Il destino spesso è strano. Vedrò Singapore?, probabilmente uno dei romanzi migliori di Piero Chiara, fu edito nel lontano 1981, ottenendo fin da subito un considerevole successo di critica e di vendite (in circa un anno si parla di 500.000 copie). Ci furono poi successive ristampe, ma da un po’ di tempo il libro non è più nel catalogo dell’editore, come se avesse esaurito l’originaria spinta iniziale. Ed è un vero peccato che non sia reperibile se non su qualche bancarella di libri usati, perché questo romanzo è il frutto di una maturità, che se aveva fatto gridare al miracolo all’uscita de Il piatto piange, qui si rivela in tutta la sua complessità che Piero Chiara ha saputo tradurre in poche e semplici parole: “Era lei, la Ilde, a quarant’anni, che veniva dall’avvenire, dal futuro, a dirmi che la vita è quella che è, orribile, ma sopportabile.”
Il senso di rassegnazione alle vicende umane, quella sorta di impotenza a opporsi al destino, tanto che vale la pena di lasciar fare, di non angustiarsi, di agire d’impulso, è più che mai presente in quest’opera, ambientata, per così dire, fuori casa, fra le solitarie valli di quell’Italia orientale acquisita a seguito della prima guerra mondiale. Se l’ambiente però non è più quello di Luino e del lago Maggiore i personaggi e le storie acquisiscono una comune identità, tanto da confermare che ogni mondo è paese, soprattutto quando le realtà sono rappresentate da villaggi di pochi abitanti, dove tutti si conoscono e dove la familiarità è quasi d’obbligo.
L’epoca, poi, è la stessa di quella de Il piatto piange, quegli anni 30 in cui il fascismo sembrava ormai consolidato e la rassegnazione era la caratteristica comune di chi credeva che la libertà non sarebbe più tornata. Una vita fatta di circoli chiusi, di spirali, in cui i personaggi si muovono lasciandosi andare, una ricerca del modo di trascorrere il tempo che sfocia in continue abitudini: questo è il mondo, inserito in quell’epoca, che così bene Piero Chiara sa descrivere.
Fra l’altro il personaggio principale è proprio l’io narrante, trasferito in quei lontani posti dalla natia Luino, o meglio dalle onde del Lago Maggiore, come esordisce lui stesso a un certo punto. E’ un uomo che più che vivere sopravvive, senza interessi (nemmeno quello del lavoro) e che ritrova un po’ il piacere dell’esistenza nelle compagnie.
Se le vicende del romanzo, a corredo del filone principale, sono numerose, bene articolare e spesso spassose, i personaggi di contorno sono uno più azzeccato dell’altro, perfino nei nomi.
Così si incontra il terribile e temuto Mordace, un caporione fascista che in quelle lontane terre vigila e dispone per italianizzare e fascistizzare tutti gli abitanti, oppure il Pretore Merdicchione, l’ex magistrato Carlo Fohn, ora ridotto a ladro di polli, il tavolarista andrea Zciuka che nasconde nei locali della pretura un’amante da caravanserraglio, il procuratore delle imposte Palateo, di orribile bruttezza, che va a letto con la bella promessa sposa del corazziere, l’avvocato Grisella che vive veramente solo nel momento del suicidio, la conturbante Brunilde, che si nega a tutti, ma che poi si avvia al meretricio in casa d’appuntamenti.
Un campionario vario di esseri umani, tutti accomunati dal fatto di essere dei falliti e dalla consapevolezza di questo loro destino, dona al romanzo, in una serie di incastri, uno spessore di notevole rilievo.
L’emblematico finale non fa altro che rafforzare il pessimismo di Chiara: al personaggio principale, a seguito di una sua disavventura, viene offerta la possibilità di non pagarne le conseguenze, a patto che accetti di essere allontanato. Ob torto collo acconsente all’essere imbarcato con la qualifica di scrivano su un bastimento diretto a Singapore. “Vedrò Singapore?” si chiede allora di fronte alla prospettiva di un cambiamento radicale della propria vita. Ma, forse portato dal vento, gli arriva un sussurro: “Torna alle onde del Lago Maggiore”. Il romanzo finisce nell’incertezza: si imbarcherà o ritornerà a Luino? Sono propenso a credere alla seconda ipotesi: anche se ci si lascia trasportare dal destino, la vita è meno orribile se si torna alle origini. E poi una decisione importante non è nella natura del protagonista che sembra dirci: meglio la certezza di una vita da poco che l’incertezza di un’altra vita assai probabilmente ancor da poco.
Piero Chiara nasce a Luino il 23 marzo 1913, in una famiglia di origini siciliane.
Studia in vari collegi religiosi, ma poi abbandona la scuola, completando da autodidatta la propria formazione culturale.
Dipendente di un’amministrazione statale, vive, durante gli anni del fascismo, la più chiusa e al tempo stesso più eccitante vita di provincia: lunghe letture, il gioco e gli intrighi d’amore.
Data la sua naturale indole al dissenso, diviene inviso al fascismo, al punto che il Tribunale Speciale emette una severa condanna nei suoi confronti e che evita unicamente con la fuga in Svizzera.
Terminata la guerra, ritorna in Italia con un’aureola di antifascista, che gli sarà di aiuto nel reinserimento nell’Italia repubblicana.
Inizia un periodo di fervida creatività che lo porta ad abbandonare il lavoro nell’amministrazione statale per dedicarsi unicamente alla scrittura.
Nascono così i romanzi Il piatto piange, La spartizione, 1964; Il balordo, 1967, con cui vinse Il Bagutta; Il Pretore di Cuvio, 1973; La stanza del vescovo, 1976; Il cappotto di astrakan, 1978; Vedrò Singapore ?, 1981, oltre a molti altri, una produzione tutta di notevole livello, dove la capacità dell’autore di scrivere con equilibrio, di non indulgere mai alla volgarità anche nelle storie più scabrose, non viene mai meno.