Minacciosi, oscuri, impenetrabili. La rock band americana dei Tool conquista il mercato discografico mondiale con un opera apparentemente più accessibile ma che racchiude in se, quelle atmosfere pesanti e arcane tanto care ai vecchi fan.
È il 1991 e a Seattle il “grunge” ha già iniziato a dettare legge, con il suo sound sporco e le sue liriche disperate, immerse nelle fragili illusioni di un decennio grigio e difficile, che lo scrittore Douglas Coupland racconterà con estrema chiarezza nella sua amara radiografia della “generazione x”. Il panorama musicale americano è una fucina di idee e di sperimentazioni continue, reduce dalla plasticosa leggerezza anni ’80, tanto divertente quanto superficiale. A Los Angeles quattro ragazzi dall’aspetto ordinario partoriscono un progetto allucinato, degno del peggior incubo di David Lynch, simile ai viaggi lisergici di Timothy Leary. La line-up originale dei “Tool” è formata dal cantante-guru Maynard James Keenan, dal poliedrico e geniale chitarrista Adam Jones, dal bassista Paul D’Amour e dal batterista Danny Carey. Già dal loro primo lavoro in studio, l’ep “Opiate”, appare evidente una matrice sonora anni 70 che affonda le sue radici nelle cupe atmosfere dei Black Sabbath, andando a lambire l’immaginario visivo di band sottovalutate ma fondamentali come i Blue Oyster Cult e i Black Widow. Siamo ancora in presenza di un materiale grezzo ma sincero, che evidenzia un potenziale creativo straordinario. Anche le liriche “recitate ” da Maynard ci offrono una dimensione meditativa profonda, che prende spunto dalla dottrina filosofico-scientifica ideata da Ronald Vincent negli anni ’40 – la Lacrimologia – mescolando riflessioni apparentemente complesse a improvvisi slanci umoristici e dissacratori. Tool è, a detta del leader del gruppo, uno strumento attraverso cui ricercare e conquistare un equilibrio mentale che possa facilitare la comprensione e il dialogo con il proprio inconscio; il raggiungimento di questo obiettivo è possibile attraverso lo sfruttamento ragionato del potenziale creativo dell’uomo. Questo discorso è rintracciabile con maggior evidenza nell’album successivo “Undertow” del 1992, dove troviamo ancora presenti alcuni residui di matrice “Zeppeliniana” immersi, però, in un universo sonoro dominato da cupe distorsioni ben rappresentato da “Sober”, primo singolo del disco, ottimamente strutturato sull’alternanza di strofe dal ritmo cadenzato e aperture violente e debordanti che non disdegnano l’utilizzo di accenti melodici. Il 1994 vede l’uscita dalla band di Paul D’Amour e l’ingresso di Justin Chancellor; sono anni decisivi in cui il gruppo perfeziona non solo il proprio stile inconfondibile ma incomincia, anche, a ipotizzare e progettare un discorso artistico prettamente grafico e visivo che possa supportare e arricchire sia la fase “live” sia la realizzazione di videoclip. A farsi carico di questa importante componente è il chitarrista Adam Jones, artista talentuoso e visionario, con trascorsi importanti in campo cinematografico nella progettazione di effetti speciali – Terminator II – capace di valorizzare l’aspetto puramente musicale con immagini inquietanti e disturbate. Dopo quattro anni da “Undertow” i Tool raggiungono il meritato successo di pubblico con il disco “Aenima”, opera matura e coraggiosa, caratterizzata da continui cambi di ritmo, riff granitici e angosciose pause strumentali. Dopo cinque anni di stop caratterizzati dalla nascita di interessanti progetti paralleli – come gli ottimi “A Perfect Circe” di Maynard – il gruppo da alla luce il suo capolavoro: “Lateralus”. È un opera difficile che a un primo ascolto colpisce per le sue gelide geometrie interne, ma che dopo un’attenta analisi rivela una lucidità volutamente stratificata. Il disco è un esempio perfetto di rock cupo e introspettivo, realizzato grazie a una tecnica giunta a perfetta maturazione, spirituale e rabbioso, innovativo e delicato. La traccia d’apertura “The grudge” impressiona per l’incedere ipnotico e circolare della ritmica e per la volontà ossessiva di ricercare nuovi territori armonici mentre “The Patient” con la sua schizofrenica doppiezza, dopo un incipit minimale quasi sussurrato esplode in un crescendo vorticoso e graffiante, arricchito dalla splendida prestazione vocale di Maynard mai così potente e drammatica. Anche le liriche ricercano un linguaggio volutamente oscuro ricco di livelli interpretativi nascosti: “Se non ci fossero ricompense da intascare/nessun abbraccio d’amore per vedermi libero/questo percorso noioso che ho scelto/sicuramente lo avrei già abbandonato/devo aspettare”. I brani migliori del disco sono senz’altro “Schism” e la title track “Lateralus”. Il primo è una vera e propria enciclopedia sonora dello “stile Tool” con i suoi cambi di ritmo, gli intrecci morbosi di voce/basso/chitarre, le accelerazioni improvvise, le rabbiose esplosioni di sonorità violente, le liriche atrocemente recitate in una sorta di delirio mistico che prorompe in un finale paranoico di “sabbathiana” memoria: “Io conosco i pezzi giusti perché li ho visti cadere giù/ammuffire e sciogliersi/fondamentalmente differenti” e ancora “il freddo silenzio ha la tendenza ad atrofizzare tutto”. Lateralus, invece, comincia con un “intro” di chitarra e batteria per poi aprirsi lentamente grazie a una struttura tutta giocata sull’alternanza di riff ipnotici quasi trattenuti a accelerazioni esplosive. I principali riferimenti culturali del disco sono riconducibili alla matematica e in particolare alla figura di Fibonacci la cui famosa serie di numeri è rappresentata sia sulla copertina del disco grazie a una spirale sia all’interno delle strofe delle canzoni che seguono, nel loro sviluppo, la regola inventata dal matematico. Il 2006 è la volta di “10,000 days” apparentemente un passo indietro rispetto a Lateralus ma che, come al solito, nasconde tra i meccanismi complessi della sua struttura tutta l’anima più oscura della band. Innanzitutto il disco mostra una compattezza notevole frutto di un’assoluta comunione d’intenti e un’attenzione particolare per gli arrangiamenti che introducono in modo massiccio la componente etnica come nella bellissima “Right in Two”, con i suoi nove minuti intimi e intensi impreziositi dalle presenza di percussioni mai invadenti, o nella progressione spigolosa e psichedelica di “Jambi” che ricorda le atmosfere già “infette” di “Aenima” . Come al solito il disco trae forza dall’apparente contrasto di umori, emozioni e sentimenti differenti. L’intreccio è tenuto insieme da una spontaneità ragionata, che si traduce in una perfetta macchina sonora, condotta con abilità e sicurezza verso i territori più oscuri e inesplorati della musica.