KULT Underground

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Lunedì?

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Era un dannato lunedì mattina come tanti altri. Io ero in ritardo, con la barba di una settimana, la stessa camicia da tre giorni, gli stessi calzini da un mese.
C’era il solito freddo cane, con quel sole appena abbozzato di un autunno corto corto, e quell’odore di caldarroste che ti faceva venire l’acquolina in bocca anche alle nove del mattino. Avevo fretta, come al solito, e, come al solito, il traffico prometteva male.
Svoltai lungo via Caduti in Guerra, e mi trovai imbottigliato in un chilometro di strombazzante fila di prima qualità: studenti, impiegati, operai. Neanche una donna in vista, con cui rifarmi gli occhi. Solo giovani mal rasati, uomini di mezza età con il mio stesso sguardo perso e assonnato, tutti pronti a scannarsi, se ce ne fosse stato un motivo.
Arrivai in ufficio con i consueti ventitrè minuti di ritardo di ogni lunedì mattina. Paola mi salutò, distratta, come sempre, impegnata a tirar fuori chissà che cosa da una marea di fogli dattiloscritti. Non c’era odore di caffè, ma sembravano tutti già schizzati: occhi grandi come monete, mani frettolose e senza sosta, tutti con una sigaretta accesa in mano, e almeno tre nei portaceneri neri.
Lunedì mattina.
Autunno.
La mia vita.

Non mi ricordavo più cosa dovevo fare quel mattino. Cercai un po’ tra le cartacce che coprivano la mia scrivania, senza ottenere niente, a parte qualche monetina, e la matrice di una schedina senza valore, lasciata lì la settimana scorsa: duecento sacchi di sistema, sei di punteggio. Uno schifo. Non dovevo più giocare a totocalcio. Magari il lotto era più facile. Chissà.

Guardai il mondo fuori dal finestrone aziendale, meglio che un tivù cinquanta pollici, programmi a parte. Un cielo grigio, qualche palazzo mal fatto, con un gran bisogno di una verniciata, e magari di una messa in piega; un prato striminzito in basso sulla sinistra, con il solito cane nero, totalmente idiota, che periodicamente si metteva ad abbaiare agli aerei, verso le tre del pomeriggio, e poi di nuovo, con rinnovato vigore, alle cinque e un quarto.

Sguardo attento, sopracciglie aggrottate, mano sul mento: la mia migliore interpretazione del pensatore, preparata e provata per anni ed anni, e ora, perfetta, sicura, spontanea. Potevo fare teatro, potevo lasciare tutte queste scartoffie e dedicare la mia vita alla recitazione. Col tempo mi sarei impegnato in parti sempre più complesse, più difficili: l’uomo che ha un idea geniale ma che si trattiene, quasi soffrendo, dall’esternarla, per pura umiltà d’animo.
L’uomo che sa la risposta giusta, ma che preferisce sentirla dagli altri, come a conferma di una superiorità, mal celata, che a volte pesa sul suo animo inquieto.
Per ora mi accontentavo di questa unica particina (l’uomo che riflette con così tanto ardore, che neppure il superiore più disinibito se la sente di interromperne il sacro flusso cerebrale), ma in un futuro, chissà.

Ma ora dovevo ricordare. Cosa dovevo fare?
I contratti con la Spemar li avevo finiti venerdì, in un inconsueto fremito creativo che mi aveva lasciato perplesso per tutta la successiva serata; le bozze per Davide le avevo affibbiate a Simone.
Così come l’analisi del progetto di Dicembre.
Presi la matita, appuntita all’inverosimile, ed iniziai a temperarla con cura. Mentre il legno a strisce scendeva nel cestino vuoto, pensavo. Ma anche quando ormai anche quella scena era arrivata alla sua naturale conclusione (la chiudevo sempre sorridendo ad Alberto, che normalmente si voltava verso di me in quel momento, come se ci fosse un tacito accordo tra di noi), nulla mi era ritornato in mente.
Possibile che non avessi NULLA da fare? Possibile che non ci fosse neppure un foglio da piegare con calma durante tutta la mattinata, o che non ci fosse qualche fotocopia da fare, qualche lettera da leggere, e a cui rispondere con fervore in poche righe e molto tempo?
Riflettei ancora un po’, poi, sentendo nell’aria qualcosa che non mi piaceva, ma che neppure mi era dato di comprendere, mi alzai con classe dal mio trono, e mi diressi verso la stanza del Grande Capo
Indiano. Si, lo so, mi sentivo un po’ in imbarazzo. Forse pure ridicolo. Ma, insomma, ero pur lì per lavorare. O no?

Big Tom (il Grande Capo Indiano) era seduto dietro la scrivania, con un giornale in mano, ed il telefono all’orecchio. Ascoltava, sbuffava, borbottava tra sè, e cacciava qualche urlò alla cornetta. La fronte “spaziosa”, a sentir lui segno di una intensa (quanto dubbia) vita sessuale, era coperta da goccioline di sudore, che sembravano incoronarlo “camionista dell’anno”. Camicia bianca, cravatta, giacca.
Tutto in ordine, tutto quasi perfetto.
Mi vide, ma non disse nulla, non fece un cenno. Continuò a leggere il suo giornale, sempre la stessa pagina, per un quarto d’ora, allietando il fine udito della sua segretaria con le piacevolezze che grugniva al suo interlocutore telefonico. Non mi sedetti.
Restai invece in piedi, ben eretto, resistendo con molto stoicismo al vezzo di appoggiare la spalla al muro, e guardai, per l’ennesima volta, quella reggia in terra, quel luogo quasi sacro, dentro il quale Big Tom viveva, fumava, amava, e, soprattutto, sudava.
Poi il “colloquio” telefonico ebbe fine.
Niente di eclatante: un “porco bastardo” gridato ad un telefono la cui comunicazione con l’esterno era già stata eliminata da un altro luogo, distante e sicuro.
Big Tom mi fissò per un lungo attimo, asciugandosi la corona con il palmo della mano. Appoggiò il giornale sulla scrivania, e, aperto un cassetto, iniziò a frugarci dentro con attenzione.
“Mi ricordo di te” disse, senza alzare il capo. Per un lungo istante ebbi la certezza che non stesse parlando con me, ma con un essere, un’entità che sicuramente doveva vivere nel suo cassetto. “Mi ricordo di te, piccolo gnomo.” immaginai di sentire. E sorrisi, con una smorfia abbozzata sulla destra, l’occhio acuto di chi è tollerante con un poveraccio, e le mani che mi scivolavano lentamente, ma inesorabilmente dentro le tasche dei pantaloni.
Big Tom si alzò in piedi, con un foglio in mano, dono del suo amico gnomo della scrivania. Sbattè contro il bracciolo della sedia, e mi si avvicinò, con quel suo passo leggiadro da ippopotamo. Basso, grassoccio, sudaticcio. E con uno gnometto che gli fa da segretario dentro al cassetto.
Il mio sorriso smorfia raggiunse livelli da paresi facciale, e mi costrinsi a guardare fuori dalla finestra (non senza posare lo sguardo su BettyBlue, segretaria personale del gran capo), e a fingere un colpo di tosse, per alleviare un attimo la tensione.
“Tutto bene?” Big Tom era a due passi dal mio naso, e mi guardava dal basso verso l’alto, come per controllare che non nascondessi chissà cosa al suo interno.
“Si, solo un po’ di raffreddore.” dissi con voce piena, calibrata, studiatamente calma. “Dev’essere la stagione.” aggiunsi, preferendo questa frase a “Devo aver preso freddo mentre facevo jogging” e a “Non si sa mai come vestirsi, con questo tempo.”.
“Si deve proprio essere la stagione.” ripetè il Grande Capo Indiano, inclinando il capo di lato, e continuando a scutarmi come un bambino squadra un quadro surrealista in un museo.
Poi sollevò davanti ai miei occhi il suo foglietto, muovendolo vigorosamente avanti e indietro. Cercai di leggere cosa c’era scritto, ma trovavo il tutto troppo divertente per concentrarmi seriamente su quell’azione. “Sono un poliziotto” diceva al mio senso dell’umorismo quel foglio svolazzante “e queste sono le mie credenziali”.
“Sai cosa è questo?” chiese il Grande Capo Indiano, al servizio della pubblica autorità di fogliolanda gnomosa.
Una pausa.
“E’ la tua lettera di licenziamento”, aggiunse dopo un attimo di concentrazione.
“E questo, se non ti dovesse essere subito chiaro, vuol dire che sei licenziato. Fine. Fuori. Eliminato”
Altra pausa, un passo indietro del gran capo, che continuava a tenere i suoi piccoli occhi scuri fissi su di me, e un paio di battute controtempo di BettyBlue, che palesemente stava fingendo di continuare a lavorare, ma che in realtà si stava gustando con cura quella scena preannunciata.
Riflettei un istante. Non è che avessi proprio capito bene le implicazioni di quello strano diversivo. Era uno scherzo? Cosa dovevo fare? Dovevo chiedere spiegazioni? Piangere? Urlare?
Non mi sembrava cattiva l’idea di cacciare un urlo disumano e di avvinghiare il sudato collo di Big Tom, e stringerlo un po’. Solo per fargli passare quel momento di compiaciuta saccenza che iniziava un po’ ad infastidirmi.
Ma non feci nulla. Mi limitai a fissarlo, con un espressione del tipo “Sei proprio un bambino cattivo, piccolo Tom. Ma mamma ti perdona lo stesso.” Poi, vedendo che il suo sorriso non diminuiva, e che non sembrava essere in procinto di capitare null’altro, mi girai lentamente ed uscii dall’ufficio.
Mi fermai davanti alla macchina del caffè, mi frugai le tasche un istante, poi infilai cinquecento lire nell’apposita fessura, e mi ordinai un caffè. Doppio. Senza zucchero.
Poi, con questo bicchierino bollente, pieno di pece nera come la notte, che una qualche ditta di Sassuolo sosteneva essere caffè di prima scelta, mi diressi verso la mia scrivania.
Vidi con chiarezza, senza neppure bisogno di voltarmi, lo sguardo del grande capo indiano volteggiare come un avvoltoio sopra di me. Iniziai poi, in un parossismo di paranoia a sentire un vocio in espansione provenire da ogni dove. Mi giravo e vedevo i miei colleghi (ormai ex colleghi) che continuavano indifferenti il loro lavoro.
Poi, quando il mio sguardo si spostava altrove, voci, sussurri, borbottii riempivano la mia testa. Tutti sapevano? Tutti erano lì a deridermi in questo mio ultimo valzer fino al mio castello: una scrivania di un materiale non meglio definito, bianca e lucida, con poco o niente sopra.
Guardai il piano, senza sapere di preciso cosa fare. Dovevo raccogliere la mia roba, ed andarmene, ok. Ma quale era la MIA roba, in mezzo a quei quattro fogli scarabocchiati? Forse non c’era qualcosa di mio. Forse io ero “vissuto” in quei due metri quadri di spazio, in questo mondo immenso, senza lasciare traccia alcuna, senza avere niente che ne attestasse la mia proprietà, se non il mio corpo e il mio sorriso, per poco meno di otto ore al giorno.
Questo pensiero mi fece riflettere.
Appartenevo a quel luogo? mi chiesi.
Ero io veramente lì?
Esistevo, in fondo?

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