“C’era una volta una locandiera con la coda… “
“Con la coda? Vuoi dire coi capelli con la coda?
” No miei cari, non solo con la coda nei bei capelli fulvi e lussureggianti che portava, con una coda… coda, proprio come il gatto che vi aspetta in soggiorno.”
“Dai, racconta!”
“Ebbene vi dirò.
C’era una volta, in un paese nè troppo lontano nè troppo vicino, nel mezzo di una sconfinata pianura verde e fertile, rigogliosa di campi di biondo grano e frutteti, in fondo a una viuzza erbosa che portava fuori dal borgo di Creviquorum, una locanda, una vecchia locanda, di quelle coi tavoli rustici e le brocche di ceramica, i boccali con il coperchio in ferro battuto decorato da Mastro Bastìa, il fabbro del borgo, una locanda con le sedie di paglia e scene di vita quotidiana del regno di Whoknows effigiate sulle pareti da Ghiotto, il pitòrè con una ti sola nel loro dialetto, che in cambio di laute cene riempiva della solenne gaiezza della sua arte anche il luogo più angusto e inospitale. Lì, dietro alla soglia di una cucina bianca bianca solo un po’ scurita dai fumi, dietro ad una fila di otri in terracotta per serbarvi l’olio e la farina e una pila di paioli di bronzo annerito varia misura, sovrastata da ramoscelli di rosmarino e basilico e grappoli di peperoncino di tabasco, vicino ad una catasta di legna da ardere per il forno, Barbarella si stava allacciando il grembiule, pronta a mettersi a lavorare. “Oggi preparerò una bella zuppa di orzo, farro e ceci che i miei clienti ricorderanno per un pezzo!” disse risolutamente, con una voce dolce dolce, vagamente ispirata, beh, neanche tanto vagamente a dire la verità, ad un tenero miagolio, ma non pensate ad un gatto in amore, no, figuratevi piuttosto un gatto che vi fa le moine e chiede sornionamente le vostre carezze.
Così disse, e agguantato il più capiente paiolo che avesse a disposizione, issatolo sul rampino del braciere e fomentato il fuoco purificatore, procedette. Le mie parole non sono sufficienti, o bambini miei, a rendere la grazia sinuosa con cui le sue manine di donna, nemmeno tanto affusolate nè sensuali, mondavano le erbe e gli aromi, impastavano la sfoglia, come le sue dita disponessero gli ingredienti nelle pietanze che Barbarella preparava. Non pensate ad una locandiera canonica, di quelle ostesse dalle braccia enormi e dal fondoschiena pesante, di quelle il cui seno minaccerebbe costantemente di trascinarle in avanti se non vi fosse la retroparte, magari coi capelli stopposi e disordinati sotto il cappellaccio bianco da cuoca, no, bambini, scacciate quei demoni dalla vostra mente.
Beninteso, non che Barbarella fosse smilza come un giunco, anzi, se lo fosse stata qualcuno avrebbe avuto da dire sul suo stato di salute, ma era di una morbidezza leggera, così leggera che più di un avventore avrebbe desiderato ingraziarsela, più di un cavaliere avrebbe poggiato volentieri la testa sul suo seno, non troppo sporgente, ma ben incorniciato dalla scollatura delle sue casacche, più di un giovanotto avrebbe desiderato suggere le sue labbra a cuore, specchiandosi nei suoi occhi verde-azzurro e magari accarezzandole i suoi capelli fulvi e fiammeggianti come un falò di quelli che si accendono in autunno nei campi per bruciare le stoppie, impeccabilmente raccolti dietro alla nuca, salvo due stuzzicanti e birichine ciocche che le scendevano ribaldamente lungo le guance picchiettate di efelidi, e ahimè, queste cose sono vecchie come il mondo, più di un ubriacone aveva tentato di saltarle addosso e strapparle il grembiale, ma senza risultato, perchè
Barbarella sapeva come tenere a bada i suoi clienti e glissare sulle proposte indecenti. Perchè Barbarella era tanto disponibile verso la gente quanto inafferrabile. Buona e gentile, nessuno sapeva chi in realtà Barbarella fosse, che cosa facesse durante il giorno, da dove venisse, se fosse sposata, nessuno sapeva nemmeno la sua età.
I suoi occhi chiarissimi, che spesso si scioglievano in teneri sorrisi, potevano anche incutere un po’ di soggezione; il suo sguardo, un po’ felino e vagamente interrogativo a qualcuno faceva pensare a un folletto o a uno spiritello venuto da chissà dove. Già, perchè la vita privata di Barbarella restava un mistero. Barbarella esisteva in rapporto alla sua locanda, anzi, per la gente Barbarella e la sua locanda erano un tutt’uno, inscindibile. Nessuno l’aveva mai vista aggirarsi per il borgo, magari a fare la spesa, di giorno. Non vi dico quante storie erano fiorite sul suo conto, tante quanto è fertile e rigogliosa la nostra amara terra. Chi sosteneva fosse l’amante di un signorotto di un borgo vicino, e fin qui nulla di strano, chi sosteneva fosse un’eretica scampata al tribunale dell’inquisizione, altri semplicemente la consideravano una meretrice, anche a tariffa piuttosto elevata, chi raccontava venisse da un paese ai confini della terra dei manici di scopa, cacciata perchè in atto una persecuzione, altri la consideravano malvagia come tutte le persone di pelo rosso –
Barbarella Malpelo qualcuno la apostrofava – anche lei avrebbe annegato la sua mamma nel pozzo, secondo loro! Ma le sue minestre di legumi e cereali, gli gnocchi conditi, lo sformato di patate che imbandiva sulle tavolate di legno rustico intarsiato dai tarli e dai temperini degli avventori della sua locanda lasciavano tutti deliziati, non c’era paiolo che Barbarella avesse mai dovuto buttare.
Il profumo delle sue crostate di mele o albicocche giungeva fino al borgo, mentre lentamente cuocevano nel forno. E se qualcuno passava di là sul far del crepuscolo, la poteva sentire canticchiare mentre disponeva tutto per l’apertura. Chi la amava, chi la odiava, chi la desiderava soltanto, chi la disprezzava, chi la guardava con tenerezza, struggendosi di poterle lisciare la criniera fulva, chi nutriva diffidenza.
Ma com’è miope la gente, e incapace di sintonizzarsi con le forze della natura, di sentirsi parte del tutto, incapace di abbracciare un albero e sentirsi la sua linfa scorrere dentro, mettere radici al pari suo e in un attimo intuire la sua ragione di esserci, il mistero che colora di verde le sue foglie, il segreto dei meandri della sua corteccia, l’enigma dei suoi anelli secolari. Quant’è cieca la gente comune, ahimè. Perchè altrimenti avrebbero potuto capire che le cose erano molto più semplici delle loro convulse supposizioni. Barbarella era sì uno spiritello, ma non come dicevano loro. Può succedere, secondo voi, che un animale, natura viva come l’uomo, decida di prendere parte al suo mondo, ma non come domestico e accessorio, ma intendo immedesimarvisi fino al midollo dell’essenza, con in più quell’ arbitrio particolare, scevro di pregiudizi e storture che contraddistingue i nostri compagni ancora coperti di morbido pelo.
In realtà molto spesso, è il nostro cuore ad essere coperto di pelliccia, insensibile e ottuso. Può succedere, o bambini miei che attorno a me fate cerchio in questa sera incantata? Evidentemente può, perchè secondo una legge un po’ speciale, di quelle che la nostra ragione fredda e severa non riesce ad acciuffare, una sera di primavera in cui i profumi della natura giungono più intensi e pregni di fragranze al nostro olfatto, una gatta, in una viuzza erbosa vicino a una locanda abbandonata da chissà quanto tempo, mise al mondo non senza dolore, ma con incommensurabile gioia, una cucciolata di micini, una dei quali era di un rosso stupendo, tigrato, un rosso non semplice attributo del pelo, ma segno di una innata superiore intuizione. E chi era secondo voi, questo piccolo capolavoro?
Sì, avete indovinato, anche se vedo che stentate a crederlo, era la nostra dolcissima Barbarella.
Barbarella crebbe come tutti i micini, a latte, topi di campagna e occasionalmente anche di locuste e falene. Condusse anche lei la vita oziosa e spensierata dei gatti di campagna, lunghe ore passate al sole a riposarsi, a grattarsi la schiena contro la terra ruvida, a predare, a rincorrersi coi suoi fratellini. Ma Barbarella era sempre stata un po’ speciale, anche la sua mamma gatta se lo ricorda…”E il suo papà?”. “Certo, anche il suo papà se lo ricorda. Sono solo le favole a favorire la figura materna, credendo che il maschio serva soltanto per la riproduzione e poi il suo compito finisca. Anche il papà di
Barbarella era un gatto un po’ sognatore e “illuminato”, come del resto lo era anche la sua mamma, ma loro non hanno avuto la fortuna di
Barbarella di cogliere il momento propizio per fare il “salto”, e poi c’era la famiglia da mandare avanti, molti cuccioli ancora piccoli, la depressione… non avevano il tempo di occuparsi delle questioni più… vedete, per così dire, meno pratiche…”
“Che salto stai dicendo? Come saltare di là dalla rete?”
“Soffiati il naso immediatamente, che tra poco ti scoppia la bolla.
Andiamo con ordine, se no ci perdiamo. Sì, comunque, se volete saperlo, p roprio come saltare al di la della rete! Solo che quella rete era il confine fra due mondi, per quanto vicinissimi. Barbarella era riuscita ad individuare il varco. Dunque, capitò una notte che la nostra micina si stesse aggirando per la sua viuzza della locanda abbandonata. Nata in Primavera, stava approssimandosi al suo primo anno di età, e il suo udito finissimo avvertì l’avvicinarsi di due voci, suoni che non erano di animali, vibrazioni convulse come lo scrosciare di acqua di torrente, non erano altri mici, nè topi nè grilli nè cicale. “Che siano -pensò nella sua lingua- quegli ‘uomini’ di cui ho sempre sentito parlare da mamma e papà, quelli i cui cuccioli ci tirano la coda per divertirsi” e per un istante contrasse la sua coda fulva, temendo per l’incolumità della medesima. Ma poi, rilasciandola, si fece coraggio e si disse: “Voglio andare a vedere, voglio conoscere il loro segreto. Se non c’è uomo che si sforza di entrare nel nostro mondo, e ci tirano la coda o ci adoperano come disinfestatori per i loro granai, voglio vedere di entrare io nel loro, se la porta non sarà troppo stretta”. Detto fatto, si nascose in un cespuglio e con la sua vista seguì le mosse dei due, che visti da più vicino si rivelarono essere una coppia di giovani uomini, ragazzo e ragazza, nel fiore dell’età e della gioia di vivere. Procedevano barcollando, ridendo di gusto, con quell’affanno tipico di quando ci si diverte sul serio, strattonandosi e spintonandosi nel fresco tepore della sera primaverile. Barbarella li osservò divertita e incuriosita assieme, mentre li vide abbracciarsi stretti stretti, le loro labbra che si carezzavano vicendevolmente “Guarda che strano” penso in gattesco “noi per bere ci serviamo della nostra linguetta ruvida, noi non riusciremmo mai a succhiare in quel modo!” Poi vide le loro vesti
– la loro pelliccia la micia pensò – scivolare via come la scorza di un’arancia. “Ma come, si scuoiano come fossero conigli?”, ma vide subito che doveva essere una cosa assai piacevole e gioconda, nulla a che vedere con lo scotennare “Guarda che dorso! E’ flessuoso come il nostro, ma com’è liscio”.
Il suo sangue felino le prudeva come non aveva fatto mai, un desiderio di curiosità agitava Barbarella micina come un flacone di sciroppo per la tosse prima dell’uso.
“Scusa ma perchè i vestiti, o la pelliccia dei due ragazzi scivolò via? Avevano caldo?”
“Diciamo di sì!
Questo per ora non ci interessa. Un giorno saprete. Tutto succede a tempo debito, compreso il togliersi la pelliccia di cui vi ho parlato.
Avrete delle piacevolissime sorprese, se saprete coglierle con serenità, un po’ come Barbarella quella sera. Sempre per una di quelle leggi un po’ speciali di cui vi ho parlato poco fa, Madre Natura diede ascolto al suo desiderio. In realtà Madre natura parla volentieri a chi ha un orecchio attento ad ascoltarla, e quella sera Barbarella era in ascolto. Fu così che la gattina si sentì tirare da tutte le parti, la sua pelliccia sembrò andarle stretta, ma non si lacerò. In tutto questo dilata e molla, Barbarella si sentì pungere tutto il corpo: erano i rami spinosi del cespuglio in cui si era nascosta che la pizzicavano dappertutto. Eppure, fra i rovi c’era cresciuta, e ci scorrazzava come un pesce nuota nel ruscello! Il giovane e la giovanetta, sentendo lo strepere tra le frasche si spaventarono a morte, e un po’ per la paura di un’aggressione e un po’ per il pudore di venire sorpresi “senza pelliccia” si rivestirono alla bell’e meglio e scapparono a gambe levate verso il borgo. Barbarella si meravigliò
“Tornate qui! disse, in perfetto linguaggio umano. In uno slancio di sorpresa, si tappò la bocca con ambo le mani, ma come? non con le zampe? No, bambini, no. “Dove sono finiti i miei artigli? E i miei cuscinetti?”, pensò. Si umettò le labbra con la lingua viscida e liscia, non pelosa, e riconobbe le sue labbra elastiche e morbide, non più sottili e cartilaginee, i denti smussati, non più zanne acuminate.
“Che mi è successo? “pensò in quel linguaggio non suo che ora capiva e padroneggiava alla perfezione. S’accorse anche che vedeva il mondo da un’altra prospettiva, non più di un quattro zampe, ma si accorse di essere più alta, in equilibrio su due gambe soltanto, al punto che per l’eccitazione barcollò e perse l’equilibrio, cascando dritta sul… sul suo fondoschiena. La gattina non era mai caduta così; prima con la sua schiena flessibilissima riusciva sempre a girarsi in tempo, come quella volta che cadde dal balcone. Confusa, Barbarella notò che anche le sue zampe posteriori, quelle con cui si grattava le orecchie ogni volta che la stagione cambiava, non avevano più artigli nè cuscinetti, anzi su un magnifico cuscino stava ora seduta. Barbarella ritrasse le sue nuove gambe “Non ho più pelliccia!” pensò “Chi me l’avrà mai rubata? Come farò a graffiare ora che i miei artigli… sono diventati così teneri e rosei”. Barbarella si accarezzò un piede con tutt’e due le manine nuove “Però sono più belli! Che unghiette corte e curate!
Come farò a grattarmi le orecchie quando cambia la stagione? Brrr, che frescolino però senza pelliccia! Se prima mutavo adesso dovrò coprirmi. Un po’ però me ne è rimasta… qui, sotto la mia pancina. Ma com’è possibile? Uno specchio, presto, uno specchio! Uno specchio? Io non ho mai posseduto uno specchio, non dovrei sapere nemmeno cos’è, eppure mi pare di conoscerlo da sempre! “Poco distante scorreva un piccolo fosso, limpido come un laghetto; fu lui a venirle in aiuto. La micia-donna si chinò sulle acque e subito si riconobbe, riconobbe la sua espressione, i suoi occhi, la sua felinita, ora affidata ai capelli fulvi. Solo la coda rossa le era rimasta, sinuosa e ondeggiante dietro la sua schiena. Da adesso in poi non avrebbe più camminato a quattro zampe, scoprì di stare benissimo in equilibrio su due soltanto. “E uno, e due, hop!”, Barbarella, piena di nuova vitalità, prese a saltare tra gli alberi illuminati dal chiar di luna, con la stessa agilità di sempre s’arrampicava sui rami bassi e si dondolava, in preda all’eccitazione si rotolava tra le foglie grattandosi la schiena, in una danza panteistica Barbarella celebrava il suo salto, il suo ingresso nel mondo degli uomini, le sue risate echeggiavano come spari nella notte. Come per incanto la locanda deserta si illuminò dall’interno, e la porta chiusa sembrò allentarsi.
Barbarella istintivamente si diresse verso di essa, entrò e trovò tutto predisposto per lei, per il suo nuovo compito, quello di locandiera. Tutto in ordine, il forno, il camino, i paioli e le stoviglie, gli orci; dalla finestra che dava sul retrobottega si intravedeva verdeggiare un magnifico orticello dominato da un melo e un albicocco carichi di frutti. Certi sentieri sono scritti nelle stelle, e questo la Natura lo sa bene. Era perfettamente naturale che la micia fosse destinata a fare la locandiera. Dalla porta ancora aperta entrò uno sbuffo di vento che subito fuggì attraverso il camino, sulla soglia erano fermi Stella, la mamma, Whiskey, il papà, e i fratellini di Barbarella – Stellina Ciuffetto e Pippetto – che subito si radunarono intorno a lei facendo le fusa. Barbarella, che aveva già indossato una magnifica casacca di velluto rosso sotto il grembiule da cuoca, versò loro cinque ciotole di latte e già bussava alla porta il primo cliente. “Si può mangiare?” chiese l’avventore con una voce di bombarda tenorile. Barbarella lanciò il primo dei suoi sguardi deliziatori “Certamente! Si accomodi!” disse mentre il viandante si sciolse commosso da tante gentilezza – al punto che la sua voce si fece vicina al mellifluo contralto. Il primo di una lunga serie. Questa è la storia di Barbarella, bambini. La storia della locandiera con la coda nel ridente borgo di Creviquorum, che di giorno non si sa cosa faccia – magari dorme! – e di sera cucina divinamente e delizia gli animi di tutti. E…
“A me mi sa che non ce la racconti giusta”
Interloqui il bambino col moccio al naso, “A me mi sembra che il borgo che ci hai raccontato assomiglia molto al nostro paese, e la via della locanda della micia è la strada che passa vicino a via Coccapana…”
“E poi a furia di sentire parlare di crostate e zuppe a me mi è venuta una fame da maiali”
Interloqu” un bimbo tondo come una mortadella, florido e visibilmente mangione”
“Eh, è proprio vero, i bambini ne sanno una più del diavolo, a loro non la si fa” commentò il narratore
“Sapete che ore sono venute, bambini?, sono le sette passate, abbiamo lavorato molto oggi, tra me a narrare e voi ad ascoltare, abbiamo tutti bisogno di ritemprarci e… di là ci aspetta una sorpresa. C’è qualcuno che voglio farvi conoscere!”
La porta si aprì e gli sguardi carichi di trepidazione dei bambini i ncontrarono una damina fulva col berretto da cuoca, gli occhi azzurri il viso picchiettato di efelidi, l’incedere elegante e composto, un sorriso tenero e disarmante, per quanto compunto, dipinto sul volto.
“Barbarella!” esclamarono in coro i bambini. “Sei tu la locandiera con la coda?” interloquì il solito. Barbarella sorrise divertita, e con un cenno invitò i bambini a seguirla. Al di là della porta li attendeva una tavola rustica già imbandita, sullo sfondo un’ampia sala, come l’interni di una locanda, una vecchia locanda, di quelle coi tavoli rustici e le brocche di ceramica, i boccali con il coperchio in ferro battuto decorato da Mastro Bastìa, il fabbro del borgo, una locanda con le sedie di paglia e scene di vita quotidiana del regno di
Whoknows effigiate sulle pareti da Ghiotto, il pitòre.
“Forza bambini, sotto coi piatti, sennò diventa fredda” disse
Barbarella che aveva già immerso il mestolo nel paiolo della zuppa di orzo, farro e ceci, densa e fumante, desiderosa di accogliere scaglie di ottimo parmigiano. Sorridenti e un po’ rapiti, i bambini i bambini si fecero riempire i piatti da Barbarella, e giurarono di avere assaggiato solo un’altra zuppa così buona, solo quella della nonna.
Quanta natura, che aroma sprigionava quel desinare preparato da quella fatina, solo a chi è riuscito a penetrare i segreti della Natura è dato riuscirvi. E chi altrettanto? Solo una nonna.
Mentre finivano di spazzare via gli ultimi residui della superba crostata di albicocche, tra gli sbadigli della pesantezza post-pranzo, qualche bambino giur˜ di aver sentito sulla collottola una carezza morbida e pelosa; come quando il gatto li lambiva nel sonno con la coda. Altri toccarono la mano di Barbarella mentre allungava le porzioni, e giurarono che era soffice e carezzevole come il dorso di un felino. Mentre era intenta a sparecchiare, un bimbo più piccolo degli altri le si avvicinò, le tirò una cocca del grembiule per farsi ascoltare e le chiese “Ma è vero che una volta eri stata una micina rossa?” Barbarella sorrise divertita, teneramente si chinò sul bambino, gli accarezzò la testina bionda, si passò un dito sul nasino all’insù e disse “Miao!”.
Iniziato il 1 Febbraio 1995, Home, ore 18: 03,
Ultimato il 2 Aprile 1995, Home, ore 20: 33