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La divisione del lavoro

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La divisione del lavoro

Cosa sarebbe avvenuto una volta successo quello che in molti temevamo sul serio? Come ci saremmo potuti preparare anzitempo? Di questo si dibatteva tra noi, sparsi, quando ciò accadde.
"Ci occorre uno che sappia come far funzionare quest’aggeggio."
"Non è impresa facile. Fino a che lui non riesca ad attivare la rete di comunicazione non possiamo sapere se nelle nostre vicinanze c’è qualche altro gruppo di persone che dispone di un esperto in circuiti elettrici."
"Quanto tempo ci metterà?"
"Non lo so. Ha già fatto miracoli per assicurarci l’acqua. Considera che prima era un professore di Diritto Romano."
"Insegnava Latino ai ragazzi?"
"Già."
"E che cazzo ci facevano con il Diritto Latino anche allora? Non era meglio che avessero imparato a far funzionare una maledetta lampadina?!"
"Ci siamo battuti invano per questo, non ricordi? Ora non serve più a niente rivangare il passato. Abbiamo avuto ragione, si è verificato ed ora dobbiamo improvvisare per sopravvivere."
Fantascienza. Ho conosciuto specialisti chirurghi capaci di estirpare con la precisione di un certosino, masse tumorali, in parti del corpo umano difficili solo da pronunciare senza che avessero la più pallida idea di come funzionava un motore a scoppio. Ho avuto notizia di ingegneri informatici alle prese con l’efficienza di sofisticatissimi sistemi di controllo che non sanno aggiustare una lavatrice e nemmeno un rubinetto dell’acqua che perde dentro casa. Fenomeni normali della specializzazione. Ho avuto modo di discutere di questi argomenti con un professore di letteratura francese che conosceva a memoria il ciclo completo di Proust, ma mi confessava trovarsi, davvero a disagio, su temi come la composizione chimica del cemento armato, le fibre ottiche, la matematica applicata alla tecnologia di base, il meccanismo di un orologio. L’ultimo mese aveva ottenuto un importante riconoscimento accademico. Io stesso, nonostante tutta una serie di nozioni, mi trovo imbarazzato, ad immaginarmi, alle prese con problemi decisamente inglobati nel modello di vita propostomi dalla società in cui vivo. Io non saprei come ricavare il sapone in natura, se un giorno, mi trovassi davanti ad uno scaffale del supermercato sprovvisto di saponette e simili. Io non so arare un campo. Io non so fabbricare una candela per non parlare di come ricavare energia da un corso d’acqua. So uccidere. Io non sono capace a distillare acqua piovana. Saprei costruire un acquedotto ma avrei senz’altro bisogno vicino a me di un altro paio almeno di persone sicure del fatto loro in materia di potabilità dell’acqua per non rischiare, in caso di necessità, di avvelenare tutti. Un paradosso, che il mio sapere, da solo, servirebbe soltanto a nuocere al genere umano. A questo punto credo che andremmo disinnescati. Siamo, presi uno per uno, una bomba ad orologeria sistemata sotto il culo dell’umanità, un pensiero scaduto, andato a male come il latte di mucca che non saprei pastorizzare. Non è una questione di bricolage. E’ una storia di riqualificazione del pensiero. Il marito perfetto che a casa aggiusta tutto, per hobby, sarebbe colto da terrore solo al pensiero che questo è, in verità, l’aspetto più sintetico e rappresentativo della sua condizione d’uomo intento a sopravvivere. E’ convinto che la sua missione sia quella di chiudere bilanci di società meglio di chiunque altro. La sua professionalità. Dico che questa dovrebbe essere il suo hobby. Riparare il rubinetto del gas di casa la cosa seria. Penso che siamo fatti per muovere testa e mani in ogni direzione. La testa non per dire sempre di sì, le mani, non per regalare in continuazione applausi a chi ci fa comodo. Voglio ricompormi. Voglio essere capace di poter sopravvivere in qualsiasi situazione, di poter essere d’aiuto in qualsiasi evenienza. Voglio una scuola che insegni questo a mio figlio. Voglio essere in grado di raccontare un particolare della mia vita in prosa mentre faccio il minatore. Voglio che la mia più cara amica veda acclamate le sue poesie senza dover rinunciare alla sua vita di casalinga. Voglio che Marco venga riconosciuto il musicista che è senza doverlo considerare un mestiere. Voglio che impari a fare il muratore senza dover abbandonare la musica. Tu vuoi un ibrido! Che razza di umano è uno che sa fare un po’ di tutto ma forse niente meglio di chiunque altro? E’ una nuova serie, una nuova professionalità. Solo ancora per un po’ autodidattica. Dovrà essere innalzata ad Accademia. E’ l’unica possibilità che io intravedo di liberazione, di realizzazione umana. Faccio strada. Piena di buche e di pallottole. Come è possibile ancora credere sia concepibile mettere un individuo a fare per tutta la vita una cosa sola, per volta? Crudele. Tu puoi solo conoscere questo e praticarlo, basta. Tutto al più ti puoi dare al bricolage. Io voglio cacciare gli orsi, voglio strappare le orecchie ai potenti e insegnarlo a fare bene ai miei simili come a costruire un acquedotto. Abbasso i premi letterari, i premi di produzione per ora possono anche stare al loro posto. Non per molto. Spero solo fino a quando non ci saremo disinnescati.
Valentina voleva imparare a costruire un acquedotto. Le ho dato una dimostrazione work in progress. Abbiamo cominciato con lo studiare i castori. La loro capacità di dominare l’acqua senza esserne avvelenati. Poi siamo passati ad alcuni concetti elementari della muratura come ad esempio miscelare bene la malta o scegliere il laterizio più adatto a ciò che si deve costruire. Upanishad. Un campo davanti a noi ci vede di fronte. Così come siamo. Abbiamo pensato quindi, di fare il primo esperimento pratico, trasportando con il nostro acquedotto l’acqua di un ruscello più a valle, in una piccola landa selvatica dove la fauna eventualmente presente avrebbe potuto abbeverarsi senza la necessaria arrampicata. Upanishad. Una meraviglia di costruzione edile in simbiosi con l’ambiente. Si doveva soltanto aspettare l’effetto sull’ecosistema della nostra opera d’ingegneria in miniatura. Di tempo ce n’era’era. Valentina era preoccupata. Si doveva ingannare l’attesa. Upanishad. Spuntò una volpe che piano piano si dissetò alla nostra fonte. Upanishad. Fu poi la volta di due topolini di bosco e di una serpe che in seguito non riuscì a catturarli. Valentina pioveva davvero. Fu la volta del porcospino che si abbeverò senza licenza. Forse eravamo riusciti in qualcosa di miracoloso, di ricomposto. C’era spazio per restare svegli anche tutta la notte. Circondati da singole cattiverie del vento. Era ora di andare. Sul posto erano passati proprio tutti, contenti. Senza dire niente. Non era morto avvelenato nessuno ma noi non avevamo il coraggio di bere quell’acqua. C’erano tracce nel terreno circostante. Le tracce di qualcuno. Morti di paura siamo rimasti a respirare in attesa si rendesse visibile, se era ancora nascosto lì. Upanishad. Dov’è la treccia che ti ho regalato? L’ho messa nel torrente prima. Perché? Non lo so, una dimenticanza. Ora dobbiamo cercare di ragionare. Come può fare un uomo a chiederti scusa? Mi chiede scusa e basta. Si cura di ciò? Sicura. Voglio venderti una spazzola e uno spazzolino da denti. Per favore. Lasciami stare troppo presto. 2 occhi segnavano contemporaneamente la nostra posizione tra gli alberi. Era ora di dirci addio. Vuoi un sorso d’acqua? Upanishad.
Credo che Valentina sia partita per un viaggio. Lavorare tutti e lavorare meglio. Da Marx non mi sono mai aspettato niente vorrei soltanto ricomporre il lavoro manuale ed il lavoro intellettuale. Do un po’ di speranza a me stesso che trovo sempre da ridire anche quando sto zitto. Ascolto le persone mentre passano da un modo di vivere ad un altro. Non amo vederle incespicare facendosi male alle ginocchia. La vista del sangue è impressionante. Potrei uccidere qualcuno per farne a meno della vista. Chissà di che cosa sanno le ossa rotte, di ventre, di silenziose notti vicino alla credenza? Porta pazienza. Infine c’è sempre qualcosa che ti permette di inghiottire tutto. Sei un contenitore capace, una cassetta nautica, un baule d’argento, un’arca. In fondo a te c’è sempre spazio per dipingere di tuo qualcosa. Lasciati interferire. Andare. Alla deriva. E’ la più piccola crepa di un terremoto più profondo, orizzontale che sta venendo alla luce. Un matrimonio nuovo. Riguardante tutti. Uguagliante e atteso. Dalla tua verginità, dalla tua gola omissis, dalle tue speranze in giro per il mondo a coniare moneta.
Non trovo più le mie cose estive. Voglio essere una fabbrica.

Mario Sabbatini

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