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Il mangiatore di pietre

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Il mangiatore di pietre

(Davide Longo – Marcos y Marcos)

 

 

Davide Longo, di cui non si può non ricordare Un mattino a Irgalem, premiato nel 2001 con il Grinzane Cavour, ambienta Il mangiatore di pietre nella piemontese Val Varaita, in cui serpeggia il sogno di evadere da paesi di montagna, che, per la struttura morfologica, e non solo, ristagnano nell’immobilismo culturale, tenacemente  avversi, come sono, ad ogni cambiamento e gelosi conservatori di tradizioni e valori che si tramandano di padre in figlio, ma anche trasversalmente.. Sergio, però, decide di lasciare suo padre, rozzo mulattiere, per raggiungere la madre a Marsiglia, città di mare, aperta a nuove culture, grazie, soprattutto, ai traffici commerciali; come non ricordare il giovane ‘Ntoni de I Malavoglia del Verga?

 I passeurs, esploratori coraggiosi, molto richiesti e ben pagati, legati da antichi codici d’onore, facevano superare ai clandestini e alla merce di contrabbando (sale, tabacco, acciughe) la linea di confine tra l’Italia e la Francia, attraverso le Alpi. Longo ci apre così ad una tematica di ampio respiro: il confine, linea reale (un recinto, le mura di una città, il muro di Berlino, ecc.) o convenzionale (tra regioni, tra Stati, ecc.) o culturale, nel senso più ampio del termine, che separa, in ogni caso, ciò che è tendenzialmente differente, di contro alla globalizzazione di questi ultimi anni. Superare la linea di confine è, ed è sempre stata, meta di clandestini speranzosi in una vita migliore.

 Lo scrittore colloca la storia alla fine del ‘900, sebbene dia l’impressione che si tratti  di un tempo un po’ più lontano, e riesce a cogliere il  passaggio lentissimo dal vecchio al nuovo, “Niente principi, niente odio, niente memoria: questo è il mondo che viene” e il rapporto conflittuale onnipresente tra padre e figlio, in un mondo che comunque è soggetto al cambiamento.

 La vita dei personaggi, che, con i loro dialoghi brevi e sincopati, ci danno l’impressione di non volerci svelare la verità dei fatti e non voler dire niente di più di quello che è necessario, scorre cupa e silenziosa verso la morte che ne è parte integrante, sofferente come “la luce triste negli occhi…, Era lo sguardo di chi non sapeva sciogliere in bocca quelle pietre“. Così è per Cesare, ex passeur:; personaggio principale, soprannominato il “Francese” per la fanciullezza trascorsa a Marsiglia, trova, in un torrente, il corpo senza vita del suo figlioccio Fausto, passeur come lui; contemporaneamente alla polizia indaga, però, in un’altra direzione.

  Eppure, tra tanta fatalistica accettazione della durezza del vivere e della morte, scorgiamo qualche virgulto di speranza e di ottimismo, nella presenza di bambini tra i clandestini e nella nascita di un vitellino, per esempio. E’ una narrazione solo apparentemente discontinua, ben distribuita nelle sue parti, equilibrata tra momenti descrittivi e brevità dei dialoghi.  L’uso del dialetto francofono e la sua naturale coesistenza con l’italiano e le altre realtà linguistiche regionali sono indispensabile chiave per comprendere questo mondo particolare; l’estrema espressività ed essenzialità, il linguaggio disadorno e realistico rimandano, rispettivamente, alle lezioni di Fenoglio e di Pavese. E’ un romanzo a immagini, tra luci ed ombre, che si fa assaporare prima e gustare pienamente poi, che ci appassiona, che dispensa giusta luce su un mondo fatto di dignitosa solitudine, di eroici silenzi, di nobile accettazione della morte, di romanticismo avventuroso, di altruismo virilmente taciuto, che rivela un profondo amore e un’accorata nostalgia dell’autore di una vita sostanziata di forti valenze esistenziali..

 Longo ci tratteggia una severa etica del dovere e una rigorosa morale di vita e, nello stesso tempo, sembra chiederci di ridere, anche noi, come il protagonista de Il mangiatore di pietre, “del dolore che la vita chiede per continuare“.


Simonetta De Bartolo

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