Cinque anni fa, durante un trasloco, trovai, all’interno di una cassa rinvenuta in soffitta, alcuni diari di uno zio di mio padre: Luigi
Gambigliani. Grazie alla paziente collaborazione del dipartimento di polizia di Angers sono riuscito a rielaborare con una certa precisione gli eventi indicati nel primo di questi diari. I fatti narrati in questo libro avvennero infatti in Francia, tra il dodici e il sedici luglio 1932.
Nell’estate del ’32, come tutti gli anni, ero stato invitato da mia zia a trascorrere qualche giorno in Francia. Era un periodo di vacanza che mi concedevo volentieri, anche per la tranquillità che il luogo del soggiorno riusciva a infondermi. Si impiegava più di un giorno per percorrere i 1100 chilometri che separavano le stazioni di Bologna e di Angers, situata nella Francia centro-occidentale. Ero ormai in prossimità di Tours quando entrai nel vagone ristorante. Solo poche persone sedevano in quel momento per la colazione. Un corridoio separava due file di tavoli; sulla destra erano più piccoli, disposti lungo l’asse del vagone, mentre quelli di sinistra, stranamente ovali, erano perpendicolari alla direzione del treno. Le tende scure impedivano alla calda luce di mezzogiorno di illuminare completamente l’ambiente. Un giovane cameriere in divisa bianca comparve dinanzi a me non appena mi sedetti e, con fare composto, mi porse il menù.
Approfittando della mia esitazione mi consigliò le portate. Accettai distrattamente. “Come vino…” proseguì il giovanotto.
Lo interruppi. “Solo acqua grazie.” Mi ero alzato da meno di un’ora e non avrei sopportato il gusto dell’alcool. Il ragazzo riprese la lista delle portate e si avviò verso la cucina. Mi misi a leggere un giornale italiano comprato il giorno precedente in un edicola di
Bologna. Grande spazio, nella prima pagina, era riservato alla conferenza di Losanna, dove i ministri delle principali nazioni mondiali si stavano accordando sulla questione delle riparazioni. Un piccolo rilievo era dedicato anche agli sviluppi della situazione portoghese.
Cinque minuti più tardi un uomo di grossa corporatura si avvicinò al mio tavolo. “Posso sedere?” mi chiese. “Il ristorante è gremito e vedo che lei è solo.” In effetti il vagone si era riempito con sorprendente rapidità ed io avevo occupato un tavolo da quattro posti.
“Prego, si accomodi” risposi. L’uomo, che doveva avere circa cinquant’anni, si sedette di fronte a me. I lunghi baffi e una giacca elegante, ma con richiami decisamente poco moderni, gli conferivano un’aria indefinita tra l’austero e il ridicolo. Si accorse che lo stavo osservando.
“Fa molto caldo” disse asciugandosi la fronte bagnata dal sudore con un fazzoletto di stoffa, “e in questi treni c’è sempre qualche maledetta vecchietta che ti impedisce di abbassare i finestrini.” Si slacciò a fatica il bottone del colletto. “Pensi che avevo prenotato una cuccetta singola da più di due settimane, e invece quegli idioti mi hanno fatto dormire con uno dei soliti dongiovanni italiani. A questo villano non è bastato tornare in cuccetta a notte fonda, ma puzzava talmente di quella sua orribile acqua di colonia che ora tutti i miei vestiti sono impregnati da quel disgustoso odore.” Puntuale riapparve il cameriere che prese la nuova ordinazione. Il mio compagno di viaggio aveva tutta l’aria di essere un gran burlone. Una di quelle persone che amano essere sempre al centro dell’attenzione. “Ma non ci siamo ancora presentati” continuò con la sua energica voce. “Mi chiamo
Charles Clemenceau, agente teatrale.” Con un pizzico di orgoglio mi mostrò un tesserino di riconoscimento che custodiva nel taschino interno della sua giacca.
“Luigi Gambigliani” risposi abbassando lievemente il capo in segno di saluto.
Monsieur Clemenceau si irrigidì per un attimo. “Dunque siete italiano.” Scosse la testa in segno di disapprovazione. “E ditemi” proseguì diffidente, “vi trovate in Francia per studio o siete anche voi in cerca di qualche bella donna?”
“Né l’uno né l’altro” risposi sorridendo. “Passo semplicemente qualche giorno di vacanza da una zia che abita nei pressi di Angers.”
“Ma guarda!” esclamò sorpreso il mio compagno di viaggio. “Io stesso sono diretto da quelle parti, anche se prima dovrò scendere a Tours per sbrigare qualche affare.” Giunse il nostro pranzo. Monsieur
Clemenceau lo consumò rapidamente. Eravamo prossimi alla sua meta e come mi ripeté più volte sarebbe stato un vero peccato lasciare a metà un pasto francese. Ma nonostante il suo impegno non riuscì a terminare la sua colazione. Con perfetta puntualità il treno era arrivato alla stazione di Tours. Il mio compagno di viaggio portò lo sguardo verso un’avvenente ragazza che nel frattempo si era seduta al tavolo di fianco al nostro. “Le auguro, Monsieur Gambigliani, di poter assaporare tutte le delizie della terra francese.” Detto questo prese la sua valigetta e si avviò verso l’uscita della carrozza. Mancava meno di un’ora al mio arrivo. Tornai nella mia cuccetta per sistemare il mio bagaglio.
Erano due anni che mancavo dalla Francia. Affacciato al finestrino del mio scompartimento vidi con piacere che la stazione di Angers non era cambiata. Le piante sempreverdi che completamente la circondavano le donavano il fascino di una località adriatica. Sopra la sala d’aspetto di prima classe un grosso orologio segnava le tre e un quarto. Avevo comunicato con un telegramma l’orario del mio arrivo e qualcuno sarebbe senz’altro venuto a prendermi. Scesi dal treno e aspettai che lo stesso ripartisse per attraversare i binari. Charles, l’autista personale di zia Paulette, mi attendeva difatti sulla banchina centrale. Lui stesso non era cambiato, anche se l’età l’aveva reso più basso e ricurvo. Lavorava per la famiglia da una vita e, nonostante i continui malanni del suo fisico indebolito dalla vecchiaia, non voleva proprio saperne di andare in pensione. Indossava con orgoglio militare la sua divisa color blu scuro. Mi venne incontro. “Buongiorno Monsieur Gambigliani. Avete fatto un buon viaggio?”
“Ottimo Charles.”
“Volete darmi il vostro bagaglio?” disse afferrando con una mano la mia valigia. Ma, disattendendo la sua iniziativa, non mollai la mia presa.
“No grazie Charles” risposi con tono sicuro, “preferisco portarla io.
Sono un po’ deboluccio ultimamente e il medico vuole che faccia qualche esercizio” fu la prima banale scusa che inventai per evitare uno sforzo a quell’esile figura. Charles mi guardò con l’aria di non aver capito, ma prese atto della mia decisione e non insistette.
Una sola vettura era parcheggiata all’esterno della stazione. Non potei trattenermi dal guardarla con ammirazione. “Questa è la nostra auto?” domandai incredulo. Charles, visibilmente orgoglioso, annuì.
Non ero un appassionato di automobili, ma questa avrebbe tolto il fiato a chiunque. Una Cadillac rossa fiammante modello Sport Phaeton era parcheggiata di fronte a noi. L’autista, non consentendomi di ammirare dovutamente quel capolavoro di ingegneria meccanica, aprì immediatamente lo sportello posteriore destro. Anche gli interni erano rossi, seppur di un colore meno intenso. Sistemai il bagaglio di fianco a me. “Di chi è questa vettura?” domandai non appena mi fui ripreso dall’iniziale sorpresa. Charles mi fissava attraverso il doppio parabrezza interposto tra le due fila di sedili.
“Di Monsieur Briand” rispose sorridendo. “E’ un vero appassionato di auto sportive. Del resto non ha tutti i torti: è un vero piacere guidare gioielli come questa.” Avviò il motore e, quasi per dimostrare la sua affermazione, spinse energicamente un paio di volte sull’acceleratore senza che alcuna marcia fosse inserita. Partimmo. La villa di zia Paulette distava circa una ventina di chilometri dalla stazione, e con quel bolide non avremmo impiegato molto tempo per arrivare.
La Belle Villa, come veniva chiamata dagli abitanti della zona, era una costruzione del tardo sedicesimo secolo più volte ritoccata secondo gli stili del tempo. Si trovava a qualche miglia da Beageny, un paese di poche migliaia di abitanti. Un parco che si estendeva fino alla Loira e un’immensa tenuta di caccia al di là dello stesso fiume erano annessi alla villa che un tempo era stata del conte Antoine
Dreyfus. Alla morte dello stesso conte, cioè dell’ultimo proprietario di quella costruzione, parte dell’eredità era passata nelle mani di sua moglie, Paulette, che ora veniva considerata una delle donne più ricche di Francia. Un altissimo cancello, che Charles si curò di aprire, introduceva alle proprietà della famiglia. Due filari di pioppi imponenti erano disposti simmetricamente ai lati del viale che conduceva alla villa. Quest’ultima era preceduta da un ampio piazzale che veniva utilizzato, specie d’estate, per feste e ricevimenti. Al centro dello stesso una rotonda di variopinti fiori disegnava minuziosamente lo stemma nobiliare del casato Dreyfus. La vettura eseguì un giro antiorario della rotonda per permettermi di scendere di fronte all’ingresso principale. Davanti allo stesso Monsieur Price, il maggiordomo della famiglia, stava pazientemente attendendomi. Costui, nonostante fosse completamente calvo, era un uomo ancora giovane. I tratti somatici del viso potevano far pensare a una sua origine est-europea, ma il suo ottimo francese pareva negare l’evidenza. Era stato assunto alle dipendenze della famiglia solo pochi anni prima.
Senza aspettare l’arrivo di Charles scesi dall’auto con il mio bagaglio. Desideravo vedere immediatamente mia zia e, come spinto dall’ansia, anticipai il benvenuto del maggiordomo. “Buongiorno
Monsieur Price. Crede che sia possibile far visita a mia zia?”
“Certamente Monsieur Gambigliani. Madame Briand mi ha incaricato di condurvi da lei non appena sarete pronto.” La mia stanza, dove il maggiordomo immediatamente mi condusse, era situata nel lato orientale del secondo piano della villa.
Dieci minuti più tardi fui introdotto nel salotto di zia Paulette, posto proprio di fronte alla mia camera da letto. Le stanze della villa erano molto alte e in questo salotto, come in quasi tutte le camere del primo piano, stupendi, quanto enormi lampadari di cristallo, cadevano perpendicolarmente dal soffitto. Tappeti persiani erano sistemati geometricamente lungo tutto il pavimento mentre quadri di ogni epoca impreziosivano le pareti. In un lato della stanza, quasi a cornice di quello splendido ambiente, sedeva, su di una sedia a rotelle, zia Paulette. Si era sempre voluta far chiamare zia, ma non eravamo che lontani parenti di non so quale grado.
Paulette Ferreri aveva sposato in giovane età Antoine Dreyfus, un ricco nobile francese molto più vecchio di lei. Da lui aveva avuto tre figli: due gemelli, Paul e Alain, e l’ultimogenità Valérie. Monsieur
Dreyfus era morto tre anni prima per un arresto cardiaco e zia
Paulette si era sposata in seconde nozze con Henri Briand, ex medico della famiglia. Una grave malattia l’aveva successivamente costretta su di una sedia a rotelle. Della famiglia conoscevo il solo Paul, che aveva la mia stessa età. Da ragazzi avevamo frequentato per un semestre un istituto di Berlino per apprendere a pieno la lingua tedesca. In quell’occasione si era tra noi formata una solida amicizia. Suo fratello gemello, Alain, era scappato di casa tre anni prima dopo un violento litigio col padre e da allora non si erano più avute notizie sul suo conto. L’episodio avvenne il giorno precedente alla morte dello stesso Dreyfus, tanto che per qualche tempo la polizia collegò i due avvenimenti. L’autopsia evidenziò comunque, senza ombra di dubbio, che la morte era sopraggiunta per circostanze naturali. La somiglianza tra Paul e Alain era stupefacente: come due gocce d’acqua erano identici in ogni minimo particolare. Valérie
Dreyfus era cresciuta in un college svizzero e nonostante il divieto del padre si era sposta giovanissima con un certo Louis Rousseau.
Entrambi vivevano alla villa da quando zia Paulette si era risposata.
Henri Briand, il nuovo marito di Paulette, aveva portato pace e serenità in una famiglia scossa da questi molteplici avvenimenti. Non lo conoscevo personalmente, ma lo stesso Paul, nelle sue lettere, lo descriveva come una persona intelligente, dotata di buon senso, ed estremamente simpatica. “Così sei tornato a far visita alla tua zietta!” La dolce voce di Paulette Briand mi riportò alla realtà.
“Come potrei non venire in questo paradiso terrestre?”
Paulette abbassò il capo. “Goditelo, questo è l’ultimo invito che ti posso concedere.” La sua voce aveva un velo di tristezza. La malattia l’aveva molto cambiata, tanto che stentavo quasi a riconoscerla. Con i capelli completamente bianchi, gli occhi lucidi, e quel viso magrissimo pieno di rughe dimostrava venti anni di più di quelli che in realtà aveva. Si rendeva perfettamente conto di essere alla fine.
“Ogni giorno” riprese, “arriva uno specialista differente, mi visita e, tanto per fare qualcosa, mi prescrive inutili medicine.” Con un cenno di capo mi indicò il tavolino alla sua destra, un tavolino completamente ricoperto da scatole di medicinali. Un cupo silenzio calò nella stanza.
“Alain?” chiesi timidamente.
“Niente” rispose la zia scuotendo la testa. “E’ da tre anni che non ricevo sue notizie. Nemmeno una lettera mi ha spedito.” Chiuse le mani in segno di rabbia. “Ma perché non torna? Suo padre è morto e qui c’è una fortuna ad attenderlo. Desidererei tanto rivederlo prima di andarmene.” Abbassò nuovamente la testa. “Sempre che lui stesso…” La frase rimase volutamente incompiuta. Proprio in quel momento, dalla porta del salotto, entrò Monsieur Briand. Di corporatura robusta, brizzolato, con due splendidi occhi chiari, portava benissimo i suoi cinquantuno anni. Sapevo con esattezza la sua età perché si era sposato con zia Paulette, più di un anno prima, proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno. Lo avevo conosciuto al matrimonio stesso, ed era quella la seconda volta che lo incontravo. Sorridendo mi strinse la mano.
“Il viaggio ti ha stancato?” mi chiese.
“Non eccessivamente Monsieur Briand, la cuccetta era comoda e ho dormito senza problemi per parecchie ore.”
Il secondo marito di Paulette Ferreri camminò fino alla sedia a rotelle della zia e si chinò verso di lei. “Sono contento che tu sia con noi. Paulette sentiva la tua mancanza e mi parlava spesso di te.”
Le accarezzò dolcemente una mano. “Anche se tutte queste attenzioni che ricevi mi seccano un po’.” Corrugò eccessivamente la fronte in segno di scherzo. “Devo comunque informarti che sono un eccellente spadaccino e che non esiterò a chiederti soddisfazione se le farai avance sentimentali.” Scoppiammo tutti a ridere. Monsieur Briand riassunse un’espressione composta. “E’ l’ora della puntura” disse.
“Si certo” rispose la zia, “ma non prima che Luigi abbia promesso di venirmi a leggere qualcosa domani.”
“Con molto piacere” risposi. Zia Paulette adorava la mia lettura per i buffi accenti del mio francese. Monsieur Briand spinse fuori dal salotto la sedia a rotelle di sua moglie.
Erano ormai le cinque. Passeggiare nel parco antistante la villa era la soluzione migliore per sciogliere le gambe indolenzite dal lungo viaggio. Una serie di vialetti di ghiaia permetteva di attraversare completamente il bosco fino alla Loira. Quando il terreno non era umido, come quel giorno, preferivo camminare direttamente tra le piante secolari. La vista di zia Paulette in quelle condizioni mi aveva sconvolto. Era impressionante come la natura avesse potuto distruggere una persona così piena di vita e di allegria. Pensare che solo due anni prima il matrimonio con Monsieur Briand pareva averle schiuso un periodo di gioia e serenità.
Stavo già tornando alla villa quando intravidi tra gli alberi la sagoma di Paul. Notai subito che era in dolce compagnia: una bionda ragazza camminava al suo fianco. Andai loro incontro. Il primogenito
Dreyfus aveva gli stessi tratti somatici del padre e per questo non lo si poteva certo definire un bel ragazzo. Dalla zia aveva preso solo gli occhi: piccoli, vispi, e di una intensissima tonalità verde. “Ma guarda chi si rivede!” esclamò non appena mi riconobbe, “il vecchio
Luigi Gambigliani.” Ci abbracciammo. “Sarei venuto a prenderti io stesso, ma sono rimasto tutto il giorno in città. In questo periodo devo occuparmi delle pratiche commerciali di Monsieur Briand, che è troppo preso dalla salute della mamma.” Volse lo sguardo verso la ragazza che stava con lui. “Ti presento Mary Smith. L’ho conosciuta parecchi anni fa in Inghilterra e quest’anno si è finalmente decisa a venirmi a trovare.” Mademoiselle Smith mi stava squadrando. Alta, occhi azzurri, con biondi capelli lisci che le arrivavano fino alle spalle, era certamente una bella ragazza, ma non di quelle che attraggono particolarmente l’attenzione. I suoi pantaloni erano sporchi di fango.
“Vedo che siete stati al fiume” dissi.
“Già!” rispose la ragazza con un forte accento inglese. “E c’è mancato davvero poco che non vi finissi dentro. E’ tutto paludoso vicino alla riva e non sai mai dove mettere i piedi.”
“Comunque, con questo caldo, un buon bagno non ti avrebbe fatto male” proseguì Paul. “Io e Luigi lo facevamo spesso da ragazzi.”
Incrociai i suoi occhi. “Tua madre?”
Paul scosse la testa. “Non c’è niente da fare. Sta peggio di quello che lascia intendere. Delle volte stenta a riconoscermi.”
“Sono riusciti a capire di che malattia si tratta?”
“Non ancora. Henri ha chiamato i migliori medici da tutta l’Europa, ma come ti ho già detto non c’è niente da fare.” Un’ombra di sconsolata rassegnazione accompagnò la cadenza della sua affermazione.
Si voltò verso la ragazza, quasi per trovare la scusa per cambiare argomento. Solo il mio impulsivo desiderio di notizie frenò le sue intenzioni. Capivo benissimo la sofferenza dell’amico, ma, per la sincera amicizia che mi legava a sua madre, volevo sapere cosa le stesse capitando.
“In compenso Monsieur Briand pare davvero una brava persona” lo incoraggiai.
“E’ fantastico!” proseguì Paul con ritrovato vigore. “Passa giorno e notte accanto a lei. Le vuole davvero un bene incredibile. Devo ammettere che all’inizio ero diffidente nei suoi confronti. Pensavo che facesse la corte a mia madre solo per il suo denaro. Ma mi sono dovuto ricredere.” Le parole del primogenito Dreyfus mi riportarono in mente le lettere di Paulette. Ricordo che aveva cominciato a scrivermi di Monsieur Briand un paio di anni prima. Inizialmente era piuttosto contrariata proprio dal fatto che Paul, l’unico figlio che abitava ancora con lei alla villa, vedeva negativamente le continue visite che riceveva da lui. Ora la situazione era decisamente cambiata. Come riuscire ora a spiegare, con il solo aiuto della scrittura, quella strana sensazione che mi prese in quel momento? Era come se qualcuno, nascosto tra la fitta vegetazione di quel parco, ci stesse osservando.
Questa mia insolita percezione, che sul momento nascosi per evidente imbarazzo, sarebbe stata confermata dai tragici avvenimenti che si susseguirono nei giorni successivi. Cercai di riprendere la conversazione.
“E non c’è niente da fare per sollevarle il morale?”
“La tua presenza le sarà molto gradita” rispose Paul, “ma la sua gioia più grande sarebbe di vederci tutti riuniti. E’ da tre anni che
Alain manca dalla villa.” Il suo sguardo caddé sull’orologio d’oro che portava al polso. “Ora scusami, ma devo correre in città se voglio tornare in tempo per la cena.” Tornammo alla villa.