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Un viaggio a Providence

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Un viaggio a Providence

Lo scorso 18 maggio si è tenuta, presso il Salone del DLF di Firenze, un’iniziativa alquanto interessante, promossa congiuntamente dalle riviste Yorick e La Soglia: "Un viaggio a Providence: giornata di studi lovecraftiani".
Sfidando gli inconvenienti legati all’impietoso sciopero delle ferrovie, luciferinamente programmato esattamente per quel giorno, ho deciso di partecipare al convegno: le occasioni di assistere in Italia a meeting di questo genere sono troppo scarse perché un appassionato possa permettersi di perderne anche solo una, ed in fin dei conti essere costretti a trascorrere una notte a Firenze con annesso vagabondaggio turistico in città il giorno successivo non è poi una gran tragedia…
Invero, il già citato sciopero non ha mancato di far sentire i propri nefasti effetti sulla manifestazione, sconvolgendone il programma in virtù del ritardato arrivo di alcuni partecipanti e, soprattutto, dell’assenza degli attesi Giuseppe Lippi e Sebastiano Fusco. Ci fossero stati anche loro la griglia dei relatori, già di tutto rispetto, avrebbe allineato proprio tutti i nomi storici degli studi lovecraftiani nel nostro paese: ma, come si sa, chi si accontenta gode…
Il pomeriggio è stato aperto da una prima relazione tenuta congiuntamente da Michele Tetro e Roberto Chiavini, entrambi esperti di cinema lovecraftiano. Seppur concentrata specificamente su due recenti uscite, la relazione ha poi fornito l’occasione per allargare il tema al cinema lovecraftiano in genere; nonché, purtroppo, per notare come questo dia adito negli appassionati a più di un rimpianto per quello che si potrebbe fare ma ancora non si è fatto (e forse mai si farà…). Come è stato correttamente fatto notare, la produzione in questo campo si può dividere in due grandi filoni: i film che prendono palesemente spunto da racconti di Lovecraft, senza però mai menzionarlo e prendendosi inoltre enormi licenze sulla trama originale; e quelli che invece puntano proprio sul richiamo del nome del supposto ispiratore per guadagnarsi un qualche riconoscimento di pubblico, solitamente non esattamente auspicabile in relazione all’effettiva qualità del prodotto. Detto che il cinema lovecraftiano è e rimane tuttora una realtà di nicchia, confinato com’è quasi esclusivamente nell’ambito della produzioni indipendenti, vi era comunque modo di rilevare come lo spirito originario dei racconti di Lovecraft sia possa ritrovare con maggiore fedeltà in lavori invero non direttamente ispirati alle sue opere; ed in particolare nella mano di un regista quale John Carpenter, il quale pur alle prese con storie assolutamente non lovecraftiane in origine è riuscito in più di un’occasione a colorarle utilizzando l’inconfondibile tavolozza dell’autore di Providence. L’esempio forse più fulgido di quanto detto è rappresentato da Fog, opera carpenteriana incentrata di per sé su un cliché dell’horror quale quello degli zombi ma nondimeno insidiosamente lovecraftiana negli esiti ultimi.
Nel corso delle ore successive si sono succedute le premiazioni per il III Premio di Poesia "Ercole Labrone-Yorick"; la cerimonia conclusiva dell’VIII Torneo Letterario Yorick-Howard Club; la consegna a Gianfranco de Turris e Claudio Gallo, per il loro pioneristico lavoro sulla fantascienza italiana pre-1952, del Premio Yorick per il fantastico italiano; la proiezione di un brevissimo (e a dire il vero poco significativo) documentario in cui il regista Brian Yuzna ripercorreva superficialmente qualche aspetto della vicenda artistica e biografica del Nostro sullo sfondo del quartiere di Providence nel quale egli nacque e visse. Punto forte però sono stati, ovviamente, i dibattiti imperniati su vari aspetti dello scibile lovecraftiano.
Un primo tema di confronto è stato quello relativo all’appartenenza o meno di Lovecraft al filone della fantascienza classicamente intesa. Doverosa premessa a questa questione è stata posta dal moderatore Gianluca Casseri, direttore e animatore principale della rivista La Soglia, il quale ha fatto notare come le distinzioni interne alla letteratura fantastica (fantascienza, horror, fantasy) siano nate più che altro per la comodità delle Case editrici, quando non addirittura per quella dei librai alle prese con la sistemazione delle singole opere sugli scaffali. Inevitabile conclusione del dibattito è stata quella di ritenere l’opera di Lovecraft impossibile da ridurre al mero stereotipo della fantascienza; tanto più se con ciò si deve intendere la SF dei suoi tempi, contro la banalità e puerilità della quale egli si scagliò violentemente più di una volta ed in particolare nel breve saggio Some Notes on Interplanetary Fiction del 1934. Nonostante questo, in un certo senso rimane possibile affermare che la fantascienza non fu più la stessa dopo Lovecraft: caso forse più unico che raro in cui un autore produce simili cambiamenti in un campo letterario al quale nemmeno può dirsi appartenente in prima persona. Eppure Lovecraft, il "Copernico letterario", fu talmente grande e rivoluzionario da far sentire la propria influenza indiretta su gran parte della SF degli anni a seguire: a giudizio di chi scrive, difficile immaginarsi le atmosfere di un capolavoro come Alien (ricordiamoci tra l’altro che dietro le creature del film c’è H.R.Giger, l’artista svizzero che più di una volta ha pescato dall’immaginario lovecraftiano l’ispirazione per le proprie ardite visioni…) se non con Lovecraft ed il suo cosmo gelido ed insensato come riferimento ultimo…
Argomento scottante ed ancora inedito al grande pubblico è invece quello affrontato da Claudio de Nardi e Pietro Guarriello, ossia la dubbia attribuzione a Lovecraft di un racconto apparso nel 1932 su Amazing Stories e firmato da un certo "H.P.Lovering". La critica lovecraftiana appare divisa: da un lato S.T.Joshi e lo stesso de Nardi, i quali hanno liquidato l’ipotesi di attribuzione come assolutamente stramba ed infondata; dall’altro Fusco e, almeno in parte, de Turris. Il primo ha addirittura promosso e curato un’edizione italiana dell’opera che presto verrà resa disponibile al pubblico; il secondo, pur non avendo avuto ancora modo di lavorare a fondo sul testo, appare portato a dare fiducia allo stimato collega, ritenendo impossibile che uno studioso di tale caratura abbia preso un simile granchio. A sostegno della tesi di Joshi e de Nardi vi è, a quanto è stato riconosciuto, lo scarsissimo livello qualitativo del lavoro in questione e l’assoluta mancanza di accenni nella corrispondenza lovecraftiana, solitamente prodiga di dettagli sulle attività del suo estensore. Ad insinuare qualche dubbio provvedono però il nome del presunto autore del racconto, che non può non rimandare ad H.P.Lovecraft; il tema della narrazione, ossia un’occupazione cinese degli Stati Uniti, rappresentazione estrema di un timore realmente percepito dal Lovecraft attento osservatore della realtà socio-politica contemporanea; e, a detta di alcuni fra i lettori, la presenza di tanto in tanto di vocaboli e stilemi riconducibili alla prosa lovecraftiana più nota. Una soluzione di compromesso in grado di dar ragione ad entrambe le parti potrebbe essere raggiunta prendendo per vera l’ipotesi che il racconto in questione sia una revisione operata dal giovane Frank Belknap Long, pupillo di Lovecraft, su un racconto giovanile del proprio mentore; operazione condotta senza l’approvazione di quest’ultimo, il quale quindi si sarebbe ben guardato dal voler apparire ufficialmente quale autore o co-autore del lavoro. E’ stato anche suggerito che nel testo sia invece da individuare un intento puramente parodistico: difficile però credere che un impegno quale quello richiesto per stendere un racconto così lungo sia passato del tutto sotto silenzio nell’epistolario dello scrittore di Providence. Il dibattito, ovviamente, rimane aperto.
Giunto il proprio turno, Enrico Rulli ha ‘provocato’ il pubblico proponendo la psicanalisi quale mezzo d’indagine della produzione artistica di Lovecraft. Ben presto peraltro il discorso è partito per la tangente, finendo per evolversi in un dibattito sul valore scientifico della psicanalisi in sé piuttosto che sull’opportunità di impiegarla per sviscerare i temi caldi della narrativa lovecraftiana. Scartata subito dagli astanti la pretesa di considerare la psicanalisi una scienza a tutti gli effetti (la diversità di quella freudiana da quella junghiana veniva portata a sostegno della tesi, delegittimando una disciplina la quale conduce a risultati sì diversi nell’analisi di un medesimo caso), rimaneva aperto il problema originario: problema che a questo punto si configurava più che altro quale proposta di riflessione. In definitiva dunque, considerando la delicatezza dell’approccio psicanalitico (che vede comunque tra i suoi illustri fautori Dirk Mosig, la cui recente raccolta di saggi Mosig at Last: a Psychologist looks at H.P.Lovecraft non lascia dubbi in merito alla prospettiva dell’autore), pare difficile trarre da esso conclusioni inconfutabili: meglio allora considerarlo solo uno strumento fra i tanti, capace forse di apportare condurre a qualche risultato interessante ma sicuramente non di sviscerare da solo i significati ultimi della produzione lovecraftiana.
Assai sostanzioso risultava infine il piatto forte della tavola rotonda conclusiva, orfana purtroppo di alcuni partecipanti i quali a quel punto avevano già abbandonato la compagnia per non perdere i rispettivi treni di ritorno a casa. Tema del dibattito era l’influenza esercitata da Lovecraft sulla letteratura fantastica del XX secolo: ovvero, quanto dell’opera dello scrittore è stato effettivamente percepito e portato avanti dai suoi numerosi, supposti continuatori? La questione prendeva invero le mosse da un interrogativo diverso: l’elemento demoniaco è ancora oggi uno degli assi portanti della letteratura orrorifica, oppure è ormai stato accantonato come già nel 1944 osservava e preconizzava Fritz Leiber? Subito emergeva una sorta di contraddizione. Per quanto infatti ai giorni nostri il Diavolo non occupi più nell’immaginario collettivo quel posto di rilievo che gli era proprio anche solo due secoli fa, negli ultimissimi anni il cinema lo ha riproposto prepotentemente all’attenzione per il tramite di un numero insolitamente elevato di film nei quali il satanismo (seppur misto a volte con il millenarismo riesumato per l’occasione offerta dal calendario) riveste un ruolo di primissimo piano. Ora, può questo recente revival conciliarsi con la supposta influenza di Lovecraft sull’horror moderno, visto che proprio l’autore di Providence si è sempre tenuto rigorosamente lontano da tutti i cliché del genere? De Nardi in particolare evidenziava come in effetti la rivoluzione operata da Lovecraft non abbia in pratica avuto alcun seguito: anche un autore di vaglia come Stephen King, per sua ammissione profondamente colpito dall’opera lovecraftiana, si è sempre mantenuto ben lontano dal recepire l’insegnamento del maestro. Ma quale è, in definitiva, questo insegnamento che nessuno è parso capace di raccogliere? Ne’ più ne’ meno che l’abbandono dell’antropocentrismo; la visione dell’uomo e delle sue vicende non più quale centro dell’universo, bensì come mero incidente locale privo di significato e valore intrinseco. In questo Lovecraft fu un formidabile precursore: così avanti sui tempi che ancora oggi, a oltre sessant’anni dalla sua scomparsa, non si è affacciato alcuno scrittore che possa dirsi veramente suo erede. La rivoluzione operata da Lovecraft dunque ancora non si è imposta, e non è scontato che lo faccia in futuro.
Ciò che è emerso senza ombra di dubbio dalla giornata di studi è l’unicità di Lovecraft. Seppur raggiunta da appassionati la cui valutazione del personaggio è sicuramente alterata dal genuino entusiasmo per la sua opera, la conclusione in tal senso non sarebbe potuta essere più unanime e definitiva. Il suo spessore culturale ed intellettuale, il ruolo fondamentale da lui giocato nel rimescolare le carte di un genere letterario ormai stantio e di infondergli nuova vita, la sua capacità di trascendere le proprie fonti di ispirazione e affidare ai posteri un’eredità che ancora oggi stentiamo a comprendere appieno: tutti gli elementi concordano nel fare di Lovecraft uno scrittore ed un uomo praticamente irripetibile. Un uomo a cui hanno inteso rendere omaggio coloro i quali, non tanti ma nemmeno pochissimi, hanno sfidato gli ostacoli imposti dal sindacato dei ferrovieri per radunarsi in quel di Firenze a tenerne viva la memoria il 18 maggio dell’anno domini MMII

Fabrizio Claudio Marcon

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