(nota[1])
Se tutti gli economisti confrontassero le loro teorie,
non giungerebbero mai ad una conclusione.
George Bernard Shaw
L’economia si definisce, secondo una formula classica, come “lo studio del modo in cui una società, con risorse scarse e limitate, decide che cosa produrre, come, e per chi“[2], e come tutti i fenomeni umani, tende ad essere continuamente “regolata” da norme giuridiche, espressione delle scelte “politiche” degli Stati nazionali e Organizzazioni Internazionali di ogni livello, relative appunto a come indirizzare la produzione di beni e servizi, e redistribuire le risorse ottenute.
Il celebre economista inglese John Maynard Keynes, considerato da molti (anche se non tutti come vedremo oltre), il più importante macroeconomista[3] del XX secolo, con le sue teorie economiche ha influenzato profondamente la cultura politica, del diritto dell’economia, e l’opinione pubblica dei principali Paesi occidentali, nel corso di buona parte del 900[4].
La sua opera principale, ovvero la “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (The general theory of employment, interest and money, 1936), fu pubblicata nel mezzo della Grande crisi innescata dal crollo della Borsa valori di Wall Street del 1929, che sembrava dovesse mettere fine al sistema capitalistico[5]. La soluzione elaborata da Keynes, semplice e rivoluzionaria rispetto ai canoni dell’economia neoclassica[6], identificava l’insufficienza strutturale di investimenti come la causa fondamentale della recessione, limite a cui rispondere attraverso la spesa pubblica, anche in presenza di debito pubblico (deficit spending– sia pure in termini tali da non generare inflazione), spesa che fosse in grado di incrementare la produzione e l’occupazione. A suo giudizio, non ci si poteva aspettare che gli automatismi del mercato fossero in grado da soli di superare la depressione. Quanto alla copertura di questi investimenti, effettuati direttamente dallo Stato per sostituire la diminuzione di quelli privati, egli riteneva che i conti pubblici sarebbero tornati in sesto grazie alle maggiori entrate ottenute con la ripresa economica. Keynes proponeva, quindi, un intervento dello Stato che contribuisse a garantire il rilancio del sistema economico e dell’occupazione, nonché una ripartizione più equa dei redditi, privilegiando comunque gli investimenti “a redditività differita” (es. infrastrutture pubbliche, che producono utilità soltanto nel medio periodo), e relativi alle funzioni, per lo più, estranee al campo d’azione dei privati (es. spese militari, assistenza a categorie indigenti, contributi all’occupazione a fondo perduto ecc.). Ovviamente non occorreva essere di cultura “socialista” per concordare su questi obiettivi, come sulla loro naturale conseguenza, ossia la progressività delle imposte[7], tanto che queste teorie acquisirono un crescente consenso nel secondo dopoguerra, fra forze politiche sia liberal-democratiche che cristiano-democratiche[8].
Quella sorta di “età aurea” dell’economia occidentale, che si è prolungata per quasi trent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ha portato sostanzialmente l’impronta del keynesismo, in quanto si è caratterizzata per politiche governative volte ad assecondare, attraverso la leva fiscale e la spesa pubblica, l’espansione degli investimenti, la crescita della “domanda aggregata[9]” e il raggiungimento del pieno impiego.
I precetti dell’economista inglese ebbero anche il merito di contrastare efficacemente le teorie ortodosse del marxismo e del modello collettivista dei regimi comunisti, dato che essi si tradussero in un azione dei poteri pubblici a sostegno dei livelli della domanda e a stimolo della crescita della produttività, tanto da creare condizioni da rendere effettivo sia il principio del diritto al lavoro (per molti), che una maggiore equità distributiva, oltre che all’istituzione di nuove forme di protezione sociale. Così si spiega il largo successo del keynesismo fra quanti si proponevano di riformare il sistema capitalistico e coniugare democrazia economica e democrazia politica. Anche in Italia, in coincidenza con il boom degli anni ’60 e gli esordi politici del Centro-sinistra, crebbe il numero degli economisti keynesiani, sia pur di diverse tendenze, tanto che, da un’esigua pattuglia[10], essi divennero uno schieramento assolutamente maggioritario, giunto a coinvolgere alcuni studiosi neo-classici e post-marxisti.
Senonché quel che avvenne dalla prima metà degli anni ’70 del XX secolo, segnò il tramonto del keynesismo. Semplificando al massimo, il Dollaro subì diverse svalutazioni che provocarono fluttuazioni significative dei cambi fra le diverse valute, i costi del petrolio e di altre materie prime si impennarono, dunque i salari furono continuamente adeguati agli aumenti di prezzi dei beni di consumo la cui domanda cresceva costantemente in una affermata società del benessere e del consumismo, al contempo la spesa pubblica iniziò a dilatarsi eccessivamente. Si creò così una situazione inedita di stagflazione, quel fenomeno che indica la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti, su un determinato mercato, sia un aumento generale dei prezzi (inflazione), sia una mancanza di crescita dell’economia in termini reali (stagnazione economica). Precedentemente inflazione e stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente, tanto che la loro contemporanea presenza mise in crisi la teoria di Keynes; di fronte a questo circolo vizioso finì col prevalere un orientamento tendente a neutralizzare prioritariamente l’inflazione e ad assicurare la stabilità dei prezzi (con inevitabili effetti negativi su produzione e occupazione), attraverso l’attuazione di politiche di bilancio restrittive[11].
Da allora, in uno scenario segnato oltretutto dalla globalizzazione e dalla diminuita importanza degli Stati Nazionali, l’indirizzo di matrice keynesiana non ha tenuto più banco, anche se rimane tuttavia valido il leit-motiv che ispirava l’insegnamento di un grande liberale come Keynes, ovvero che si dovesse trovare il modo, ricercando e sperimentando all’occorrenza nuove soluzioni, di assicurare crescita economica e benessere collettivo, iniziativa individuale e uguaglianza sociale.
Venendo alla stretta attualità, in questi mesi America ed Europa stanno (economicamente) “affondando” insieme, scriveva alcuni giorni fa Gideon Rachman sul Financial Times. Per loro il problema è comune: hanno le finanze pubbliche fuori controllo e sistemi politici non funzionali per affrontare il problema. Parole forti? Eppure le classi dirigenti hanno rifiutato a lungo di guardare dentro la crisi, non avendo saputo apprenderne la lezione e cioè il fallimento del modello capitalistico fondato sui guadagni delle sole speculazioni finanziarie e non sull’economia del lavoro dell’uomo e della produzione, con l’aggravante dello stato della spesa pubblica e dei passivi di bilancio aumentati a dismisura.
Infatti, anche se oggi è prevalente una visione della politica economica più vicina alle idee del grande economista americano Milton Friedman, l’attitudine della classe politica ad espandere la spesa pubblica, anche a costo di mettere a repentaglio la stabilità monetaria, continua ad essere forte[12]. Friedman è stato un grande anticipatore, le sue tesi, sommariamente definite “monetariste, hanno avuto il pregio di minare alla base quella che era stata per decenni la giustificazione fondamentale alla crescita incontrollata della spesa pubblica, della fiscalità e soprattutto dei disavanzi pubblici, cioè una interpretazione semplificata, per non dire semplicistica, della teoria keynesiana. Friedman sosteneva che il controllo della quantità di moneta in circolazione è essenziale per garantire la stabilità monetaria e porre le condizioni per lo sviluppo. Una tesi indubbiamente scomoda, perché se si ammette che il “disavanzo pubblico” sia un motore di sviluppo, allora si offre ai politici una comodissima scappatoia per spendere, in modo da acquisire il consenso senza nemmeno preoccuparsi di come finanziare tali spese.
Anche gli artefici del Trattato di Maastricht hanno incluso nel Patto di stabilità l’idea appunto di tenere sotto controllo il disavanzo pubblico, che non deve superare una certa percentuale del PIL, altrimenti si rischiano l’instabilità monetaria, inflazione… o, ad esempio, attacchi finanziari speculativi (prevedibili), ai Paesi con situazioni di bilancio strutturalmente più deboli[13].
James Buchanan (premio Nobel per l’economia 1986) ha sostenuto che la peggior eredità lasciata da Keynes alla teoria economica, è la legittimazione dei disavanzi di bilancio, per cui i Governi potevano adottare una politica di spesa pur in presenza di debito (deficit) e di una fase di recessione, essendosi egli schierato contro l’ortodossia, ai suoi tempi dominante, che prevedeva una politica fiscale prudente, contraria all’accumulo di debito. Secondo Buchanan, le teorie di Keynes hanno consentito ai politici di spendere senza remore, senza l’obbligo di prevedere con apposite norme, maggiori imposte, o minori spese in altri ambiti più trascurabili del bilancio pubblico, necessarie a finanziare la spesa. Naturalmente Keynes non era affatto favorevole ad una spesa in deficit sconsiderata e senza condizioni; in realtà, egli scriveva ai tempi della Grande depressione, in una situazione in cui gli elevati livelli di disoccupazione e i prezzi in discesa rendevano minimi i rischi di inflazione legati ad un aumento del debito pubblico, in ogni caso lontano dalle proporzioni attuali.
Come spesso accade, tuttavia, questa matrice di cultura economica e politica, e conseguenti scelte normative statuali (dimostratesi assolutamente positive ed efficaci in determinate, recenti, epoche storiche[14]), ha certamente contribuito a legittimare una “tendenza” che ha condotto il sistema economico occidentale alle attuali condizioni critiche di pre-fallimento.
Auguriamoci che gli uomini con responsabilità pubbliche (ad ogni livello decisionale), sappiano arrestare, e farci uscire da quella spirale di spesa pubblica incontrollata, bilanci in passivo, paralisi produttiva, rallentamento dei consumi e conseguente disoccupazione generalizzata, che stanno rendendo il complesso meccanismo dell’economia internazionale non più sostenibile, situazione che nemmeno John Maynard Keynes avrebbe mai potuto concepire o accettare.
Del progresso fa parte anche la retromarcia.
Hellmut Walters
[1] Cfr. “Il fascino passato di Keynes” di Valerio Castronovo, articolo apparso su “Il Sole 24 ore” del 25 gennaio 2006, p.10.
[2] Cfr. S. Fischer, R. Dornbusch, R. Schmalensee, “Economia, Strumenti Microeconomia-Macroeconomia, Economia internazionale”, Seconda edizione, Hoepli-Milano 1996.
[3] La macroeconomia studia il sistema economico nel suo complesso; essa analizza le variabili economiche (prezzi, produzione, PIL, ecc.), aggregate e le loro interdipendenze. A differenza della microeconomia, che studia i comportamenti dei singoli operatori economici, la macroeconomia considera le interazioni tra macro-variabili (Famiglie, Imprese, Stato, resto del Mondo), ciascuna delle quali è il risultato della somma di singoli comportamenti individuali. Da Wikipedia, l’enciclopedia libera
[4] John Maynard Keynes, primo Barone Keynes di Tilton (Cambridge, 5 giugno 1883 – Tilton, 21 aprile 1946).
[5] “…Non furono posti limiti alle attività speculative delle banche e della borsa valori, dovute alla volontà da parte degli acquirenti di detenere titoli, non tanto per ottenere dividendi e dunque profitti, quanto per aumentare il proprio capitale. Si comperava per rivendere, senza preoccuparsi della qualità dei titoli: all’aumento della domanda dei titoli si accompagnò quella delle quotazioni. A tutto questo va aggiunta la responsabilità dei rappresentanti delle holding che detenevano portafogli d’azioni e che quindi avevano interesse che i corsi dei titoli si alzassero. Per spingere i risparmiatori all’acquisto dei titoli, questi effettuavano dichiarazioni troppo ottimistiche. L’aumento del valore delle azioni industriali, però, non corrispose a un effettivo aumento della produzione e della vendita di beni tanto che, dopo essere cresciuto artificiosamente per via della speculazione economica diffusasi a tutti i livelli in quegli anni, scese rapidamente e costrinse i possessori a una massiccia vendita, che provocò il crollo della borsa…” Da Wikipedia, l’enciclopedia libera
[6] Con la locuzione economia neoclassica, in economia, ci si riferisce ad un approccio generale alla materia basato sullo studio della determinazione di prezzi, produzione e reddito attraverso il modello di domanda e offerta.
[7] La progressività è una modalità di imposizione fiscale per cui l’aliquota aumenta all’aumentare dell’imponibile. In altre parole i cittadini che più guadagnano, si vedranno applicate percentuali (aliquote) più alte di tassazione. L’ordinamento italiano ha recepito il concetto nell’art.53 della Costituzione per cui: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
[8] Negli Stati Uniti il keynesismo divenne politica attiva nel 1960, quando le amministrazioni Kennedy e Johnson iniziarono (e poi perseguirono per molti anni) una politica fiscale espansiva, con forti tagli alle imposte ma contemporaneo forte aumento della spesa pubblica, dunque significativo aumento del debito pubblico.
[9] La domanda aggregata rappresenta la domanda di beni (strumentali e di consumo), e servizi espressa da un sistema economico nel suo complesso, in un certo periodo temporale.
[11] Una politica di bilancio di tipo restrittiva, comporta una riduzione delle spese pubbliche ed un aumento delle entrate. Viene attuata con l’obbiettivo di raggiungere il riequilibrio dei conti con l’estero, il risanamento dei conti pubblici, la stabilità monetaria e la lotta all’inflazione.
[12] Cfr. “Martino: “Per fortuna ha vinto Friedman”, intervista in calce all’articolo de “Il Sole 24 ore” citato in nota iniziale.
Milton Friedman (Brooklyn, 31 luglio 1912 – San Francisco, 16 novembre 2006) è stato un economista statunitense molto importante. Il suo pensiero ed i suoi studi hanno influenzato molte teorie economiche, soprattutto in campo monetario. Fondatore della scuola monetarista è stato insignito del Premio Nobel per l’economia nel 1976.
Liberista convinto, è stato più volte definito l’anti-Keynes, per il suo rifiuto verso qualsiasi intervento dello Stato nell’economia ed il suo sostegno convinto a favore del libero mercato e della politica del laissez-faire. Da Wikipedia, l’enciclopedia libera
[14] Le argomentazioni di Keynes, trovarono conferma nei risultati della politica del New Deal, varata negli stessi anni dal presidente Roosevelt negli Stati Uniti. La teoria macroeconomica keynesiana, con alcuni perfezionamenti, negli anni successivi giunge ad una serie di risultati di rilievo nelle politiche economiche statuali. Da Wikipedia, l’enciclopedia libera