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La memoria dell’acqua – Antonio Messina

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«Ma Tu quando verrai?/ Un giorno stendendo la mano/ Sul quartiere dove abito,/ Al tempo maturo che non spero più davvero;» (H. Michaux).

Un voce sussurra lenta e pacata all’orecchio del lettore accoccolato alle soglie di se stesso, disteso al piacere della parola, alla bellezza dei luoghi dell’anima, all’attesa della vita che si compie: ha nomi differenti ma un solo volto, radici lontane e sapore di paesaggi contaminati dall’amore, dalla conoscenza di sè, dalla bellezza, dal sogno.
Dentro e oltre la filosofia, La memoria dell’acqua costituisce realmente- come sottolinea a ragione Elisabetta Blasi nell’interessante introduzione- “la nuova frontiera del racconto filosofico”, caratterizzato da un’atmosfera che oscilla costantemente fra tradizione letteraria e indagine etica, attraverso un percorso à rebour sui temi arcani dell’esistenza.
Sensibili sono i richiami al Filebo e alla maieutica come forma di conoscenza, di scoperta del Sé: percepiamo una sorta di osmosi tra il percorso dell’autore e quello di Melibeo, di Noori, di Yen, di Fabula, solo per citarne alcuni, dosando luci e ombre, trasparenze, silenzi e respiri.
Se i temi fondamentali si delineano già nella prima parte, caratterizzata soprattutto dal capitolo da cui il volume trae il titolo, sono i sei racconti che definiscono sostanzialente la seconda parte a costituire un autentico luogo di incontro fra autore e lettore: Egretus è il compimento, la pienezza, Itaca che si profila all’orizzonte. Non solo una meta ma la naturale conseguenza di un percorso, del desiderio per la vita e per la rivelazione che in essa si nasconde.
Antonio Messina indaga la naturale necessità alla vita attraverso la metafora, “Sono stato vento, antico pensiero, onda del mare e luce prossima al tramonto,…” : il desiderio è tattile, visivo, acustico, il desiderio è nelle cose, nell’ esistere stesso, nell’apprendere la convivenza con il dolore, come negli attimi di estrema bellezza che ci vengono regalati, a cui spesso restiamo lontani, “presi solo dall’effimero e dalla materia”.
Autentica prova d’autore Il Violoncello, racconto di forte intensità, in cui il principio del suono come musica, come percezione di vita, si sublima nell’accettazione dell’amore come forza inarginabile, come sintesi del concetto “diffidate dagli analisti dell’anima, e invece ascoltate l’istinto…”espresso pressochè in incipit al primo capitolo: ecco allora il mattino farsi davvero fulgido ed espressivo, gonfio di rugiada, di curiosità, del sorriso della sorpresa, di uno stupore quotidiano, intrinseco alla prosa stessa.
Dovremmo realmente accennare a questa operazione come stilisticamente improntata ad una fusione fra prosa e poesia: fusione non solo ‘formale’, bensì contenutistica, alla ricerca di una ‘misura personale’alla vita nell’intersezione fra pensiero, idea e concretezza, nel tentativo di afferrare, anche se di circostanza in circostanza, il panta rei, ‘i corsi e ricorsi’ individuali, la partenza e l’approdo al proprio Egretus.
Interessante e profondo viaggio oltre la superficie per carpirne l’essenza, nel tentativo di riappropriarsi di uno spazio che il Tempo non concede, che l’abitudine deframmenta e inasprisce: uno sguardo all’interno e interiore insieme, all’origine e dentro l’origine, dentro l’uomo e per l’uomo.
«L’incendio è la stagione/ delle tenebre bellissime/ avevi fatto in aria un incantesimo…» [1]: pellegrini, nudi, alla ricerca, soli,…ma vivi e vibranti, forse, un giorno, perfino in approdo al porto della felicità.


[1] Elegia, P. Conte.

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