Davide
Ciao Zeno. E’ un onore conoscerti. Di “Gadamer” con Andrea Manzoni sai già cosa penso, per quel che della musica si può ridurre a parole (www.kultunderground.org/articoli.asp?art=1111). Veniamo ora al tuo lavoro solista, “Uno”… Uno perché la musica che ci sta dentro è nata da un solo strumento, in un solo momento performativo e nell’unità estemporanea di gesto ideativo e gesto esecutivo. Lo strumento è il violoncello, il solo momento performativo (composizione-esecuzione) è chiaramente l’improvvisazione… Puoi spiegare invece cosa sia il terzo punto, cioè l’unità estemporanea di gesto ideativo e gesto esecutivo?
Zeno
Celebrare l’ “unità estemporanea di gesto ideativo e gesto esecutivo” equivale per me a celebrare l’essenza della musica improvvisata. Che è estemporanea (cioè intrinsecamente legata alla propria esistenza temporale, alla propria durata) e vede coincidere il momento di invenzione sonora con quello dell’esecuzione pratica. Questo mio indulgere in terminologie forse un po’ esoteriche è stato una sorta di tributo a una delle più affascinanti teorie estetiche che mi sia capitato di incontrare: la teoria della formatività di Luigi Pareyson. In essa, a differenza di ciò che avviene nelle estetiche idealistiche (ancora oggi imperanti presso il pensiero musicale sedicente colto), la materialità sonora e l’irripetibilità del momento musicale hanno finalmente trovato il ruolo centrale che spetta loro.
Davide
Dei quattro classici archi ho sempre preferito il suono del violoncello, perché più caldo e terreno dell’etereo violino e della viola, e non limitatamente greve come il contrabbasso. Una sorta di giusto mezzo sonoro che permetta di affiancarci sia al cielo, sia alla terra… Ma, a parte questo ricordo del Zhongyong di Kong Ji, cosa ti ha indotto alla scelta di questo strumento?
Zeno
La storia è piuttosto curiosa. Attorno agli otto anni mi era venuta una gran voglia di suonare il violino e – presentatomi presso una scuola d’archi in compagnia di mia madre – mi ero però sentito dire che io (bambino di terza elementare!) avevo le dita troppo grandi per imparare quello strumento. In realtà il direttore della scuola, a fronte dell’inflazionatissima scelta del violino, aveva bisogno di qualcuno che imparasse il violoncello per poter costituire quei piccoli ensembles di archi che sono alla base di molti metodi di apprendimento.
Per via di questa sua pacchiana bugia mi sono quindi avvicinato al violoncello (che peraltro non ho studiato nella sua scuola…) e nel corso degli anni non ho potuto che progressivamente rallegrarmi dell’opportunismo di quel direttore.
Davide
L’opera che io amo di più per violoncello è il “Cello Concerto” op. 107 di ostakovič, quello scritto per Mstislav Rostropovich. Fin dal suo attacco aggressivo di quattro note per me eguaglia l’inizio della Quinta di Beethoven… Il resto… Mi “spancia” e mi “rianima” ancora oggi a quasi trent’anni dal primo ascolto. Quali sono le pagine per violoncello che ti hanno più illuminato, nella carne e nei sensi come nello spirito?
Zeno
Sono diverse. E per non parlare di quelle che più facilmente ci si potrebbe immaginare cito più che volentieri il Concerto in sol minore di Mathias Georg Monn, un compositore tedesco della prima metà del Settecento che morì a soli trentatré anni. È una pagina piena di passione e con un’incredibile sensibilità melodica tra l’eroico e il commovente. Curiosissimo è il fatto che tale composizione sia stata riscoperta e riorchestrata da un genio del Novecento – Arnold Schönberg – che con il puro slancio melodico (alcuni lo definirebbero anche “banale”) ben poco ha avuto a che spartire. E per ascoltare tale concerto al pieno di queste sue potenzialità non ci si può che rivolgere alla registrazione di Jacqueline Du Pré.
Davide
“Uno” mi ha trasmesso grande e disperata, eppure quieta bellezza in solitudine (scusa l’ossimoro quieta e disperata, ma è proprio così che l’ho sentita), un po’ come le poesie di Georg Trakl, o la musica di Eleni Karaindrou di “Ulysses’ Gaze”, colonna sonora del film di Theo Angelopulos, alla viola di Kim Kashkashian. La mia ammirazione per “Uno” è questa tua capacità di esserti saputo esprimere improvvisando non per riempire con note e virtuosismi (come sempre siamo abituati, soprattutto negli asoli del jazz e del rock), ma per vuoti, per poche giuste note alla volta, con l’orecchio più attento a sentire quali note sarebbero nate da se stesse che non dalla tua tecnica. Come avviene e cosa avviene durante la tua improvvisazione?
Zeno
La fenomenologia dell’atto improvvisativo è operazione piuttosto ardua. Chi prova ad insegnare l’improvvisazione libera insiste su concetti quali “energia” o “economia di materiali”, ma in realtà questi sono parametri che già guidano la creazione musicale tout court: vale a dire il mantenimento unidirezionale del livello energetico di un pezzo (la si potrebbe chiamare anche “direzione espressiva”) e l’utilizzo controllato degli elementi musicali che tale espressione devono realizzare.
La difficoltà che ho nell’ascolto di certo jazz è proprio quella di capire perché mi vengono rovesciate addosso così tante note e in quei precisi momenti – ma poi mi rispondo che è la semplice adesione ad un codice poetico-formale che di improvvisato ha ben poco, e in quanto tale cerco di apprezzarlo.
Davide
A un certo punto mi è parso di sentire come dei suoni di cetacei fatti con il tuo violoncello… Sono andato a vedere il titolo: Seautòn… Gnothi seauton (Conosci te stesso) in fondo era scritto in lettere d’oro sul portico del tempio di Δελφοί (Delphi). Ho amato questa mia connessione con i delfini (Delphinidae) e il mare tutto da cui senz’altro proveniamo… Non è detto che tu ciò intendessi, ma questo è il potere proteiforme della musica sugli altri e del legarvi un titolo… A te, che hai amato e studiato la filosofia, invece chiedo quale sia la tua congiunzione tra musica e (appunto) filosofia?
Zeno
Lo studio della filosofia è un toccasana per chiunque esca da un conservatorio. Dopo anni passati a cercare di appoggiare le dita al posto giusto e a cancellare diesis dal pentagramma, trovarsi improvvisamente costretti a pensare ai massimi sistemi provoca un autentico corto circuito. Se si sopravvive non si può che relativizzare l’apprendistato prevalentemente tecnico delle scuole di musica e non si può che guardare con spirito critico ai dogmi su cui si poggia l’intero sistema musicale, non solo classico.
Nel mio fare e pensare la musica, oltre al già citato Pareyson, ho trovato utile e produttivo (ed ormai imprescindibile) quello che hanno scritto Hans Georg Gadamer e Ludwig Wittgenstein (il secondo Wittgenstein). Il perché sarebbe lungo da spiegare, e quindi lo riassumo in due parole: vita e autenticità.
Davide
“Chiara” è proprio un bel leit motiv, che ricorre anche in “Gadamer”. Sarebbe da farvi un’operazione a ritroso e rendere questa musica il film romantico e forse drammatico che ancora non è stato. Ti va di parlare di come sia nato questo motivo struggente, bello ed evocativo (e nondimeno memorabile… nel senso che proprio ti si incolla subito nella memoria anzitutto “emotiva”)? Sono certo che prima o poi lo vedrò in qualche degno film di produzione europea.
Zeno
È una domanda che potrebbe decadere nel gossip, e mi guarderò bene da questo rischio. In realtà è un tema che viene da lontano, dalla mia partecipazione al festival Strade del Cinema di Aosta del 2002. Perché in nuce Chiara è effettivamente un tema cinematografico. Poi è transitato in uno spettacolo teatrale – dal nome della cui autrice ha tratto il proprio – e poi è confluito nei due dischi. Nel primo perché ce l’ho voluto mettere io, nel secondo perché mi ci ha obbligato Andrea Manzoni, il fido pianista che l’ha impreziosito con un bellissimo solo.
Davide
“Sedicente” è un altro dei tuoi titoli di “Uno”… E’ difficile parlare di sé, ma dalle tue note autobiografiche si coglie subito questo (prima o poi) inconveniente, l’umiltà o la necessità di cautela che vi sta dietro, e che privilegia il fare e manifestare concretamente al dire di sé o quel che si è fatto e si fa… Insomma, l’equilibrio tra il dire di sé e ciò che si fa e il fare sembra incarnarsi in questo titolo: io sono quel che sentite… Che tu abbia scelto questo titolo per questo brano mi fa dunque riflettere sulla tua “identità sonora”. E’ un brano che ricorda molto il morphing arpeggiatore dei sintetizzatori. Per dare un’idea anche a chi non sappia in particolare di termini musicali, nel cinema il morphing è stato uno dei primi effetti digitali per la trasformazione fluida e graduale tra immagini diverse e successive, oggetti, volti, paesaggi… (come La vecchia dissolvenza incrociata). Insomma, un passaggio (mixaggio) dall’ora al dopo… Cosa c’è di possibilmente reale in questa mia intuizione al tuo essere e fare musica?
Zeno
Sedicente dovrebbe o potrebbe essere il titolo di tutta la musica, soprattutto della musica strumentale. Perché è la musica da sola che deve dirsi, che deve presentarsi ed esplicarsi – e se a questo i suoni non arrivano, non può di certo essere un titolo affascinante a porvi rimedio. Tale era il punto di vista – nudo e crudo – che avevo quando ho registrato Uno. Ma più passa il tempo più mi accorgo che non è proprio sempre così e che la complessità generale del mondo impedisce una definizione di musica che separi categoricamente il bianco dal nero. Siamo anzi immersi in una scala di grigi per cui spesso i valori cambiano, si capovolgono o spariscono.
Così come per l’atteggiamento radicale che ho tenuto per la registrazione di Uno, cioè l’esecuzione completamente dal vivo di ogni pezzo, senza nessun materiale preregistrato o editing a posteriori. Questo ha comportato che i vari strati sonori si sovrapponessero con loops successivi, dando l’effetto di “mixaggio in fieri“che tu a ragione definisci morphing. Il nuovo disco ha abbandonato questa radicalità, per potersi maggiormente aprire a idee di arrangiamento e di sincronicità formale altrimenti precluse.
Davide
Il brano “Portone”, in chiusura, suona le quattro note di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”? E’ una citazione voluta per significare qualcosa?
Zeno
In realtà la citazione non è stata cercata. Però l’atteggiamento di fondo di quel disco auspicava degli incontri ravvicinati con entità sconosciute, perché per me era un addentrarmi nell’ignoto, registrare pezzi che non sapevo a chi avrebbero potuto dire qualcosa, espormi con un prodotto che certamente alle persone che mi stavano più vicine poteva dire ben poco.
Davide
Ultima domanda. I pedali sono un ausilio molto “rock”… Vederli applicati a un violoncello (elettrico), invece che a una chitarra elettrica, è molto interessante. Quali principali muse di una sola musica e perché ci sono state dietro la tua musica?
Zeno
La musica è una o son tante? L’etnomusicologia sembra aver distrutto l’utopia idealista per cui la musica è la lingua universale che a tutti parla. E io, nondimeno, non ritengo di fare qualcosa al di sopra dei generi e magari aperto verso l’ignoto tutto. Ho semplicemente lasciato liberamente confluire nella mia musica quello che è il mio cosmo di ascolti, che va da Perotin ai Sepultura. E la tecnica ha dovuto adeguarsi…
Davide
Avremo suscitato abbastanza curiosità da venirti a cercare?
Zeno
Speriamo! In ogni caso mille grazie per le domande veramente stimolanti. Quasi una seduta di (auto)analisi.