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Grazie, signor sindaco

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Grazie, signor sindaco

Era buio e cercavo di fare in fretta. Non sopportavo di essere ancora in ritardo per le prove; così decisi che per l’ennesima volta avrei saltato la cena.
Frugavo impazientemente tra i canali dell’autoradio, mentre quello davanti svoltava all’ultimo secondo senza la freccia: “Idiota! Ci manca solo che mi stampo, così quelli non mi vedranno arrivare e resteranno chiusi fuori…”.
Ecco, l’ultimo incrocio; attenzione alle biciclette col fanale spento… ero arrivato.
Le chiavi in una mano e l’autoradio nell’altra, a grandi passi raggiunsi il portone puntando deciso al lucchetto d’ottone, o forse acciaio? Non lo avevo mai visto così lucido; strano: la chiave entrò ma non girava. Mi scostai dalla luce dei fari per vedere meglio: “Non
è il solito lucchetto! No! Lo hanno cambiato di nuovo… E adesso cosa faccio? A chi posso telefonare? Forse Marco sa qualcosa; magari sarà passato di qui per la batteria e avrà spezzato la chiave nel lucchetto… ma no. Oppure, come l’altra volta, gli operai del Comune li hanno scambiati chiudendo la porta esterna con il lucchetto di quella interna. Possibile? No: questo lucchetto non è quello della porta interna…”
Ero perso nelle ipotesi possibili e improbabili quando arrivarono un paio di auto: erano i ragazzi.
“Alfi sei appena arrivato eh? Per una volta non sei in ritardo. Dai, apri la porta che cominciamo subito a suonare.”
“Magari potessi: hanno cambiato il lucchetto.”
“Ancora?! Ma chi è stato?” chiesero.
“Boh?! Non c’è nessun biglietto e questo non è il lucchetto interno.
Non è come l’altra volta. Sembra che l’abbiano proprio sostituito.”
“L’avranno scassato gli operai del Comune.”, fecero loro.
“Probabile. Certo potevano anche avvertire; il numero ce l’hanno!” risposi io.
“Sì, ma Marco ancora non c’è, ed è lui che ha lasciato il numero telefonico al sindaco.”
“Mah. Aspettiamo…comunque non mi piace.”
“Cosa non ti piace?”
“Abbiamo un nuovo sindaco da poco più di un mese; non vorrei che…” avevo sempre temuto di dovere arrivare ad immaginare ciò che stavo effettivamente pensando.
“Ma va là! Sei il solito fissato con la politica. Solo perchè nove persone su dieci non la pensano come te, non puoi sempre vedere nemici ovunque.”
“Vorrei tanto sbagliarmi…”
Un’altra auto: Marco.
“Ciao. Aspettavate me per entrare?”
“Perchè Marco, tu puoi farci entrare?”, gli chiesi.
“Ma che è successo?”
“Ragazzi – dissi – ci siamo dentro fino al collo. Qui ci mandano via a calci nel culo! Scommetto che il nuovo sindaco, ricevute le consegne, ha promesso che nel suo Comune non ci saranno strade dissestate, cassonetti rovesciati, terremoti e zanzare; e che raddrizzerà la schiena a chi dei suoi collaboratori non metterà il proprio impegno al servizio dell’attività comunale. Così, per non avere responsabilità inutili, gli avranno subito raccontato della saletta e che non è così regolare la nostra presenza qui.
Temo che sarà meglio darci da fare per trovare un’altra sala prove!”
Così finì un’era. Abbiamo avuto quella sala prove per tredici anni. E per tredici anni i sindaci del paese ci hanno dato la possibilità di suonare in un posto al coperto con un lucchetto per chiudere.
L’abbiamo chiesta quando eravamo non più che ragazzini, e ce l’hanno concessa a patto di non diventare fonte di preoccupazioni per il
Comune.
Aperta la porta per la prima volta, ci si presentò uno spettacolo desolante, la saletta che ci avevano concesso conteneva una grossa montagna di vecchi orinatoi a muro e sfere di cristallo smaltato: i classici lampadari delle scuole.
Lavorammo sodo per diverse settimane, portando fuori centinaia di chili di detriti e vetri; poi comprammo moquette, tappi a pressione, gommapiuma, pannelli di legno compensato, fili di ferro, cartoni porta-uova e trasformammo quella specie di discarica sporca e puzzolente in una bella stanza pulita e insonorizzata. Sacrificammo due delle quattro finestre perchè davano sul viale abitato chiudendole con pannelli di legno e un interstizio di gommapiuma. Le restanti due le chiudemmo con pannelli incernierati per poter aprire e cambiare l’aria negli istanti di pausa.
Avevamo una sala prove!
Il progetto iniziale prevedeva anche una specie di regia nella stanzetta adiacente: c’era una finestra vetrata al centro della parete, ma non riuscimmo più a realizzarla.
Eravamo orgogliosi del lavoro fatto e dei risultati ottenuti. Gli operai del Comune ci avevano anche aiutati con l’impianto elettrico installando un interruttore generale all’esterno della stanza, che ci consentiva di staccare tutto prima di allontanarci da lì. Qualcuno di noi riuscì anche a portare due estintori.
Col passare del tempo continuammo ad arricchire la dotazione fissa della saletta integrandola con registratore, mixer, prolunghe, altoparlanti, palchetto per batteria, porta-chitarre, blocchi di spartiti musicali con matite e gomme, attrezzi per semplici interventi, leggii e… poster di Samantha Fox e calendari con Cindy
Crawford.

L’invidia distrugge l’iniziativa…
Passò qualche tempo e la serata delle prove del nostro gruppo andava sempre più trasformandosi in un appuntamento fisso per ragazzini e curiosi. Si accalcavano davanti alle finestre per ascoltare. C’erano persone di tutte le età e spesso restavano fino alla fine. Erano prove su tutti i fronti per noi: avevamo anche il pubblico e spesso sulla base del gradimento prendevamo le nostre decisioni sul repertorio.
Per diversi mesi la situazione restò questa. Qualche volta passavano i
Carabinieri per controllare; noi li facevamo entrare e magari facevamo loro ascoltare qualcosa.
Presto realizzammo un repertorio composto di una ventina di pezzi per una serata in concerto e così cominciammo a cercare in giro per trovare delle date.
Suonammo ovunque: compleanni, feste estive, festival, locali da ballo, scuole (la mitica aula magna del Barozzi), teatri, ecc…
In zona eravamo ormai una celebrità, anche perchè il nostro concerto estivo divenne in poco tempo istituzionale. E non potevamo che essere riconoscenti al Comune che ci forniva la sala prove, esibendoci alle feste estive praticamente gratis (per una pizza a testa).
I progetti si accavallavano: volevamo registrare qualche pezzo in sala d’incisione, ideare un nostro modo di vestire durante il concerto, stampare qualche poster pubblicitario da distribuire…
Poi, d’un tratto, la fine.

Il signor sindaco ci dice che non vi sono le necessarie condizioni di sicurezza nei sotterranei della scuola elementare. La stessa scuola piena di bambini tutti i giorni della settimana, che, nei medesimi sotterranei in cui avevamo realizzato la nostra sala prove, ospita tuttora il deposito autorizzato per i materiali per le pulizie; tra cui: cartoni di bombolette spray e taniche di acidi vari. I tipici prodotti ad elevato rischio d’incendio.
Rispondiamo al signor sindaco che questo francamente non ci pare un fulgido esempio di coerenza.
Il signor sindaco, allora, abbassa il tono della voce e, guardatosi attorno con circospezione, come per farci una confidenza ci dice che in realtà, le cose sono andate diversamente: “Ad essere sinceri, ragazzi, qualcuno ha saputo che utilizzate i sotterranei della scuola per suonare, e allora mi ha chiesto se potevo concedere una sala prove anche al suo gruppo. Io già non ho ben chiaro cosa ci fate voi in quei sotterranei. E poi non voglio che adesso tutti vengano qui a chiedermi di poter usare una stanza sotto la scuola. Per farci chissà cosa. O tutti o nessuno. Quindi… sono spiacente… il lucchetto l’ho fatto cambiare io per farvi venire qui da me… vi do due settimane: liberate i sotterranei.”
Ora, signor sindaco, noi non sappiamo se sia proprio vero quello che ci dice: a questo punto la sua parola ha già perso parecchio valore.
Ma se fosse vero, perchè non ci ha proposto di dividere la sala prove con un altro gruppo? Perchè non ha chiesto a vigili e carabinieri se abbiamo mai dato fastidio? Perchè non ha neppure valutato la possibilità che avremmo potuto assicurare a nostre spese la stanza per tutti gli incidenti possibili la sotto? Perchè l’invidia di uno deve annullare l’iniziativa di tanti? Perchè, signor sindaco, più parliamo e più ci sembra inutile?

Ma adesso, signor sindaco, dopo diverse settimane di affannose ricerche, abbiamo finalmente trovato un posto per suonare. Adesso, una sera la settimana, ci tuffiamo nella fitta nebbia delle campagne reggiane in uno splendido vecchio porcile in disuso e senza riscaldamento, (in sostanza una ghiacciaia sporca e puzzolente), per la modica cifra di centoventi mila lire il mese. Grazie, signor sindaco. Sappiamo benissimo che non gliene frega niente; ci scusi il disturbo.

A tutti i lettori di KULT Underground che hanno vissuto, vivono o vivranno un’esperienza simile, (fermo restando che per me non è ancora finita…), esprimo tutta la mia solidarietà.

Alfonso

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