Una delle parole che è riecheggiata in questa 65a edizione del Festival del Cinema di Venezia, è stata “crisi”, nei contenuti, nelle presenze (12% in meno – dato ufficiale della Biennale), nella qualità cinematografica, e già qualcuno ha azzardato l’ipotesi di un sorpasso del Festival di Roma (su quali aspetti non ci è dato saperlo). Lo stesso direttore del Festival Marco Müller, in un’intervista a metà evento, non si nascondeva il problema delle minori presenze dettate soprattutto dalla mancanza delle grandi star americane (fatta eccezione per l’apertura del Festival con il film dei fratelli Coen che ha visto lo sbarco in laguna della coppia George Clooney e Brad Pitt), e dai film in concorso di maggior richiamo che invece l’anno scorso aveva portato un aumento dei biglietti venduti. Il direttore Müller non ha però parlato di crisi di questo Festival in particolare, ma di tutti i Festival in generale, con l’impossibilità di trovare pellicole di qualità e nel contempo di valore artistico e nella sfortunata congiunzione tempistica di non avere già pronte le pellicole hollywoodiane con i grandi nomi, da proporre al grande pubblico.
In realtà sul settore presenze, soprattutto per quando riguarda la massa degli accreditati, la flessione si era già fatta sentire l’anno precedente, causa, a mio parere, del neonato Festival di Roma, a cui molti si sono indirizzati come ottima alternativa, visto la difficoltà qui a Venezia di assistere in maniera soddisfacente al programma, a fronte di spese sempre più sostenute, per i prezzi elevati, sia logistici sia speculativi, qui al Lido. Non voglio più parlare della polemica Venezia-Roma, chiudendo il discorso solamente ribadendo che in nessun altro paese il proprio maggior Festival del Cinema, internazionalmente riconosciuto, subisce una concorrenza interna (Parigi non ha mai sentito il bisogno di proporre un Festival del Cinema di valore internazionale alternativo a Cannes), e le parole del futuro nuovo presidente del Festival di Roma, Gian Luigi Rondi, che non pone sullo stesso piano Venezia e Roma, riconoscendo a Venezia un valore artistico superiore al Festival della capitale, ma nel contempo dichiarando di essere più vicino ai maggiori Festival Internazionali come Cannes e Berlino, è la dimostrazione che in ogni caso questa concorrenza sia in realtà molto sentita.
Sul settore qualità, fino a metà Festival, effettivamente le pellicole del concorso ufficiale avevano lasciato molte perplessità, per cui in molti si erano affrettati a sostenere catastrofiche visioni di un Festival oramai al capolinea, ma negli ultimi giorni, soprattutto con l’arrivo delle pellicole americane (e non è un caso che il Leone d’Oro di quest’anno sia stato proprio l’ultimo film proiettato), la qualità dei film in concorso si è tranquillamente riallineata su standard non dissimili dagli anni precedenti. Questa spaccatura fra la prima parte del Festival e la seconda, ha creato un curioso fenomeno che ha colpito i maggiori critici riconosciuti della carta stampata e non, una sorta di disorientamento collettivo, non potendo segnalare un film obiettivamente superiore, qualitativamente, agli altri. L’incertezza data dalla non grande qualità delle pellicole ha creato giudizi contraddittori, a volte abbagli totali, pareri perlomeno discutibili, ed alla fine, nello smarrimento totale, tutti giudicavano come miglior lavoro in concorso l’opera di animazione del maestro Miyazaki, storia molto “kawai” carina, adatta però ad un pubblico di bambini. Ancora una volta si è riaffermato come il cinema è assolutamente soggettivo, e che i giudizi della critica riconosciuta lascino spesso il tempo che trovano. Analizzando nello specifico le pellicole in concorso, si possono fare diversi ragionamenti. Il cinema italiano era effettivamente sovradimensionato (nota polemica della stampa tedesca), con quattro film che per diverse ragioni hanno lasciato molti dubbi, tranne il film di Avati che merita sempre un discorso a parte. È probabile che l’effetto Cannes abbia reso “molti” troppo ottimisti, convinti di assistere ad una nuova rinascita del cinema italiano. Le pellicole italiane premiate a Cannes, invece, come in realtà anche altrettanti “molti” temevano, sono risultate un’eccezione in un panorama ancora incerto. Analizzando le quattro pellicole nello specifico, “Un giorno perfetto” di Ferzan Özpetek, prodotto dalla Rai, già nei cinema e molto pompato (sarà sicuramente un campione d’incassi), ha molto deluso la maggioranza dei presenti a Venezia, ricalcando i difetti dei suoi ultimi film e delle pellicole italiane qui in concorso negli ultimi anni. Un cinema un po’ troppo auto compiacente, con tematiche anche forti, ma spesso sviluppate male o troppo finalizzate a sé stesse, senza potenziare discorsi alternativi, con più di un passaggio che ha lasciato perplessi e con altri invece sottolineati eccessivamente da escamotage narrativi e da musiche ridondanti.
“BirdWatchers – La terra degli uomini rossi” di Marco Bechis, al di là dell’argomento che può suscitare più o meno “presa” secondo il proprio gusto personale, risulta essere un po’ stereotipato nei personaggi e nei ruoli, i bianchi ricchi e cattivi ed i poveri indios sfruttati e calpestati a cui è stata tolta la propria terra, ormai incapaci anche di lottare.
Mettere in concorso il film di Pappi Corsicato “Il seme della discordia”, è stato a mio parere un errore, potendo probabilmente meglio figurare in qualche sezione collaterale. Sebbene contenga anche un discorso stilistico personale, che richiama suggestione “almodovoriane” e della cultura beat degli anni 70′, la pellicola risulta essere troppo leggera per poter essere presentata in una competizione dove le tematiche rivestono grande importanza.
Il cinema di Pupi Avati, qui in concorso con “Il papà di Giovanna”, merita sempre un discorso a parte. Il suo è un cinema che non sempre può piacere, lui lavora sempre in un ambito specifico, si trova bene quando può descrivere la Bologna della sua infanzia e la gente che la caratterizzava. Si trova peggio quando deve collocare storie contemporanee nei giorni nostri; difficilmente lavora nell’attualità. Però il suo cinema funziona, nel senso che le pellicole che lui propone, anche se non si ama particolarmente quello che propone, è fatto bene, i suoi lavori sono solidi, artigianali, ma ineccepibili. Questo film rispecchia in pieno il suo stile, e come già era successo tre anni fa sempre qui a Venezia con “La seconda notte di nozze”, alla fine fra gli italiani in concorso, pur partendo sempre con il credito minore, risulta essere il più positivo. Quest’anno il riconoscimento è avvenuto attraverso il premio dato a Silvio Orlando con la Coppa Volpi come migliore attore protagonista.
Come si è detto, il concorso ufficiale, in questa edizione, è stato salvato un po’ dal cinema americano, con tre pellicole di buona fattura. “The Wrestler” di Darren Aronofsky, premiato con il Leone d’Oro come miglior film, è la storia di un lottatore dal passato glorioso, ma ormai esaurito sia nel fisico sia negli affetti, con la splendida interpretazione di Mickey Rourke; “The Hurt Locker” di Kathryn Bigelow, rappresenta l’ennesimo capitolo della guerra in Iraq, e “Rachel Getting Married” di Jonathan Demme, racconta le trame di una famiglia in crisi alla vigilia di un matrimonio. Quest’ultimi film, avrebbero meritato anch’essi una maggior considerazione dalla giuria. Fra gli altri premi, sicuramente giusti (Premio Speciale della Giuria, ed Osella per la migliore sceneggiatura) quelli per il film “Teza” (Etiopia/Germania/Francia) di Haile Gerima, spaccato politico dell’Etiopia degli ultimi cinquanta anni. Altro film premiato con il Leone d’Argento per la migliore regia e l’Osella per la migliore fotografia è stato “Bumanyj Soldat” (Russia) di Aleksey German Jr., di cui non posso dire niente perché sfortunatamente è l’unico film in concorso che mi sono perso. Altro film in concorso che ho apprezzato e che consiglio è stato “Vegas: Based on a True Story” del regista iraniano trapiantato negli Usa, Amir Naderi, che avevo già apprezzato per alcuni suoi lavori visti al Festival di Torino.
Da segnalare le due pellicole più irritanti dell’intero concorso, “Inju, la Bête dans l’ombre” (Francia) di Barbet Schroeder e “Nuit de chien” (Francia/Germania/Portogallo) di Werner Schroeter a cui è stato inspiegabilmente assegnato un premio anche se non per il film in oggetto, ma per il complesso dei suoi lavori nel corso di quaranta anni, il Leone Speciale per l’insieme dell’opera (un genere di premio che lascia comunque un po’ il tempo che trova).
Ultima considerazione sul concorso ufficiale che vedeva presente le opere di due maestri dell’animazione giapponese: “Gake no ue no Ponyo (Ponyo on the Cliff by the Sea)” di Hayao Miyazaki e “The Sky Crawlers” di Mamoru Oshii. La pellicola del maestro Miyazaki è stata fin quasi alla fine del Festival in testa alle preferenze della critica e del pubblico, anche se a mio parere è uno dei suoi film meno riusciti, o perlomeno, adatto più ad un pubblico di bambini (per altro nelle intenzioni dichiarato, dallo stesso regista). Il lavoro di Oshii, che invece è stato pressoché ignorato, l’ho trovato buono, con tematiche interessanti ed anche profonde, sicuramente un film per adulti, dalla grafica a volte fin troppo realistica (forse questo il suo maggior difetto, lo stacco netto fra le scene panoramiche troppo foto realistiche e quelle dei primi piani, disegnate in maniera più classica).
Come al solito le sezioni collaterali hanno offerto piccole ma buone pellicole, di cui farò solamente un sintetico elenco (quelle da me più apprezzate), nella speranza che qualcuna di queste possa uscire nelle sale.
“Goodbye Solo” (Usa) di Ramin Bahrani, “Dikoe Pole (Wild Field)” (Russia) di Mikhail Kalatozishvili, “PA-RA-DA” (Italia/Francia/Romania) di Marco Pontecorvo, “Stella” (Francia) di Sylvie Verheyde, “Pescuit sportiv (Hooked)” (Romania/Francia) di Adrian Sitaru, “Nowhere Man” (Belgio/Olanda/Norvegia/Lussemburgo) di Patrice Toye, “Lønsj (Lunch)” (Norvegia) di Eva Sørhaug, “Pranzo di Ferragosto” (Italia) di Gianni Di Gregorio vincitore del Premio “Luigi De Laurentiis” per la miglior Opera Prima.
Fra le curiosità, da segnalare la pellicola malese “$E11.OU7! – Sell Out! (Vendi!)” del regista Yeo Joonhan, musical comico surreale sulla nostra società consumistica, il film “A Erva do Rato” del maestro brasiliano Julio Bressane e Rosa Dias, riconosciuto come il più assurdo presentato, la polemica sul documentario di Mimmo Calopresti “La fabbrica dei tedeschi“, assolutamente legittime le lamentele verso il regista, della madre di uno degli operai morti nell’incidente della ThyssenKrupp, e l’emozione, nel ricevere gli applausi, della giovane protagonista del bel film “Stella”, uno dei momenti più toccanti di Venezia 2008.