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Rosetta

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ROSETTA

L’edizione 1999 del festival fiorentino France Cinéma (a cui auguriamo lunga vita) ha presentato in anteprima, al termine della consueta panoramica sulle ultime produzioni cinematografiche francesi, il film (franco-belga) Rosetta, dei fratelli Luc e Jean Pierre Dardenne1, che ha vinto a sorpresa l’ultimo festival di Cannes: una delle migliori provocazioni di David Cronenberg, presidente di quella giuria che, mentre la Nato bombardava umanitariamente Kossovo e Serbia, ha inteso in tal modo assestare un colpo a tutti coloro che preferivano ignorare l’insopportabile disagio del reale (vedi anche l’ultimo suo film eXistenZ).
Rosetta è diventato in seguito una specie di manifesto su cui discutere, appassionarsi e prendere posizione: un piano del governo belga per combattere l’esclusione sociale prende addirittura il nome proprio dalla protagonista del film.
Chi è Rosetta2? Non sappiamo quasi nulla di lei, tranne che vive con la madre alcolizzata in un campeggio alla periferia di Liegi. I registi (che con i loro precedenti lavori, avevano già documentato il passato e il presente con spirito militante) decidono di non raccontare il personaggio, ma di individuarne i movimenti essenziali. Rosetta non ha cognome, potrebbe essere figlia di immigrati italiani, rappresenta tutti gli uomini e le donne che lottano per un’esistenza dignitosa.
La vediamo compiere ogni giorno lo stesso percorso per recarsi in città e tornare a casa (?): superare una recinzione, cambiarsi le scarpe, attraversare pericolosamente un’autostrada in mezzo alle macchine, con la cinepresa sempre incollata alle spalle. Emilie Duquenne, la protagonista, è stata allenata per settimane a ripetere meccanicamente i gesti di Rosetta, guerriera che non si da mai per vinta, riparte sempre all’attacco.
La sua richiesta è essenziale: un lavoro, una casa decente, un rapporto umano fatto di calore e amicizia. Le sue reazioni sono istintive: non accetta di perdere il lavoro, si aggrappa agli oggetti e agli strumenti che lo rappresentano; è ferita e ferisce anche chi le si avvicina con buone intenzioni; tradisce la fiducia dell’unica persona amica pur di ottenere un lavoro, a cui però poi rinuncia per un sentimento di vergogna, che la spinge a tentare il suicidio. Solo alla fine, Rosetta sembra aprirsi alla mano che le viene nuovamente tesa.
Il montaggio non lascia tregua, ci sentiamo a disagio perché non abbiamo tempo per rifiatare; soltanto i suoni dell’ambiente sono incisi nella colonna sonora, nessuna musica ci consola.
Uno dei riferimenti citati dai registi (oltre a La febbre dell’oro di Chaplin, per il tono da grande storia popolare) è quello de Il castello di Kafka, dove il protagonista non riesce ad accedere al castello, è sempre rifiutato; così accade a Rosetta, che si ostina a chiedere qualcosa, il lavoro, che le permetterebbe di acquisire dei diritti, un’identità nella società, di essere accettata come tutti gli altri, di avere una vita normale. Il lavoro, iscritto come diritto in tante carte costituzionali, è diventato un bene così prezioso che per averlo si è costretti a strapparlo ad un altro, a qualsiasi costo.


Paolo Baldi

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Li vedete sullo sfondo.

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