo a cavallo, e si pensava che anche gli animali non potessero disturbare. Il luogo è tranquillo, pulito, si respira il silenzio dei monti. Ci sono sedici file di lapidi, dentro, allineate con una simmetria che non ha rispetto per nulla, ma quasi tutti riposano a file di quattro, lungo il perimetro, a inseguire una croce che veglia per tutti. Non troverete nessuno a vendere fiori, ma li vedrete sulle tombe più fresche, bianchi di montagna, a volte lillà.
Sulla destra del cancello, seduto su una panca verniciata due volte, non è difficile scorgere Antonio, il custode comunale. E un signore dall’aria un po’ curva, con le mani robuste e le gambe legnose.
Ricambierà lo sguardo senza muovere un osso, resterà in dignitoso silenzio, ma sentirete i suoi occhi inseguire la vostra ricerca.
Il suo lavoro non è né pesante né brutto. Mantiene pulito il giardino, i sentieri di ghiaia, la croce, garantisce il funzionamento della struttura e aggiorna il registro, che un domani permetterà di rintracciare qualcuno di importante. Ad Antonio non pare che in quel cimitero siano seppellite persone famose, i pochi che si arricchiscono si trasferiscono in città e non tornano nemmeno da morti. Non brutto il lavoro, perché oltre al prato, ai vialetti, alla croce e al registro non ha nulla da fare. Alle sepolture sono incaricati gli uomini del comune, con le divise e i guanti di lattice, e questo lo solleva da certe responsabilità e dalla convinzione di considerare se stesso un becchino.
Non deve preoccuparsi nemmeno delle tombe. Sono i parenti, gli amici, solo le fidanzate e i mariti. All’inizio vengono di frequente, a piccoli gruppi, poi le apparizioni si fanno meno costanti, nei giorni di festa o al momento dei santi. E sempre stato così, gli pare. Solo la vedova Ramini sale tutte le mattine, a passi ogni volta più incerti, e Antonio è costretto ad aprire il cancello anche nei giorni di pioggia. Ma la maggior parte dei morti, le persone sepolte dal tempo o decedute troppo vecchie per avere ricordi, non hanno nessuno che preghi per loro.
Duemiladuecentododici i morti di Babbio, il giorno che li aveva contati, ma lo spazio non è mai sufficiente per coprire le cicatrici del tempo. Impossibile costruire un nuovo cimitero, e il sindaco si era servito di una lunga circolare. Sulle pareti il riposo è gratuito, si legge a pagina uno, ma al termine del venticinquesimo anno le spoglie si travasano nell’ossario, una costruzione di cemento, per liberare lo spazio ai nuovi arrivati. Se i parenti intendono preservare la memoria devono pagare una somma di mantenimento, su un conto corrente postale, ma non c’è tempo per ricordarsi di tutti. I sepolti per terra sono più fortunati, si deduce a pagina sette, con un milione si riposa in eterno, o almeno si crede. In comune, infatti, si sono accorti che i pronipoti si disinteressano dei bisnonni materni, e non ci sono ricorsi se si svuota la terra. Nell’arco di due generazioni, così, i sepolti di Babbio confluiscono nell’ossario, insieme, dietro una grigia lamiera che imprigiona la storia di tutta la valle.
La vita di Antonio, come spesso si scopre a pensare, è semplice e bella. Si alza al levarsi del sole, raccoglie le uova, scalda un caffè, prepara una colazione che gli permetterà di raggiungere il pranzo. Poi, senza fretta, chiude casa e si trasferisce nel cimitero, che deve presentarsi pulito e accogliente per i nuovi arrivati. Si serve di un rastrello per appiattire la ghiaia, di forbici allungate per reprimere il verde, di un bastone appuntito per eliminare le foglie, ma è cosa da niente, e dopo un passeggio di un’ora non ha più nulla da fare. A volte compone le tombe dei morti più morti degli altri, rubando fiori alle spoglie più rappresentate, perché tutti, con il passare degli anni, necessiteranno dello stesso favore. Potrebbe persino appassionarsi ad alcune di quelle facce che non hanno più storia della loro fotografia, ma è inutile, presto o tardi gli impiegati si disferanno di loro.
Non sono nemmeno le nove quando si siede sulla panchina di legno, a osservare l’andirivieni dei parenti, il rituale ripetersi delle sepolture, il calcificarsi di freschi ricordi. Ma il tempo corre veloce, e a mezza mattina si concede una striscia del tabacco migliore, dolce. Esce sulla strada a esaurirlo, per rispetto di presenti e defunti.
Antonio scende in paese una o due volte alla settimana, perché non ama i discorsi o la compagnia delle carte. Cammina per andare in comune, da un giovane medico che gli hanno assegnato, o per spedire due righe a Francesco. Suo figlio vive in Piemonte, ma lo vede di rado, perché nella valle le persone non aspettano a morire, e il cimitero deve sempre essere aperto, specie nei giorni di festa.
Al pomeriggio le visite si fanno meno frequenti, spesso non viene nessuno, la luce scende rapidamente, e il più delle volte rientra in anticipo, nella casa a due piani di fianco all’ossario. Ha un cane,
Adelmo, che è più vecchio di lui e non ha voglia di camminare, cinque galline, da chiudere nel recinto per i pericoli della notte, e tre o quattro gatti, a seconda dei giorni. Ha anche un televisore a colori che gli ha regalato Francesco. L’accende dopo mangiato, non sempre, predilige i film di una volta ma è troppo stanco per arrivare alla fine.
La vita, meno della morte, non regala ad Antonio altre sorprese. Non ci sono novità, nulla che valga la pena di essere raccontato. Ma questo non è affatto importante, l’insieme delle sensazioni della sua giornata non è privo di interesse. Ci sono i suoi animali, la tranquillità, lo spazio, e tutte le persone che vengono a visitare i loro morti. In città ci sono cose più eccitanti, gli sembra, ma la sua esistenza non è meno emozionante di altre.
Il suo vicino si chiama Rinaldi, un contadino da cui acquista il necessario per vivere, pane vino formaggio pere e verdure. Ha una casa grandissima il Rinaldi, e d’estate affitta una camera ai turisti di passaggio. Ma il cimitero non è una buona attrattiva, specie la notte, le luci conferiscono alla costruzione un’aria spettrale, i lupi intonano quartetti di amore, e nessuno si trattiene per molto.
Anche per questo Luigi costituì una piacevole eccezione. Non aveva più di vent’anni quando bussò al portone di casa Rinaldi. Aveva la barba incolta, i capelli colorati di rosa e di giallo, e sembrava stanco.
Uno strano ragazzo, lo definiva Rinaldi. La mattina rimaneva a dormire, ma si presentò al cimitero fin dal primo pomeriggio. Un uomo robusto, fu la prima impressione di Antonio. Si sdraiò per terra, si lasciò immergere dal profumo dei fiori, dall’aria dei monti, accese una sigaretta e cominciò a copiare i volti dei morti. Non disturbava nessuno, e anche se molti lo avrebbero preso per pazzo Antonio lo lasciò disegnare. Anzi, contrariamente alle sue abitudini gli sedette di fianco fin dai primi momenti, a osservare la costruzione di linee che la natura annienta nel tempo.
Il ragazzo procedette con metodo, numerando tutti i disegni. Cominciò con i defunti per terra, una per una le sedici fila, poi il primo lato della costruzione, e per disegnare i più alti saliva su una scala di legno. Parlava poco, ma ad Antonio stava simpatico, e una volta lo invitò persino a mangiare, una seconda si trasferirono da Rinaldi, in un’inusuale cena di gruppo. Il ragazzo si sciolse nel vino, raccontò che aveva girato l’Europa con una motocicletta, mantenendosi con i disegni. Non era facile, perché le persone non si fanno ritrarre, e i professionisti ti impediscono di lavorare. Parlò di Parigi, che
Antonio aveva visto nel suo viaggio di nozze, ma anche di luoghi dove non era mai stato, Roma, Barcellona, Londra, Amsterdam e Berlino, mostrò i disegni dei monumenti e sussurrò di ragazze stupende.
Studiava a Milano, adesso, ma nel tempo libero continuava a disegnare.
I morti erano un buon esercizio, spiegò sorridendo. Anche Antonio disse qualcosa, ma il mattino seguente era troppo appesantito per ricordarsi di tutto. Se ne andò come era venuto, Luigi, un mese più tardi, e Antonio non ne seppe più nulla. Ma prima di partire si fermò a salutare, regalò il suo blocco al custode, insieme a una dedica breve. Antonio la rileggeva tutte le sere, e tutte le sere pensava al ragazzo: “ci sono solitudini che si possono solo raccontare”.
Sul blocco i volti erano più di seicento, frutto di una ventina di sedute. Non sempre riempivano tutta la pagina, a volte erano piccoli e allineati, come un esercito. Alcuni erano precisi, con tutte le sfumature, di altri si intuivano solo i lineamenti. C’erano persone che aveva conosciuto, compagni della sua giovinezza, altre che aveva visto seppellire, altre che non gli dicevano nulla. Ma i disegni erano più belli delle fotografie, pensava prima di addormentarsi, restituivano ai morti una loro dimensione. Il ritratto più bello era il numero ottantaquattro, il volto di una donna matura con occhi che si arrampicavano al cielo. Occupava tutta la pagina. Sedici anni prima gli era sembrata la foto più bella di sua moglie, e ora il disegno era addirittura fantastico. Quelle linee imprecise gli ricordavano momenti a cui la memoria si abbandonava sempre più spesso.
Trascorse un anno dalla visita del ragazzo, e Antonio continuava ad alzarsi ogni mattina al levarsi del sole, continuava a curare il cimitero, tutti i giorni della settimana, con il caldo e col freddo, continuava a scendere al paese una o due volte alla settimana, per andare in comune, dal medico, o per spedire una lettera. E tutte le sere, prima di andare a dormire, sfogliava il blocco da disegno, pagina dopo pagina, ritratto dopo ritratto, fino a una notte di agosto, strappò un foglio e Rinaldi lo vide arrivare correndo. Il ritratto è nella sala da pranzo, adesso, dentro una cornice di quercia. Sotto c’è un’istantanea di suo figlio, Francesco che sorride con la moglie e i bambini. C’è un piccolo lume, anche. Antonio lo accende la sera, prima di andare a dormire, e gli sembra di illuminare il cimitero dei propri ricordi.
In comune, tutti gli anni, il segretario domanda ad Antonio se vuole prenotare il terreno di fianco alla moglie, e tutti gli anni si sente rispondere con le stesse parole. Non è un problema di soldi, che col tempo ne ha tenuti da parte, vuole solo prendere la cosa con calma, rimanere un poco ancora, se Dio lo consente, a custodia di tutti i suoi morti.
Antonio
Raffaele Gambigliani Zoccoli