Don Chisciotte non è solo un personaggio leggendario, citato anche come la più grande opera di letteratura di tutti i tempi, ma è anche un film, o meglio, è stato un film in una o due occasioni, decenni fa, ma questo Don Chisciotte è un film che non sarà mai un film, è un regista che sembra Don Chisciotte e, come lui, rinsavisce solo all’evidenza della sua "follia". Ma chi è veramente folle? Chi insegue con tenacia i suoi sogni o chi non vede oltre il proprio naso?
Terryu Gilliam, l’ex Monty-Phyton divenuto celebrato regista con "Brazil", "L’esercito delle 12 scimmie", "Paura e delirio a Las Vegas" e altri, è un sognatore moderno. "Se è facile non lo fa, se è impossibile ci prova", dice di lui l’italiano Nicola Pecorini, direttore della fotografia del film abbandonato dopo una sola settimana dall’inizio delle riprese, "Don Chisciotte", appunto. "Lost in La Mancha" è divenuto tutto ciò che resta del più ambizioso progetto di Gilliam, un sogno covato da dieci anni, preparato meticolosamente, troppo "off" per Hollywood e perciò emigrato in Europa tra le braccia di finanziatori più sensibili ma meno danarosi. "Lost in La Mancha" doveva essere il reportage dal set di tutto ciò, è diventato invece, per mano dei registi Keith Fulton e Louis Pepe, il testamento precoce di Don Chisciotte-Gilliam, tenace, pazzo, assatanato, ma obligato ad arrendersi di fronte alla "sfiga", come la definisce in modo colorito il solito Pecorini.
Tutto sembra pronto: magnifici costumi, scene pittoresche e fiabesche, la Spagna arida e deserta, il solito staff per niente demotivato dal fiasco totale de "Il barone di Munchausen". Gli attori? Eccoli, o meglio, ecco le loro ffoto: Jean Rochefort nelle parti di Don Chisciotte, Johnny Depp nella parte di un insolito Sancho Panza rivisitato da Gilliam come un moderno pubblicitario catapultato non si sa come nella Spagna del XVII secolo. L’energia di Gilliam deborda da ogni parte, i collaboratori, impegnati ad incastrare il film in un budget pur sontuoso (32mln di dollari) ma pur sempre limitato per le ambizioni del regista, fanno fatica ad assecondarlo e già i loro sguardi fanno presagire ciò che, puntualmente, accadrà. Se ci volle la morte di Orson Welles per fermarne il progetto al quale lavorava da una vita, qui "bastano" un violento temporale, una doppia ernia al disco e la NATO. Il primo interrompe la prima giornata di riprese, danneggia l’attrezzatura e ritarda la ripresa dei lavori a causa di un fango impenetrabile. Rochefort, emozionatissimo e molto professionale, supera un dolore alla prostata ma nulla può contro l’ernia, che gli impedisce di cavalcare rendendolo di fatto inutile. Vanessa Paradis non arriva mai. La Spagna arida immaginata da Gilliam è proprio sotto all’area di esercitazione aerea della NATO e il frastuono dei caccia diventa ben presto intollerabile. Nonostante le vicissitudini il lavoro prova a procedere. Riusciamo a vedere il casting dei giganti, le marionette, le idee di Gilliam sono disegni, parole, tracce di costumi, battute recitate per prova con gli attori: manca solo il film. Attorno a lui, incredulo ma volitivo, tutto sembra crollare e gli sforzi dei collaboratori non bastano per continuare: "Don Chisciotte" non si fa più.
"Lost in La Mancha" è un rimpianto perché ci mostra ciò che non vedremo mai, perché ci fa capire cosa sarebbe stato il Gilliam di Don Chisciotte, e lo scambio dei nomi è voluto perché il regista ha la stessa folle energia del personaggio di Cervantes e, come lui, ha la stessa triste sensazione alla fine, tenendo per sè ciò che gli altri non vedranno e non capiranno mai.
Il rimpianto di Don Chisciotte
Benatti Michele