IERI
giorno della ripresa delle trattative di pace in Bosnia, giorno dopo l’esplosione nella piazza del mercato di Saraievo, giorno in cui la NATO ha deciso ritorsioni contro i Serbi-Bosniaci, ritenuti autori della strage appena citata.
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Dopo aver letto l’articolo di Matteo (successivo a questo) avevo pensato di scrivere qualche riga anch’io sul tema Bosnia, per
“smussare” in qualche modo alcune sue affermazioni, a mio modestissimo parere, un po’ troppo forti. Ma oggi, 30 agosto, direi che ogni commento sarebbe anacronistico in quanto il tanto atteso intervento
NATO è finalmente giunto. Alle due di stamane, infatti, è iniziato un’attacco in forze che, secondo quanto preannunciato, dovrebbe continuare per almeno tre giorni. In altre parole, fino a quando non saranno stati piegati in maniera decisiva gli autori, ritenuti tali
“oltre ogni ragionevole dubbio”, della strage così prontamente mostrata in tutta la sua crudezza sui nostri schermi.
I “numeri” di questa offensiva occidentale sono più o meno questi: più di seicento bombe rovesciate sulle postazioni avversarie nell’arco di poche ore, un “mirage” abbattuto e cinque osservatori ONU morti insieme a sette civili.
La Russia intanto comincia a “borbottare” per l’uso della forza contro una delle due parti in guerra, temendo pericolosi precedenti che possano rendere più sicura qualcuna delle tante fazioni in fermento nei suoi territori, e l’America, rappresentata da un Clinton ancora in vacanza, ma ben attento alle manovre militari che vedono il suo paese ancora una volta prima donna, mostra, oltre ai “muscoli”, anche la ferma intenzione di continuare le trattative di pace. Facendo capire che non è più tempo di tergiversare.
Sarajevo, tanto per cambiare, è sotto i bombardamenti, come se questa città simbolo fosse il campo di battaglia ideale per tutti, su cui dimostrare al mondo che si sta facendo sul serio.
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Domani, chissà. Il trentuno agosto, per me ancora non giunto, e per voi che leggete sicuramente poco più di un ricordo vago, porterà con sicurezza solo una cosa: nuovi morti.
Non dirò che la NATO ha sbagliato ad attaccare, nè che ha sbagliato a tardare così tanto ad intervenire. Ognuno di voi avrà già un idea a proposito, che sicuramente vale almeno quanto la mia. Inoltre non ho una conoscenza degli antefatti di questa guerra vecchia di secoli, ma iniziata soltanto tre anni fa, che invece ha Matteo, per potere, se non giudicare, almeno comprendere quanto accaduto.
E, forse, veramente, non è più tempo per retorica, o vuoti discorsi.
Ma io non riesco ad evitare di pensare ad una cosa soltanto: quando mi immagino i serbi, o i croati, o qualunque altro popolo che in questo momento sta combattendo per difendersi o per attaccare, non riesco a vederlo come un unità unica ed indivisibile da elogiare o da condannare.
Tra i “cattivi” ci saranno sicuramente molti che non c’entrano, non dico niente, ma poco. Appena un po’. Solo la differenza che c’è tra camminare sul lato destro di una strada, o su quello sinistro. E anche loro pagheranno. Inevitabilmente.
Non dico che sia sbagliato, ma se riuscissi a versare lacrime per i morti “buoni”, per tutti quelli completamente innocenti, che altro non hanno fatto che vedersi mettere a lato e massacrare, non riuscirei a evitarle anche per gli altri. Per quelli, cioè, che nella follia della guerra hanno visto finire la loro vita, prima come “modo di esistere”, adattandosi pian piano ad atrocità e vendette, e poi finendo anch’essi riversi in qualche luogo, senza forse capirne neppure il motivo.
Non so se sono in grado di immaginarmi un morto “giusto” tra tutti quelli che stanno, in questo momento, soffrendo.
E a questo proposito ho deciso di riportare tre brani presi dalla parte finale de “La casa sulla collina” di Pavese, secondo me estremamente significativi e lucidi. Ovviamente trattano non della guerra in Bosnia, ma della seconda guerra mondiale, anche se ciò che traspare riguarda la guerra in generale, o meglio, riguarda tutte quelle guerre che vedono combattere persone che hanno vissuto insieme, fino a quando non hanno deciso di vedersi diversi, e di conseguenza nemici.
Il primo di questi riguarda la posizione forzatamente ambigua di chi medita sulla guerra che gli ha cambiato tutto ma, contrariamente ad altri, non è costretto a combattere ogni giorno per la propria vita; il secondo è una riflessione sul significato dei morti in una guerra, e sul loro valore concreto, mentre l’ultimo è una sconcertante ma realistica risposta alla domanda “quando finirà secondo te tutto questo?”.
So che con queste righe non si ottengono soluzioni, e che, anche se fosse, le cose in questo preciso momento stanno già prendendo una piega diversa da quella che qualcuno poteva sperare. Ma da qui, da casa mia, lontano e contemporaneamente vicino a questo paese in lotta, non molto altro mi è consentito fare, se non, forse, pensare. E sperare.
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“Del resto gli eroi di queste valli sono tutti ragazzi, hanno lo sguardo diritto e cocciuto dei ragazzi. E se non fosse che la guerra ce la siamo covata nel cuore noialtri – noi non più giovani, noi che abbiamo detto “Venga dunque se deve venire” – anche la guerra, questa guerra sembrerebbe una cosa pulita. Del resto chi sa. Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti fucilati piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra – nè i vigliacchi, nè i tristi, nè i soli. Da quando vivo qui coi miei, ci penso spesso. Tutti avremo accettato di fare la guerra. E allora forse avremo la pace.”
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“E’ qui che la guerra mi ha preso e mi prende ogni giorno. Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle fosse, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche
Giorgi c’è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi diceva: “avremo tempo le sere di neve a riparlarne”), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende la gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino e tutti gli altri torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura di scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perchè si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe nessuna differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto assomiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.”
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“Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse dovrebbero chiedersi: “e dei caduti che facciamo? perchè sono morti?” Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Nè mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”