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Funny Games

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Michael Haneke, in questo film, gioca con lo spettatore. Certo, è un gioco sadico, a tratti insostenibile, ma pur sempre di un gioco si tratta. Abbiamo dei ruoli e delle regole, che naturalmente è lo stesso Haneke a dettare. Specularmente a questo abbiamo quanto accade all’interno della storia raccontata nel film. Una famiglia borghese (madre, padre, figlio e un cane) se ne va a passare le vacanze nella propria casa al lago. Capiamo subito che sono molto benestanti (hanno una barca, la casa è enorme) e assistiamo al loro normale arrivo. La donna inizia a preparare qualcosa per la cena, l’uomo e il bambino pensano alla barca.

L’arrivo di due ragazzi (vestiti di bianco, in pantaloncini, con i guanti), che precedentemente i due coniugi avevano visto nel giardino della casa di alcuni loro amici, inizia a trasformare la normalità in inquietudine. Poi l’inquietudine si trasforma in incubo e infine l’incubo diventa realtà.

E questa è una parte del gioco che Haneke fa con noi. Il regista ci lascia sempre in bilico sul confine tra fiction e realtà. All’inizio entriamo nel film tramite i nostri soliti processi di immedesimazione per poi perErimanerne intrappolati in maniera atroce. Perché lo sguardo che siamo costretti a sostenere è veramente difficile da sopportare. Perché Haneke, espandendo i tempi filmici in maniera a volte insostenibile, ci incolla alle situazioni che mostra. Situazioni nelle quali il tempo filmico e quello reale si vanno assomigliando sempre di piE

Verso la metà del film cEegrave; un pianosequenza (tempo reale uguale tempo filmico) di circa un quarto d’ora in cui siamo costretti ad assistere allo scoppio del dolore dei due adulti per l’uccisione del figlio. Non ci sono tagli, non ci sono stacchi, non ci sono vie di fuga. Quello a cui stiamo assistendo lo riteniamo ormai reale. Umanamente vorremmo fare qualcosa o per lo meno avere la possibilità (la pietas) di guardare da un’altra parte, ma è impossibile. Siamo inchiodati sul dolore ma allo stesso tempo ce ne vorremmo allontanare, ma non lo possiamo fare, perché ormai siamo dentro al film (ci siamo immedesimati) e siamo in quella stanza (grazie all’occhio della macchina da presa) e non possiamo fare niente per andarcene (almeno che uno non si alzi ed esca dal cinema e forse questa sarebbe stata la vittoria piEgrande di Haneke).

Ma torniamo al gioco.

Uno dei due torturatori ci ricorda, in alcuni momenti, che tutto quello che stiamo vedendo non è reale ma è pura finzione. Infatti ci fa l’occhiolino direttamente guardando in macchina oppure riavvolge il nastro del film per non fare accadere una cosa che non doveva assolutamente accadere. Ovvero la parvenza di una speranza. Perché questo film è anche un viaggio verso la perfezione del sadismo e della violenza. Una perfezione che non deve essere (per l’appunto) contaminata da nessuna pietà e da nessuna speranza.

Potremmo quindi riflettere su quanto ogni volta che guardiamo (in televisione, per esempio) immagini violente o drammatiche abbiamo lo stesso atteggiamento di quando vediamo un film. Scambiamo le immagini reali di un dramma con quelle ricostruite di una finzione. E per questo non proviamo niente quando le guardiamo, ci sentiamo protetti. Si pensi anche, per esempio, a tutto il cinema che ha fatto della violenza un semplice intrattenimento.

Haneke invece per tutto il suo film non mostra mai direttamente la violenza, non cerca immagini ad effetto, ma mettendola fuori campo decide di mostrarne solo le atroci conseguenze. Anche questa è un’importante scelta del regista, in un mondo in cui le immagini violente sono all’ordine del giorno Haneke decide di non mostrarle e di relegarle nel fuori campo (in quella che dovrebbe essere la realtà), quasi a suggerirci che il mondo è già pieno di violenza e non serve sicuramente mostracela una volta di piEper farcela ricordare.

Nel pianosequenza di cui parlavo prima un altro spettatore della vicenda è la televisione. Haneke scambia i ruoli, mentre nella maggior parte dei casi siamo noi ad assistere alla violenza tramite la televisione, in questo caso è la televisione che assiste alla violenza (che esplode nella stanza) con la sua perenne indifferenza (trasmette infatti una gara automobilistica). E la madre la prima cosa che fa, una volta liberatasi (e ricordiamo che suo figlio è con il cervello spappolato a pochi centimetri da lei) è quella di spegnere il televisore per far tacere quel rumore inutile. Per racchiudere di nuovo la realtà (la sua realtà) in quella sola stanza dove l’orrore ha preso forma e dove il dolore deve ancora riuscire a farlo.

La televisione che tante volte ci ha mostrato il dolore altrui diventa una presenza mostruosa che nega con il suo stesso esserci e la sua meccanicità quelle emozioni che invece lo spettatore sente muoversi dentro di lui.

Quindi passiamo in continuazione dal massimo di immedesimazione (che ci fa soffrire) al massimo dello straniamento (che perEnon ci dà nessun sollievo).

Haneke quindi tortura psicologicamente anche noi, perché ci fa spettatori di un qualcosa di atroce ricordandoci allo stesso tempo che quanto vediamo è finto (ma ormai a causa dei processi di immedesimazione a cui il cinema ci ha abituato non abbiamo piEdifese) e tutto questo non per rassicurarci o proteggerci ma solamente per continuare il suo sadico gioco.

Solo per arrivare alla sua sadica conclusione.

Inoltre anche i rapporti tra tutti i vari personaggi creano ambiguità e confusione. I due sadici sembrano persone riservate e molto educate e soprattutto con un gran senso dell’umorismo. Ma sono anche glaciali nel perpetuare i loro fini. E cosa ancora piEinquietante sembrano non aver nessun motivo o nessuna ragione per fare quello che fanno, se non un’atroce scusa di intrattenimento. Sembrano effettivamente due attori di un teatro delle crudeltà che perEsi riversa nei comportamenti piEche realistici entrambi hanno nei confronti dei membri della famiglia presa in ostaggio. Membri che paradossalmente sono i primi a ricorrere alla violenza (verbale, psicologica, fisica) per cacciare via di casa, all’inizio, i due ragazzi.

Un film che lascia spaesati e attoniti ma che fa riflettere in maniera vigorosa sul ruolo delle immagini nel nostro tempo.

Attraverso una morale che punta dritta ad una purezza inversa rispetto a quella a cui siamo abituati (come dicevo ricerca di una violenza assoluta) Haneke ci fa anche pensare a quanto poi nella vita di tutti i giorni (nella realtà) essendo perennemente spettatori del dolore altrui non facciamo mai niente per cercare di alleviarlo.

Ma se all’interno della fiction è la libertà espressiva e comunicativa dell’artista a farsi portavoce (anche tramite atrocità e torture) del suo mondo e delle sue idee è bene ricordare che nella realtà, nel mondo reale, dovremmo essere noi uomini i soli responsabili di quanto accade.

Senza nasconderci dietro la maschera anonima dello spettatore che, guardando, non ha il potere o la forza di agire.

Basterebbe semplicemente staccare lo sguardo dallo schermo (qualsiasi schermo) e soffermarsi per un attimo su quanto continua ad esistere intorno a noi.

Non piEun gioco.

Ma la cruda realtà.

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