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Diario di un Visionario

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DIARIO DI UN VISIONARIO

Non ho una casa, ma non dovete piangere per me. Sto bene qui fuori, vivo del mio sguardo e dei miei pensieri.
Sembrerà una cosa buffa a chi è abituato ad un letto ma, dopo tanti anni, trovo alcuni marciapiedi più comodi di altri.
E guardo la gente che passa, mi guarda e scuote la testa.
E’ inevitabile, quasi tutti scuotono la testa.
So che alcuni lo fanno per compassione, altri perchè disapprovano la mia povertà. La mia voglia di far niente.
Ci sono certi giorni che mi sento una meraviglia. Che sono felice, mi sveglio riposato e vedo il mondo da quell’angolatura giusta, in quel modo che mi piace.
Non capisco da che cosa dipenda, tutti i miei giorni sono uguali.
Cambia solo il tempo, quello che mangio, la gente e le cose che vedo.
Perciò il mio umore dipendera’ proprio da queste cose.
Il vino che bevo è sempre di pessima qualità, lo so ma non me ne accorgo più.
E’ incredibile quanto diventino profondi i miei pensieri dopo un paio di bottiglie. Se sapeste le storie che penso, probabilmente rimarreste incantati.
E scuotereste la testa per il mio talento gettato. Queste storie le penso per far passare il tempo. Se no si rischia di trascorrere giornate lunghe un mese.
Non che faccia differenza dopo tutto. Ma poi, mica le penso le mie storie.
Sono loro che mi saltano in testa, già finite, così, senza che io debba fare nient’altro.
Le guardo scorrere come un film con gli occhi chiusi.
Non sono tutte allegre le mie storie, forse anche da questo dipende la mia felicita’. Già.
Anche questa è una storia, sto pensando di parlare ad uno di voi. Ad uno di quelli che scuotono la testa quando mi vedono e che quando piove non escono, se non hanno l’ombrello.
Penso di averne diritto. Chiedo un po’ di generosita’, nemmeno la supplico. Li’ c’e’ il mio cappello, io non parlo cercando di turbare le coscienze. Posso quindi immaginare questa storia, fingere di raccontare ad uno di voi.
Vi conosco bene, vi osservo da anni, come uno scienziato osserva le sue cavie.

Questa mattina il sole è già alto.
Mi ha svegliato l’allarme di una macchina, avrà suonato per un quarto d’ora.
Ho l’impressione che gli allarmi suonino solo quando il ladro non c’e’ affatto.
Così, per far vedere che sono efficienti. Come il cameriere lucida l’argenteria già pulita. Così.
Vi chiederete cosa ne so io di camerieri e ancor più di argenteria.
Beh, in gioventù ho fatto il cameriere in una lussuosa sala da tè, e fingevo di lucidare l’argenteria già pulita, per potermi fumare una sigaretta sul retro.
Non era male come lavoro, un sacco di belle donne. Anche di brutte, si intende, ma quelle sono particolarmente bravo a non vederle.
Immaginatevi lo sciame di signore di ogni eta’, che tutti i pomeriggi cala sulla sala dove lavoro, in nuvole di profumo francese, bevendo ettolitri di tè al bergamotto.
Milioni di tiri nervosi alle sigarette infilate nei bocchini di tartaruga.
Tante di quelle parole, accenti, risate, sbadigli. E quell’insopportabile profumo di caramelle alla viola.
Mi viene la pelle d’oca, a pensarci.
Potete ben immaginare perchè mi licenziai. Non era lavoro per un giovane quello.
C’era il rischio che ti passasse la voglia di conoscere una donna per il resto della tua vita.
Sta arrivando la primavera, il mio sacco a pelo è ogni giorno meno umido. Ci metto sempre un po’ a decidere di alzarmi, mi guardo intorno.
E’ bello poter guardare la gente che passa mentre si e’ sdraiati.
Tutti assumono un aspetto bidimensionale quando hanno il cielo come sfondo.
Mi sembra di essere piu’ obbiettivo da sdraiato, e’ un buon punto di vista. Dal basso verso l’alto, non viceversa. Io basso e immobile, gli altri alti ed in movimento.
Sembrerebbe proprio l’allegoria delle nostre vite a confronto. Pero’ mi sento quasi sempre piu’ saggio nella mia inutile e immobile presenza. Come una placida vacca sacra, che osserva la societa’ correre, trasformando tutto e tutti. Anche i piccioni. I piccioni, sono un po’ come gli uomini, si comportano tutti allo stesso modo.
Muovono il collo alla stessa maniera, scappano per gli stessi rumori.

Diresti di vedere sempre lo stesso piccione, moltiplicato all’infinito.
Non che non ce ne siano di più goffi, ce ne sono eccome, ce ne sono anche di storpi o di ciechi. Ma si comportano esattamente come un piccione normale che e’ goffo, storpio o cieco.
Da sdraiati si vedono un bel po’ di cose in più, garantito.
Ad esempio in alto, quando si cammina non si guarda mai in alto. Lo sapete che sono riuscito a classificare le nuvole in dodici tipi diversi?
A seconda del colore, della forma, della densità.
Nessuno conosce le nuvole come me, so indovinare quando piovera’ meglio di un lupo di mare.
Sto a guardarle per ore, lo facevo anche da piccolo, ma adesso ho molto più tempo.
E’ sorprendente come assomiglino sempre a qualcosa.
Non mi è mai capitato di vedere una nuvola che non somigliasse a niente, fosse solo qualcosa di insignificante.
Il fumo non assomiglia a niente, è troppo veloce, sale così rapido dalle sigarette e dalle ciminiere che si puo’ fare a meno di guardarlo. E’ monotono. Non assomiglia a niente.
Da bambino avevo un caleidoscopio. Ricordo che, appena me lo regalarono, lo trovavo divertente. Sapete, i colori e tutto il resto.
Pero’ dopo qualche giorno mi stancai, quelle forme non somigliavano a niente. Mi sentii persino stupido. Perche’ avevo perso tempo a guardare dentro un tubo.
Ora ho un pezzo di vetro rosso,e’ bello guardarci attraverso.
Si vede tutto di un altro colore, certe cose sembrano addirittura meglio. La bistecca della mensa può sembrare succulenta, se la guardi attraverso il mio vetro.
L’unico colore che non cambia è il nero, mi chiedo se ci sia un senso in questo. Il nero è nero e non si discute.
Devo avere studiato qualcosa a riguardo quand’ero a scuola, non ricordo esattamente, mi sembra che il bianco e il nero avessero qualcosa di particolare rispetto agli altri colori.
Fatto sta che il bianco diventa rosso, ma il nero non cambia di una virgola.
Se guardi un lampione acceso attraverso il mio vetro ti può persino sembrare un piccolo sole al tramonto. Ci tengo molto al mio vetro rosso.
L’ho trovato in un cassonetto, sono bravo a cercare fra la spazzatura, non mi piace, ma sono bravo.
Un giorno ho trovato una protesi. La protesi di una mano, aveva perso la vernice colore della pelle, su tutte le punta delle dita.
Il colore sotto era bianco.
Chissà chi l’aveva gettata, chissà di chi era.
Anche se muori, non la buttano la protesi, ti ci seppelliscono con un guanto sopra.
Forse era di qualcuno che se ne è procurata una migliore o più bella.

Qualcuno che ha risparmiato per una mano nuova e, dopo averla comprata, ha gettato l’altra.
Io non l’avrei buttata via, mi sarei terribilmente affezionato ad un oggetto simile, deve essere come perdere la mano vera per la seconda volta.
Perchè quella protesi, e se l’avessi conservata potreste vederlo coi vostri occhi, doveva avere almeno vent’anni.
Come si fa a non affezionarsi ad una cosa che hai addosso da vent’anni?
Secondo me quel poveretto è morto e i figli, pensando di fargli una cosa gradita, o solamente per il rimorso di generosità mai avute, gli hanno cambiato la mano prima di seppellirlo.
Non hanno nemmeno pensato a conservare quella vecchia, considerandola oggetto macabro, come se fosse appartenuto ad un estraneo.
E’ difficile pensare che venga gettata una cosa che sia stata negli stessi luoghi e che abbia vibrato degli stessi suoni di una persona per tanto tempo. Diventa quasi la testimonianza della sua vita.
Io ad ogni modo l’ho sepolta là, dopo la ferrovia, dove c’è quel campo un po’ brullo.
L’ho sepolta per rispetto, mi è sembrato una cosa giusta.
Quel campo è brullo tutto l’anno, non ci ho mai visto un solo filo d’erba.
I ragazzi ci giocano a calcio.
D’estate fanno anche delle partite di notte, con l’illuminazione. Però spesso d’estate la terra è così secca, che ad ogni movimento si alza un gran polverone, e quelli, poverini, a strofinarsi gli occhi senza voler smettere un attimo di giocare.
Ce n’è uno che per me ha un gran talento.
Credo che ci vada quasi tutti i giorni a giocare là. E’ magro magro, ha i calzini così larghi che gli stanno tutti arrotolati intorno alla caviglia.
E’ uno spettacolo, è veloce e fa delle finte che abbocchi anche solo a guardarlo.
Lo vedi che punta sulla sinistra e un attimo dopo è già a destra, certe volte si fatica a credere ai propri occhi.
E’ un gran talento, poi non è egoista, la passa quella palla, la passa maledettamente bene. Potrebbe diventare qualcuno, se un giorno non lo vedrò più giocare in quel campo sarà probabilmente perchè gioca in televisione.
Molte volte, d’estate, mi appoggio ad un albero e sto a guardarli giocare.
Tifo sempre per la squadra in cui gioca lui.
E gli do anche dei consigli, mentalmente.
-Passa a quello. Tira.-
Sembra sentirmi, fa sempre quello che gli dico. Ha un gran talento quel ragazzo.
Qualcuno degli altri mi saluta, sono gentili. A volte mi chiedono di tenere il punteggio, non che si fidino, lo fanno per gentilezza perchè vedono che vorrei partecipare, in qualche modo. Certe partite finiscono con punteggi mostruosi, piu’ di venti gol di scarto.
Mi chiedono il punteggio e io glielo dico, se si accorgono che è sbagliato fanno finta di niente.
Sono dei bravi ragazzi.
Quando giocano le partite di qualche torneo, viene il prete della parrocchia ad arbitrare.
E’pelato, d’estate gli si brucia tutta la testa. E’ un buon arbitro, anche se non fischia molti falli.
Non che ami il gioco maschio, solo che fa dannatamente fatica a stare dietro al ritmo vorticoso di una partita fra tredicenni e ne vede la metà.
Suda, suda come un matto, anche se sta praticamente immobile. Certe volte non ha nemmeno più fiato da mettere dentro il fischietto. Gli escono certi fischi mosci, che sembrano gli sbuffi di un bollitore.
La donna che lo accudisce deve fargli da mangiare pesante, quando mi passa vicino ha sempre la tonaca che puzza di soffritto.
La parrocchia è un posto tranquillo.
Ogni Domenica mattina mi metto a sedere sotto il portichetto davanti all’entrata, con il mio berretto di panno verde vicino ai piedi.
Rimedio quasi sempre più di diecimila lire.
C’e’ chi mi guarda con una faccia strana, come per farmi capire che i soldi costano fatica e mi da’ solo cento lire.
C’e’ chi butta un intero biglietto da mille nel berretto, facendolo svolazzare dall’alto, gustandosi qualche secondo della mia riconoscenza.
Volete sapere la verità, non mi interessa piu’ di tanto. Adoro vedere le loro facce, vederli da vicino.
Guardare i vestiti. Sentire i profumi, ascoltare brandelli di discorsi.
Farmi un’idea di con chi ho a che fare.
Posso persino immaginare la casa di quel signore che mi dà sempre cinquecentolire lire : ha un cappotto verde con il collo di pelliccia e probabilmente è vedovo.
Ha due fedi al dito, una deve essere quella di sua moglie.
Me lo immagino prepararsi da mangiare, lento e silenzioso nella cucina ordinata, con una lampada al neon bassa sulla tavola.
Un po’ di prosciutto crudo, un bicchier di vino e la pasta con il ragu’ in scatola.
Credo che non gli dispiacerebbe farmi compagnia.
Mi guarda con aria benevola, forse non ha proprio piu’ nessuno con cui parlare.
Penso che si senta fregato dalla vita, anzi, piu’ esattamente, dalla morte.
Se non fosse legato a quell’immagine rispettabile che lo ha accompagnato per tutta la sua esistenza, a quel cappotto con il collo di pelliccia, allo sguardo ed al saluto di tutti quelli che lo conoscono, probabilmente verrebbe qui con me, si sederebbe qui , a godersi in maniera cosi’ diversa il resto di quella vita che senza sua moglie non vale piu’ cosi’ tanto.
Sarei felice se accadesse, se una Domenica, invece di buttare cinquecento lire ne cappello, mi guardasse e mi facesse capire, con un lungo silenzio, le sue intenzioni.
Lo aiuterai a fare questo salto, diventeremmo amici ed avrei una vita da ascoltare, la storia di tanti anni, migliaia di episodi da farmi raccontare, senza fretta, all’ombra del portico.
Questo mi affascina.
In fondo quando, nella mia condizione, si conosce qualcuno che, come te, ha deciso di vivere sotto le stelle, e’ come acquistare un’altra vita, si ha tutto il tempo per parlare ed ascoltare ogni particolare.

Per rivivere la storia di chi ti parla, minuto per minuto, senza tralasciare niente.
E senza pregiudizi.
Non andrebbe mai a raccontare ad uno dei suoi conoscenti che l’estate di un determinato anno dette uno schiaffo a sua moglie.
A me potrebbe dirlo, non riceverebbe rimproveri, ne’ lo disprezzerei per questo.
La vita e’ fatta anche di tutto quello che ci teniamo dentro, che nascondiamo alla vista degli altri impauriti dalle reazioni e imbarazzati dalle nostre debolezze.
Non racconterebbe mai a suo figlio di quella volta che si ubriaco’ in osteria e tornando a casa imbratto’ un muro con un pezzo di carbone.
Suo figlio mai gli racconterebbe di quando fu lui ad ubriacarsi.
Stanze a tenuta stagna.
Tutta la gente e’ cosi’, con vetrine scintillanti e retrobottega umili e disordinati. Da riordinare, caso mai, prima della morte.
Mi piace andare in giro per le strade del centro.
I tetti sotto il sole riflettono la luce calda.
Ed io zoppico sotto i portici, aspettando qualcuno di interessante.
Un’artista con un cappello strano, il poeta Nuvoli, la cartomante con le verruche in faccia.
E’ bella e nascosta la gente medievale.
I picari si rintanano in storie antiche e villette di campagna.
Ascoltano la musica del circo,
aspettando la nebbia.
Sono certo che un giorno torneranno in queste vie.
Dalle finestre verranno vuotati i pitali, come una volta. Tornera’ la polvere, i cani randagi…i re.
E chissa’ che altro.
C’e’ una bottega qui dietro l’angolo, ha un bel libro di fotografie.
Alcune in bianco e nero, altre a colori.
Me lo lasciano sfogliare. Il proprietario mi chiede di fargli vedere il palmo delle mani, se le ho pulite mi fa un cenno ed io posso guardarlo.
Sapete cosa c’e’ scritto sulla copertina?
C’e’ scritto “Visionari di quello che c’e'”.
Anch’io sono cosi’. Credo che quello che c’e’ veramente non si veda.
Vediamo cio’ che conta meno.
La materia, le cose.
Ma non vediamo i prodigi. Neanche uno.
Nemmeno uno dei mille che accadono ogni giorno. Non una fata danzante, ne’ le stelle che si baciano e sussurrano.
La mia fotografia preferita e’ quella di una mano protesa verso un filo. Non so.
C’e’ qualcosa di molto poetico in un immagine cosi’ semplice.
L’essenza di un’emozione. Mi piacerebbe essere un fotografo, credo che sarei bravo.
Ho un certo gusto ed una certa sensibilita’.
Avete mai visto un salice piangente scosso dal vento,durante un temporale?
E’ qualcosa. Si puo’ immaginare che ci sia tutta la Natura nell’albero, nella pioggia, nel vento.
L’altra sera ho dormito al parco.
Nel silenzio della notte, l’unica cosa che si sente e’ qualche macchina che va verso casa e qualcuno che grida a squarciagola. C’e’ sempre qualcuno che grida a squarciagola la sua rabbia.
Una bestemmia.
Un nome.
Che urla il suo amore.
Gente che ritrova nella notte gli istinti.
Che rimpiange i falo’ nel deserto, gli antenati e le vite cancellate dal tempo.
La rabbia verso la propria stessa vita.
Per questo ogni tanto mi sento fortunato.
Perche’ non ho bisogno di gridare. E’ la mia vita il grido. Un lungo bassissimo grido che viene ignorato.
La societa’. Che diavolo e’? Chi diavolo e’?
Non sono certo io la societa’.
E’ solo il nome che si da’ alle bassezze umane.
Le Cose che contano sono altre.
La generosita’, l’amore, l’intelligenza.
Nessuna di queste cose fa parte della societa’.
Credo che sia una collezione di egoismi, di ottusita’, di interessi.
Le regole che ho nel cuore le rispetto.
Piove e’ tempo di partir.
Oggi alla stazione c’e’ tanta gente.
Tanti militari con gli occhi tristi, di tornare e di partire.
Tante mani lunghe nei cappotti.
Tanti angoli polverosi.
Tante cicche.
Tanti sussurri.
Mi sdraio sul marmo.
Il buio mi inghiotte.
L’umidita’ scende in larghe spirali.
Canto una canzoncina buffa nella testa.
Nannannanananana-na-nana-nana-na-nanna…

F. Venturi

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