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Guy
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L’inizio del film appare un po’ monotono, la storia assurda e quasi irreale. Un ragazzo è perseguitato dalla telecamera di una giovane regista senza volto. Dopo i primi dieci minuti siamo tutti tentati a chiederci: ma sarà tutto così il film?
Dopo mezz’ora invece siamo calati nella storia che continua sull’orlo tra il reale e l’improbabile.
La scelta è ardua: siamo gli occhi, e la mente, che riprendono attraverso l’obiettivo della cinepresa, o siamo il soggetto, l’obiettivo della storia? Siamo il carnefice o la vittima?
Quando tutto sembra diventare più che reale, un racconto di vita quotidiana, ci sorprende una forte tensione emotiva: un legame tra due occhi, e una mente, che non solo osservano ma guidano e scoprono, e un individuo, che non solo è osservato ma ne è rapito.
Il gioco tra i due si trasforma quasi in una ragione di vita: non solo
Guy è ripreso, anche la sua ragazza, il suo lavoro, la propria quotidianità. Poi scopre di non essere il primo e unico soggetto della regista, e la nevrosi si espande.
La vita di tutti i giorni è resa da questo film un’incognita non indirizzabile: mai sentirsi al sicuro.
Le vesti di vittima e di carnefice si ribaltano: quale l’uno e quale l’altro? A noi la scelta di individuare chi dei due soccombe e chi no.
E se nel film alla fine tutti si chiedono Dov’è Guy, noi invece ci chiediamo Chi è Guy.