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Un ricordo

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Un ricordo

Ormai da qualche giorno Elena era chiusa in casa a studiare, presa come sempre dall’ansia pre-esame, da mille cose da finire, assurdi calcoli di pagine da leggere, all’ora, la giorno, questo va dopo cena, quello domani mattina… E intanto dalla finestra stava entrando la maledettissima primavera, un rettangolo di cielo azzurro sopra i tetti cadenti di una vecchia città un po’ stanca. “Il caffè c’è da spararselo in vena, perché faccia effetto”, le venne da pensare, fissando la pag. n°73 (ancora 124!) e cercando di frenare ricordi e pensieri che l’assalivano a valanga, facce che si sovrapponevano alle parole stampate, frasi lontanissime di gente dimenticata, che si arrampicavano trionfanti nei crepacci del suo cervello… Ecco, basta
– appoggiò il libro, smise di combattere. E i frammenti di pensiero sembrarono calmarsi, come depositi sul fondo di una bottiglia di vino.
Ne fermò uno: l’immagine di lei bambina, sugli otto anni, con grembiulino, cappotto e cartella, in una via di campagna deserta e coperta di neve… Eh, già: aveva deciso di scappare da casa, invece di andare a scuola come le altre mattine. Chissà perché. Forse per via della maestra, che l’aveva portata in tutte le altre classi per far vedere come aveva conciato il quaderno di matematica (dopo i soliti scappellotti, ma l’umiliazione, le bruciava di più). Forse per via dei suoi, che l’avevano un po’ sgridata per le sue performance aritmetiche.
Forse per via dei litigi con la sorella.
Forse, semplicemente, per via della voglia di andare via…
Nessuno le voleva bene, a nessuno importava della sua presenza, e in più la obbligavano ad imparare a memoria quelle odiose tabelline e disegnare ancora più odiosi rettangoli, quadrati e trapezi. Sentiva in quel momento di non avere scelta, le sembrava di essere persa in un incubo ostile e senza fine, non poteva rimettere piede in quell’orribile scuola dove era stata sbeffeggiata. No, con diecimila lire (rubate dal portafoglio della mamma), un panino, una mela, le scarpette di ginnastica artistica (chissà per quale misterioso calcolo le aveva infilate in borsa), beh, lei avrebbe dimostrato di cos’era capace, A TUTTO IL MONDO… e in particolare ai suoi genitori, le sorelle e la strega della maestra.
La fuga in realtà era durata lo spazio di una mattina: il tempo di girovagare per la città, senza la minima idea di dove fosse, di camminare in strade di periferia un po’ tetre, e poi in aperta campagna.
Non ricordava più il nome del paese in cui era capitata, solo il silenzio, un silenzio enorme, freddissimo e irreale; e lei che si fermava in un campo a massaggiarsi i piedi, senza paura (forse) ma anche senza lontanamente sapere cosa fare, né delle 10.000 lire né del panino né delle scarpette da ginnastica artistica.
Poi si rivide camminare su una Strada Privata, non in mezzo ma sul ciglio (“tanto solo la strada sarà privata, no?”); qui l’avventura era finita; uno strano signore, il proprietario della via, l’aveva pescata, portata gentilmente nella roulotte dove teneva il suo ufficio, e l’aveva convinta, dopo un serrato interrogatorio, a telefonare a casa. A distanza di dodici ani Elena non aveva ancora capito chi fosse quel tizio. Chissà poi che sensazione aveva provato la madre alle parole “sono in un carrozzone con un signore molto educato che non conosco”. Si ricordava anche del suo viso angosciato, l’aveva osservato con stupore, senza rendersi conto di quello che aveva fatto.
Ecco, rifletté per la seconda volta, riprovando le stesse sensazioni, quasi toccando la neve, la cartella, il grembiule: non aveva avuto paura, né ansia, né angoscia. Solo un’immensa solitudine, e il senso della libertà e dell’infinita grandezza del mondo.
Sospirò di nuovo, riaprì il libro – adesso aveva 21 anni, non si fidava più della gente incontrata per caso, conosceva troppe cose e aveva paura, anche di essere sola, o di essere libera.
Aveva otto anni alla periferia di casa sua – adesso con mille treni non sarebbe mai arrivata così lontano.

Lorenza Ceriati

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