Una legge sbagliata fa più danni di una guerra perduta.
Gaetano Filangeri
Il concetto del poter “giudicare una legge” non è mai stato storicamente del tutto scontato, nel senso che la più antica tradizione costituzionale europea, formatasi in Gran Bretagna fin dal XIII° secolo e sviluppatasi poi nella Francia post-rivoluzionaria[2], riconosce che anche le istituzioni statali sono soggette al diritto (è questa la definizione di “Stato di diritto”), e i Giudici ordinari (le Corti, i Tribunali), indipendenti dagli altri poteri, hanno avuto, fin dall’inizio di questa esperienza, la funzione di risolvere le controversie fra soggetti dell’ordinamento, applicando le regole giuridiche per ripristinarne l’osservanza in caso di violazione. D’altra parte queste “leggi” emanate dagli organi investiti del potere legislativo (i Parlamenti eletti a rappresentare la volontà popolare[3]), esprimono la volontà suprema dell’autorità dello Stato: il Parlamento nel deliberare le leggi, è assolutamente libero nel formularle, è in un certo senso “onnipotente”. In Europa, infatti, l’idea di superiorità della legge, espressione della sovranità dello Stato, o del Popolo rappresentato dal Parlamento (erede degli antichi sovrani assoluti, il cui potere non conosceva limiti giuridici), rese per lungo tempo difficile accettare che un organo, esterno rispetto al legislatore, potesse controllare le leggi e negare obbedienza a quelle contrarie alla norma fondamentale dello Stato, alla sua “Costituzione” [4]. In Italia, durante il periodo monarchico lo “Statuto Albertino”, che conteneva le norme fondamentali sul funzionamento dello Stato e i diritti e doveri dei cittadini, non si distingueva dalle altre leggi ordinarie, le quali potevano modificarlo, anche radicalmente, come avvenuto durante il periodo fascista, con conseguenti gravi restrizioni alle libertà dei cittadini[5]. Per evitare che ciò si ripetesse, con l’avvento della Repubblica (1946), l’Italia si dotò di una Costituzione di tipo “rigido”, con una forza “superlegislativa”, così che le leggi “ordinarie” non potessero modificarla né derogare ad essa, attribuiendo a diritti e doveri degli individui e alle altre regole, che assicurano l’equilibrio fra i poteri, la massima resistenza nei confronti delle leggi ordinarie del Parlamento[6]. A questa scelta di fondo, l’Assemblea Costituente (organo eletto a suffragio universale il 2 giugno 1946, con il compito di scrivere la nuova Costituzione nel biennio 1946-1947), fece seguire la coerente previsione di una Corte Costituzionale: “Istituto nuovo è la Corte costituzionale; e scarsi ne sono i precedenti e le prove: così che non è facile risolvere i suoi problemi. Non è stata accolta l’idea di affidare un controllo di costituzionalità, che è giurisdizionale, ma su materie anche politiche, alla magistratura ordinaria. È sembrato opportuno un organo speciale e più alto, come custode supremo della costituzione. Ed ecco il triplice problema dei compiti, della composizione, del funzionamento. Si è ritenuto di riunire al sindacato di costituzionalità la risoluzione dei conflitti di attribuzione ed il giudizio sul Presidente della Repubblica e sui Ministri accusati dal Parlamento”[7].
Dunque, in generale si ritenne che ad effettuare questo controllo non fossero adatti i normali organi giudiziari, abituati ad applicare le leggi piuttosto che a giudicarle, in quanto formati esclusivamente da magistrati di carriera, ritenuti non rappresentativi e privi della necessaria sensibilità politica: molte norme della Carta sono generiche (generali e astratte), e applicare la Costituzione non è mai un’operazione soltanto tecnico-giuridica (neanche applicare le leggi, sovente, lo è, ma nel caso della Costituzione lo è in misura maggiore); nella stessa logica il controllo non poteva nemmeno essere affidato al Parlamento, autore delle norme: il controllato non dovrebbe essere anche il controllore di se stesso. Di qui la soluzione di creare un apposito Tribunale o Corte, operante come giudice, formato da persone tecnicamente competenti, scelte appositamente per tale funzione dal Parlamento o da altre supreme istituzioni statali, non revocabili sino al termine del loro mandato (generalmente di media/lunga durata per assicurare continuità negli indirizzi giurisprudenziali), e indipendenti dai poteri propriamente politici[8]. A questa funzione fondamentale di “Giudice delle Leggi” se ne sono aggiunte altre, tutte in genere accomunate dallo scopo di meglio assicurare l’osservanza delle norme costituzionali e il corretto funzionamento delle istituzioni dello Stato[9].
L’art.134 della Carta fondamentale delinea, appunto, le funzioni della Corte fra le “garanzie costituzionali”: “La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni; sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica [ed i Ministri], a norma della Costituzione[10]”.
La “Consulta”[11], dunque, ha come suo primo, e storicamente più importante, compito quello di controllare la costituzionalità delle leggi, sia in senso “formale” (pieno rispetto delle procedure di formazione dell’atto), sia “sostanziale” (contenuto conforme ai principi costituzionali): atti legislativi come leggi dello Stato, ma anche Decreti legislativi delegati (deliberati dal Governo su delega delle Camere) e Decreti-Legge (adottati in via d’urgenza dal Governo e sottoposti alla conversione in legge da parte delle Camere)[12]. E’ significativo specificare che la giurisprudenza della Corte ha aggiunto, fra gli atti controllabili, anche le leggi di revisione costituzionale e le altre “leggi costituzionali” ex art. 138 Cost.; in altri termini la Corte ha affermato, in diverse sentenze, di poter sindacare anche le modifiche che il Parlamento introduce nella Carta fondamentale, quella che dovrebbe rimanere il “parametro” di riferimento nei suoi giudizi: in questi casi, però, il vizio che potrebbe essere segnalato dalla Corte non sarebbe la contrarietà delle nuove norme ad altre disposizioni costituzionali, ma la contrarietà ai soli principi supremi dell’ordinamento costituzionale (es. se venisse introdotto un particolare istituto palesemente non democratico), e diritti inviolabili della persona umana, che costituiscono limiti invalicabili per la stesso legislatore costituzionale.
I “conflitti di attribuzione” che la Corte è chiamata a decidere sono i conflitti che sorgono “fra poteri dello Stato”, quando cioè, un’istituzione ritiene che le attribuzioni che la Costituzione le assegna siano state violate da un altro potere dello Stato. Sono conflitti che prima della Costituzione non avevano soluzioni giudiziarie, ma erano rimessi agli accordi o ai rapporti di forza politici. Poiché la Carta ha inteso comunque assicurare una garanzia di applicazione imparziale delle norme sulle competenze ad opera di un organo “arbitrale”, anche queste controversie, che hanno riguardo alla separazione dei poteri, sono state demandate alla Giustizia Costituzionale. E’ accaduto che sorga conflitto, ad esempio, tra un organo giudiziario e una Camera parlamentare, a proposito dell’applicazione di un’immunità garantita ai parlamentari dalla Costituzione, tra il Ministro della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura a proposito dei rispettivi poteri riguardanti i magistrati, fra il Governo e un Pubblico Ministero a proposito dell’applicazione del segreto di Stato, fra un Ministro e la Camera parlamentare che abbia votato una mozione di sfiducia nei suoi confronti, fra i promotori di un referendum abrogativo e l’Ufficio della Corte di Cassazione che controlla la regolarità delle procedure referendarie, ecc.[13]
Anche rispetto al giudizio sui reati presidenziali si coglie un profilo di politicità. Infatti l’eventuale commissione dei reati in esame (alto tradimento ed attentato alla Costituzione, v. art. 90 Cost.) comporta una ferita all’ordinamento talmente grave da essere in grado di destabilizzarlo[14].
La Corte Costituzionale è composta da quindici giudici (art. 135, co. 1, Cost.), per un terzo nominati dal Presidente della Repubblica, per un altro terzo eletti dal Parlamento in seduta comune e per il rimanente terzo eletti dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative: più precisamente, secondo la l. n. 87/1953, tre sono eletti dalla Corte di Cassazione (organo supremo della magistratura ordinaria), uno dal Consiglio di Stato (organo supremo della magistratura amministrativa) e uno dalla Corte dei Conti (organo supremo della magistratura contabile). Il sistema di nomina è frutto di un equilibrio delicato, perché cerca di armonizzare fra loro diverse esigenze: assicurare che i Giudici siano il più possibile imparziali e indipendenti, garantire il necessario livello di competenza tecnico-giuridica, portare nella Corte varie competenze ed esperienze, diverse culture e sensibilità, ma non estranee e scollegate rispetto a quelle presenti nelle istituzioni politiche[15]. La composizione della Corte, dal punto di vista della provenienza dei Giudici, mette in evidenza il rapporto sia con le istituzioni politiche sia con le magistrature: sembra quasi che la Corte si disponga come un ponte di collegamento tra questi due versanti istituzionali dello Stato[16]. Ogni Giudice è nominato per un mandato di nove anni, e non è rieleggibile né prorogabile: alla scadenza, va a riposo o rientra, se ne ha ancora i requisiti, nella precedente posizione professionale[17]. La lunghezza del mandato (originariamente di dodici anni, ridotto a nove da una riforma del 1967) è superiore a quella di ogni altro mandato elettivo previsto dalla Costituzione (le Camere sono elette per cinque anni, il Governo dura al massimo una legislatura, cioè cinque anni, il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni): si tende così ad assicurare l’indipendenza dei Giudici, anche dagli organi politici che designano una parte di essi[18]. Una caratteristica essenziale della Corte Costituzionale è quella di essere un organo “collegiale”: le sue decisioni non sono prese da una né da poche persone, ma sempre dal collegio, cioè dall’insieme dei Giudici (da undici – numero minimo richiesto perché la Corte possa deliberare – a quindici, il totale dei membri).
Uno dei problemi più discussi sulla funzione della Consulta quale giudice delle leggi, è stato quello della “via di accesso” al giudizio: come in genere ogni giudice, la Corte non può decidere autonomamente di quali questioni occuparsi: occorre che qualcuno la investa proponendo un ricorso o sottoponendole un dubbio. Due sono le modalità di accesso alla Corte costituzionale: il giudizio in via incidentale e il giudizio in via principale o diretta[19]. La scelta fondamentale che fece l’Assemblea Costituente fu quella di escludere che le norme potessero essere direttamente impugnate davanti alla Corte a opera di qualunque soggetto, e di prevedere che i dubbi di costituzionalità delle leggi possano essere sollevati solo in occasione della loro applicazione da parte dei Giudici comuni (ordinari e speciali): quando cioè un Giudice – qualsiasi autorità giudiziaria (dal Giudice di Pace di un piccolo centro, o da una commissione tributaria provinciale fino alla Corte di Cassazione, e perfino gli arbitri rituali – giudici privati scelti con contratto formale dai privati), si trovi a dover risolvere una controversia, per decidere la quale dovrebbe applicare una norma di legge, e dubiti della conformità di questa norma alla Costituzione, egli ha il potere (e dovere) di investire la Corte Costituzionale della relativa questione[20]. Le vie di accesso alla Corte sono, dunque, tante quanti sono i Giudici comuni, di qualunque grado. Si può dire, in sintesi, che nessun Giudice è obbligato ad applicare una legge della cui “costituzionalità” egli dubiti, ma che solo la Corte Costituzionale può liberarlo definitivamente dal vincolo, dichiarando l’incostituzionalità della legge, permettendogli così di decidere la causa senza tener conto della norma viziata.
Aspetto interessante riguarda l’effetto delle Sentenze della Corte, che viene “essenzialmente” stabilito dall’art. 136, I comma, della Costituzione: “Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Le decisioni possono avere la forma dell’ordinanza o della sentenza. La Consulta adotta una sentenza quando giudica in via definitiva, mentre utilizza un’ordinanza per tutti gli altri provvedimenti di sua competenza (l. n. 87/1953). Le sentenze possono essere, oltre che di inammissibilità, di accoglimento o di rigetto: in particolare, con quelle di accoglimento la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata, mentre con quelle di rigetto dichiara infondate le questioni sottoposte al suo esame. Le sentenze di accoglimento hanno efficacia erga omnes (generale) e producono effetti retroattivi assimilabili a quelli dell’annullamento/abrogazione, mentre le sentenze di rigetto hanno efficacia soltanto inter partes, producendo effetti giuridici vincolanti soltanto per il giudizio a quo. Tuttavia, la Sentenza che dichiara l’incostituzionalità di una norma non deve essere “eseguita” dal Governo o dal Parlamento: essa non crea un obbligo del legislatore a provvedere sostituendo la disposizione annullata: la norma dichiarata incostituzionale viene semplicemente cancellata dall’ordinamento. Vi sono stati casi in cui il Parlamento, a seguito di una sentenza di incostituzionalità, ha riadattato una norma pressoché identica, pur dichiarandone la provvisorietà: la Corte ha dichiarato ancora l’illegittimità della successiva norma. Ciò per dire che il legislatore è assai spesso poco sensibile per non dire indifferente all’attività della Corte e alle sue pronunce. Del resto queste non incidono sulla sua discrezionalità politica e, per così dire, sovrana. Lo stesso legislatore ha voluto esplicitamente inserire, art.28 L.87/1953, il principio che il controllo della Corte su una legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento[21].
Più rari, anche se di maggiore risonanza, sono i casi in cui il Parlamento fa una scelta legislativa discutibile e controversa, e su di essa viene provocato da qualche Giudice, chiamato ad applicarla, il controllo di costituzionalità della Corte. È allora che si deve trovare il delicato equilibrio fra il ruolo di controllo della Consulta (che deve garantire l’osservanza dei princìpi costituzionali, anche contro la maggioranza parlamentare) e il rispetto del diritto del legislatore di fare le scelte politiche che ritiene più utili al Paese, e che la Corte non ha il potere di ostacolare anche qualora, in ipotesi, le considerasse inopportune. La Corte non è una terza istanza legislativa, a cui si possa fare ricorso per contestare o modificare, con una valutazione politica di opportunità, le scelte fatte dai rappresentanti eletti in Parlamento. Essa sta a guardia dei “confini”. Se il legislatore resta entro i confini della Costituzione (e i princìpi costituzionali lasciano grande spazio alle scelte del legislatore), la Corte non ha alcun potere di censurarne le valutazioni. Se però il legislatore supera questi confini, spetta alla Corte censurare la legge o ricondurla (fornendo l’interpretazione corretta) entro di essi, per impedire che la Costituzione venga violata.
La Corte è stata recentemente accusata di non tener conto, con le proprie più recenti Sentenze, delle necessità di “sostenibilità finanziaria” nel bilancio pubblico del nostro Paese, anche in relazione all’inserimento del principio “dell’equilibrio fra entrate e spese” nell’art.81 della Costituzione[22]; in realtà occorre condividere l’opinione per cui la Corte, negli ultimi anni, non ha fatto altro che evidenziare gli attuali, e passati, enormi limiti nella capacità normativa e nella cultura politico-istituzionale del potere legislativo ed esecutivo, che spesso è stato autore o ispiratore di provvedimenti legislativi frettolosi, mal scritti, in ogni caso dimostratisi poco efficaci nel cercare di tamponare emergenze annose e prevedibili, oltre che lesivi di diritti individuali o collettivi riconosciuti dalla Carta fondamentale.
Non abbiamo l’ultima parola perché siamo infallibili,
ma siamo infallibili perché abbiamo l’ultima parola.
James Jackson
(Giudice Corte Suprema U.S.A.)
[1] Nell’immagine la “Sala delle Udienze” del Palazzo della Consulta in Roma, sede della Corte Costituzionale.
[2] Vedi Alberto Monari: Kultunderground n. 239-GIUGNO 2015, “15 giugno 1215: Magna Charta”, rubrica Diritto.
[3] Ricordiamo che nelle isole britanniche (e in ogni luogo del mondo in cui l’Impero inglese ha imposto il proprio ordinamento giuridico), le norme di diritto civile e penale sono derivate dalla tradizione non scritta che si fissa in consuetudini dichiarate e applicate dai Magistrati (c.d. Common Law). Vedi Alberto Monari: Kultunderground n. 233-DICEMBRE 2014, “The Trust”, rubrica Diritto.
[4] Cfr. il volumetto “Che cosa è la Corte Costituzionale”, pubblicazione curata nel 2002 dal Giudice Valerio Onida e, successivamente, aggiornato dal Giudice Gaetano Silvestri, liberamente scaricabile dal sito ufficiale della Corte: www.cortecostituzionale.it .
[6] Altro aspetto riguarda la possibilità per il Parlamento di modificare questo “parametro”, tendenzialmente stabile, rappresentato dalle norme della Costituzione; per far ciò è necessario seguire uno speciale procedimento legislativo, più complesso rispetto a quello ordinario, previsto, come noto, dall’art.138 della Costituzione.
[7] Dalla relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione (c.d. Commissione dei 70), Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana, 1947.
[8] Nel caso della Corte Costituzionale italiana, se un Giudice cessa dal mandato anticipatamente, per morte o dimissioni o decadenza (quest’ultima può essere disposta solo dalla stessa Corte nel caso di gravissime mancanze, ma non è mai accaduto), viene sostituito ad opera dello stesso organo che aveva designato il suo predecessore, e dura in carica per il mandato di nove anni. In tal modo, essendosi nel tempo sfasate fra loro le date delle nomine dei singoli Giudici, il cambiamento della composizione della Corte è sempre parziale e graduale (al massimo vengono nominati contemporaneamente due o tre giudici), e non c’è mai una brusca cesura fra una composizione ed un’altra; sicché la “giurisprudenza” della Corte (cioè gli orientamenti che stanno a base delle sue decisioni) può sì modificarsi, ma nell’ambito di una fondamentale continuità.
[9] La Corte, istituita e regolata nelle sue funzioni fondamentali dagli art.134-137 Costituzione, entrò in funzione solo nel 1955, ben 7 anni dopo l’entrata in vigore della Carta (1/01/1948). Quest’ultima, infatti, ha rinviato a successive Leggi Costituzionali (legge con ugual rango della Carta fondamentale), e ordinarie l’ulteriore disciplina delle sue attività. Nel febbraio 1948 la stessa Assemblea Costituente (prorogata di due mesi), approvò la Legge Costituzionale n.1/1948 che stabilisce chi e come può ricorrere alla Corte. Si dovettero attendere però 5 anni perché venissero approvate la Legge Costituzionale n.1/1953 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale) e la Legge Ordinaria n.87/1953 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), che completarono l’ordinamento della Corte. Nel 1953 cadde la scadenza della prima legislatura e, dopo le elezioni, le nuove Camere ebbero difficoltà per eleggere i 5 componenti della Corte di propria competenza. Solo nel 1955 fu completata la prima composizione della Corte, che si insediò nel Palazzo della Consulta e poté darsi anche le ultime norme regolamentari per il suo concreto funzionamento. La prima sentenza risale al 5 giugno 1956, il primo Presidente fu il Giudice Enrico De Nicola, già Capo provvisorio dello Stato e primo Presidente della Repubblica dal 1946 al 1948.
[10] Costituzione – Parte II – Ordinamento della repubblica – Titolo VI – Garanzie costituzionali (artt. 134-139). Il riferimento ai Ministri è stato eliminato dalla L.Cost. 16 gennaio 1989, n. 1. Prima della riforma la Corte si occupava dei reati ministeriali previa messa in stato di accusa da parte del Parlamento che però, puntualmente, non giungeva. Di fatto l’organo legislativo proteggeva i propri componenti (quasi sempre i Ministri sono stati anche componenti di una delle Camere), sottraendoli al giudizio. Ciò comportava un indubbio privilegio visto negativamente anche dai comuni cittadini. Oggi i Ministri sono soggetti alla giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art. 96 della Costituzione.
[11] La Corte viene spesso indicata con questo nome, avendo essa sede nel Palazzo della Consulta in Roma, in Piazza del Quirinale. Costruito fra il 1732 e il 1737 (arch. Ferdinando Fuga), qui aveva sede il “Tribunale della Sacra Consulta”, organo della giurisdizione pontificia civile e penale, poi prefettura nel periodo napoleonico, poi residenza del Principe Umberto di Savoia dopo il 1870, poi sede del Ministero degli Esteri, poi del Ministero delle Colonie. Dal 1955, il Palazzo è divenuto sede definitiva della Corte Costituzionale (art.1 Legge 265/1958). La Corte dispone di un bilancio autonomo alimentato da fondi provenienti dal Bilancio dello stato (52,7 milioni di euro per il 2012); le spese sono autonomamente decise dalla Corte stessa senza alcuna interferenza esterna nemmeno ai fini di controllo.
[12] Ed anche leggi delle Regioni e delle Province autonome, le quali, nel nostro sistema costituzionale, dispongono di una propria potestà legislativa. Non sono invece soggetti al controllo della Corte gli atti normativi subordinati alla legge, come i regolamenti: tali atti sono soggetti al controllo di legittimità (cioè della loro conformità alla legge) svolto dai Giudici comuni. Poiché la legge deve essere conforme alla Costituzione e i regolamenti devono essere conformi alla legge, anche questi ultimi risulteranno di conseguenza conformi alla Costituzione, senza bisogno di controllo specifico della Corte.
[13] Persino la Corte Costituzionale può entrare in conflitto con un altro organo, quando sono contestate le sue stesse attribuzioni: in questo caso, mancando un “arbitro” terzo, la Corte Costituzionale assume contemporaneamente il ruolo di parte e di giudice del conflitto.
[14] Costituzione – Parte II – Ordinamento della repubblica – Titolo II – Il presidente della repubblica (artt. 83-91)
“Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.
In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”.
La disciplina in questione è dettata dalla L. Cost. 16 gennaio 1989, n. 1, dalla l. 5 giugno 1989, n. 219 e da un regolamento parlamentare del 1989. Sinteticamente, il procedimento si articola in due fasi. Nella fase parlamentare si susseguono un’attività istruttoria, che prende avvio da un comitato apposito su istanza di chiunque o d’ufficio, ed una deliberazione. In caso di messa in stato di accusa può esservi anche la sospensione cautelare dalla carica. La fase strettamente giurisdizionale si svolge dinanzi la Corte Costituzionale in composizione integrata (con 16 Giudici popolari) e consta di un’attività istruttoria, del dibattimento e della decisione finale. Avverso la pronuncia non sono ammesse impugnazioni salvo una eventuale revisione ad opera della Corte stessa.
[15] I Giudici devono essere scelti tutti fra ristrette categorie di tecnici del diritto con elevata preparazione: magistrati, in servizio o a riposo, provenienti dalle “supreme magistrature”, professori universitari ordinari di materie giuridiche, avvocati con una esperienza di almeno vent’anni di esercizio della professione. Non c’è alcun limite minimo né massimo di età.
[16] Cfr. Giorgio Berti: “Interpretazione costituzionale”, seconda edizione, CEDAM Padova 1990, pp.606 e ss.
[17] I Giudici godono di uno stipendio commisurato per legge al trattamento economico del primo Presidente della Corte di Cassazione, il Magistrato di carriera di livello più elevato (attualmente circa 400.000 euro all’anno). L’esercizio del mandato di Giudice Costituzionale è incompatibile con qualsiasi altra attività: coloro che erano magistrati o professori universitari (se non sono già a riposo) sono collocati “fuori ruolo”; coloro che erano avvocati non possono esercitare, durante il mandato, la professione né mantenere l’iscrizione nei relativi albi. È preclusa qualsiasi altra attività retribuita, salvi restando solo i diritti per le opere dell’ingegno (diritti d’autore).
[18] I Giudici provenienti dalle magistrature sono portatori di qualificate esperienze giudiziarie e sono sganciati dalle scelte degli organi politici. I Giudici di nomina parlamentare (scelti per lo più tra professori e avvocati, ma anche fra magistrati) possono più facilmente essere portatori di esperienze e di sensibilità presenti nelle assemblee rappresentative (spesso hanno anche alle spalle un’attività parlamentare), ma l’elevato numero di voti richiesto per l’elezione fa sì che non sia la sola maggioranza a sceglierli: normalmente intervengono accordi fra le forze politiche presenti in Parlamento, per cui i Giudici eletti sono sì indicati, ciascuno, da forze parlamentari diverse, di maggioranza e di opposizione, ma sono accettati e votati dalle une e dalle altre. Non è raro che il raggiungimento degli accordi e del consenso necessari richieda molto tempo e molte votazioni: è per questo che, quando nuovi giudici devono essere eletti dal Parlamento, accade che l’elezione ritardi, e nel frattempo la Corte continui a funzionare a ranghi ridotti. I cinque Giudici nominati dal Capo dello Stato sono scelti normalmente in funzione di integrazione o di equilibrio rispetto alle scelte effettuate dal Parlamento, in modo tale che la Corte Costituzionale sia lo specchio fedele del pluralismo politico, giuridico e culturale del Paese.
[19] Per quanto riguarda il giudizio in via principale, esso può essere promosso dal Governo quando esso ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione o quando una Regione ritenga che una legge o un atto aventi forza di legge dello Stato (o una legge di un’altra Regione) leda la sua sfera di competenza (art. 127 Cost.; l. cost. n. 1/1948; l. n. 87/1953).
[20] Il ricorso “incidentale”, non previsto direttamente nel testo costituzionale, fu adottato con la LEGGE COSTITUZIONALE 9 febbraio 1948, n. 1 “Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte Costituzionale. – (Gazzetta Ufficiale 20 febbraio 1948, n. 43).
[21] Anche se il legislatore dovrebbe perlomeno tener conto degli indirizzi interpretativi della Corte nella sua attività legislativa. Berti, op. cit. pp.614.
[22] Ci si riferisce a Sentenze, come quella che ha dichiarato l’illegittimità del blocco della rivalutazione dei trattamenti pensionistici (n.70/2015 del 10/03/2015 depositata il 30/04/2015), e di quella che ha dichiarato l’illegittimità della normativa che ha “congelato” i trattamenti economici percepiti dai dipendenti pubblici e che “blocca” la contrattazione collettiva e la possibilità di concordare aumenti retributivi per i gli stessi (n.178/2015 del 24706/2015 depositata 1l 23/07/2015). Cfr. anche Alberto Monari, Kultunderground n. 203-GIUGNO 2012: “Art.81: ma è proprio pareggio?”, rubrica Diritto.
Alberto Monari, (Carpi, 28 giugno 1971), si è laureato in Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e si è specializzato in Diritto, Economia e Politica delle Comunità Europee presso il Collegio Europeo di Parma. Ha lavorato per associazioni di categoria, enti pubblici, aziende private e studi di consulenza sia in Italia che all’estero, sempre come esperto nel settore delle politiche e del diritto comunitario. Dal 2005 è Funzionario Ufficiale Giudiziario, fino al 2016 presso il Tribunale di Piacenza, attualmente presso il Tribunale di Modena. E’ appassionato di Storia, Politica, Arte antica e Internet. Collabora con Kult fin dal 3° numero (dicembre 1994).
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