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In attesa dell’alba

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In attesa dell’alba

Era lì davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. La sua faccia non era meno stropicciata dei suoi vestiti rattoppati. Con la fronte increspata da miriadi di rughe e un’insolita smorfia sul volto irsuto appoggiò pesantemente un piede sulla panchina in cui ero seduto.
Con disgusto osservai la scarpa tenuta insieme da un cordone consumato attraverso la quale si intravedevano le dita del piede incrostate dal fango.
Lo fissai senza scompormi attendendo il seguito di quell’insolito incontro.
Ma il vecchio non pareva avere molta fretta, e del resto neanch’io ne avevo: l’alba era lontana.
– Questa è la mia panchina! – affermò con voce strascicata.
Il pungente odore di un qualche miscuglio alcolico mi arrivò alle narici facendomele arricciare.
– Può sceglierne un’altra, il parco ne è pieno e non credo che nessuno verrà a protestare stanotte –
Il barbone spostò la propria attenzione sulla punta della scarpa appoggiata alla panchina. Aggrottò le sopracciglia strizzando gli occhi e, con l’orlo della manica del cappotto più grande di almeno due taglie, pulì una non ben precisata macchia sulla scarpa. Visibilmente contento del risultato riportò l’attenzione su di me.
– Ma questa è la mia panchina. Io vengo qui ogni notte di ogni fottutissima settimana, di ogni mese, da non so quanti anni… – insistette rimettendosi su due piedi e assumendo una posizione talmente fiera da risultare terribilmente stridente con la sua immagine.
– Se vuoi possiamo discuterne anche fino all’alba… – mormorai sorridendo sornione: la notte che poco prima si profilava noiosa e colma di pensieri penosi, ora mi appariva sotto una luce diversa.
– Ne discuterei volentieri fra un goccetto e l’altro… offri? – chiese mostrandomi un sorriso quasi privo di denti.
– Non bevo alcolici e credo che tu abbia già fatto il pieno per stanotte… –
– L’alcol aiuta a restare caldi più di un pacco di quotidiani! – affermò alzando un lembo del consunto maglione imbottito di giornali –
E le notti d’inverno sono troppo fredde e troppo lunghe per un vecchio barbone come me… –
– Le notti sono sempre troppo lunghe… – mormorai amaramente.
L’uomo mi osservò con due occhi grigi resi quasi ciechi da un’avanzata cataratta e, dopo essersi grattato svariate volte la mascella irsuta, si sedette accanto a me.
– Stai cercando di sviare la mia offerta? – chiese strizzando un occhio.
Lo guardai un po’ sorpreso senza capire.
– A quale offerta ti riferisci? – gli chiesi passando al tu senza rendermene conto, cosa inusuale per un tipo fissato come me per l’etichetta.
– Dovevamo bere un goccetto insieme, non ricordi? –
Sorrisi senza rispondere stringendomi con un gesto più automatico che necessario, nel mio cappotto scuro.
– Qual’è il tuo nome, vecchio? –
– Non lo ricordo… – rispose facendo spallucce.
– Allora abbiamo qualcosa in comune –
– Anche tu non ricordi il tuo? Hai forse preso una botta in testa? –
– No nessuna botta. E’ solo passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno ha pronunciato il mio nome… –
L’uomo mi guardò con un’espressione perplessa e non potevo certo dargli torto.
Ancora una volta, dopo così tanto tempo, non riuscivo a perdere il vizio di parlare attraverso enigmi. Pensai che dovevo apparire ai suoi occhi come un tipo al di fuori dell’ordinario. Certo, seduto su questa panchina, non mostravo chiaramente la mia figura imponente e alquanto tetra, ma il mio abbigliamento demodé e i miei capelli scuri lunghi ma ben curati terminanti in vezzosi boccoli potevano destare la sua curiosità. E che dire poi del mio volto dalla pelle così pallida da mostrare infinite venature azzurrine? Le uniche note di colore che animavano il mio viso erano le labbra carnose e rosse, forse eccessivamente, il pizzetto e le basette, naturalmente curatissime.
Forse per provocarlo ulteriormente decisi di togliermi gli occhiali scuri che raramente non indossavo. Con un gesto lento e studiato in modo da fargli notare le mani bianche dalle dita affusolate ma con le unghie un po’ troppo lunghe, mi tolsi gli occhiali e lo fissai negli occhi.
Con costernazione vidi l’uomo sbadigliare. Eppure ero certo che avesse veduto i miei occhi sanguigni solcati da troppe venature. Come poteva non notare che questi occhi parevano quasi non appartenere a un giovane trentenne?
– Perché mai un ragazzo come te, stava seduto da solo su una panchina arrugginita in un parco dove non passa anima viva? – chiese invece tranquillamente.
– Era intenzionale il luogo, proprio perché non vi era anima viva…

– Ho forse distrutto i tuoi piani? – chiese strofinandosi il grosso naso con un dito.
Gli sorrisi senza rispondere mostrandogli i denti candidi e aguzzi.
– Cosa ne pensi della morte, vecchio? –
Il vecchio si frugò le tasche freneticamente quindi si bloccò indicando il mio fazzoletto accuratamente piegato nel taschino del mio gilè grigio scuro.
Glielo porsi e lui vi soffiò rumorosamente il naso. Quando fece l’atto di ridarmelo rifiutai con un gesto della mano.
– Una conseguenza inevitabile della vita, giovane amico mio! – rispose finalmente.
– Immagino che per te sarebbe una liberazione morire… – commentai osservandolo attentamente. Doveva avere almeno sessant’anni e il suo fegato malato non gli avrebbe concesso che un anno di vita.
– Liberazione da che? – chiese con un’espressione corrucciata.
– Ma dal genere di vita che conduci, no? – risposi pensando che era un po’ tardo.
– Cosa c’è che non va nella mia vita? –
– Non credo sia stata facile… – commentai sentendomi un po’ stupido nell’esporre una cosa fin troppo evidente.
– Figliolo, voglio un goccetto per ogni persona che ha avuto una vita facile. Sei ancora troppo giovane per capire… E questa è la grande ironia della vita: l’apprezzi solo quando arriva alla fine! –
– So di cosa parli. Ho potuto vedere con i miei occhi quel filo invisibile che tiene legata l’anima al corpo. Apprezzo quella scintilla vitale in ogni essere che incontro, in ogni uomo, donna o animale che sia… L’ammiro e la venero più di chiunque altro – Da quella stessa scintilla dipendeva la mia vita.
Volsi lo sguardo verso il cielo incurante delle fitte di dolore che attraversarono i miei occhi troppo delicati per esporli alla luce violenta delle stelle.
– Cosa stai aspettando? – la voce del vecchio mi riportò alla realtà.
– Attendo che la notte finisca… – risposi sorridendo. Anelavo da molto quell’istante. L’istante in cui tutto sarebbe finito e l’oblio sarebbe calato sui miei occhi. Come sarà dolce, pensavo, lasciarsi pervadere dalle fiamme che segneranno il tempo della pace, dei non-pensieri, del limbo, su questa mia vecchia pelle che ha visto nascere e morire troppo ormai.
– Tu porti la notte nel cuore, ragazzo, non credo che tu possa liberartene… – mormorò fissandomi con un’espressione che non riuscii a identificare.
Scossi la testa sorridendo: cosa poteva saperne lui? Che poteva sapere delle mie notti senza fine, passate alla ricerca di quella scintilla che anelavo così intensamente da non potervi resistere? Che sapeva dell’attesa interminabile quando, celato nell’ombra dei vicoli, attendevo una vita a cui spezzare quell’invisibile filo?
Ero stanco, terribilmente stanco. Non potevo più accettarmi.
– Ti sbagli vecchio… conosco un modo per liberarmi dalle tenebre…
– mormorai infine riportando lo sguardo sul mio inusuale compagno.
– Hai deciso di arrenderti? –
– La fine è una conseguenza inevitabile, non credi? – risposi imitando le sue parole.
– Non quando sei tu a deciderlo! – affermò corrucciato.
– Ho già ingannato la morte, tanto tempo fa… è giunto il momento di pareggiare i conti –
– La morte non si inganna, ragazzo! –
– Eppure io l’ho fatto e te lo sto dicendo –
– Puah! – esclamò sputando a una distanza da campionato – Quella signora è più scaltra di quanto tu possa immaginare. Credi di averla ingannata, credi di averla allontanata da te, invece è sempre al tuo fianco, in attesa… –
– Allora la sua lunga attesa sta per terminare… – affermai sorridendo apertamente senza preoccuparmi di celare i miei canini troppo pronunciati per appartenere a un essere umano.
– E non sei preoccupato? – chiese sgranando gli occhi.
– Perché dovrei? Ho vissuto talmente intensamente da aver soddisfatto cento vite almeno… –
– Tutto andrà perduto… quello che sei stato, quello che sei, la tua conoscenza… è un vero peccato – concluse facendo spallucce.
Non risposi osservandolo mentre infilava le dita grassocce in guanti bucherellati.
– Non credi in Dio, vecchio? – chiesi infine.
– Credo in questa! – esclamò puntando un dito alla testa – Ed è lei a giudicarci alla fine dei nostri giorni… Non si muore in pace se lei non ti assolve! –
Alcune nuvole offuscarono la luce abbagliante delle stelle dando un po’ di respiro ai miei occhi stanchi. Lentamente una leggera pioggerellina scese su di noi, ma nessuno dei due parve trovarla eccessivamente fastidiosa da abbandonare la panchina per un riparo.
– L’alba non è lontana, ormai… – mormorò il vecchio dopo un lungo silenzio.
– Cosa farai quando sarà l’alba? –
– Sopravviverò… è la cosa che so fare meglio! – rispose ridacchiando.
Sorrisi.
– Anch’io non me la cavo male… –
– Ne sono convinto… si nota subito che hai la stoffa! Abbiamo l’istinto di due animali selvatici io e te! – affermò dandomi una pacca su una spalla.
– Tu credi? –
– Ne sono certo: in noi prevarrà sempre l’istinto di sopravvivenza. Ô questo che ci fa forti… Le schifezze della vita non ci impediranno di proseguire! –
Poche ore prima avevo deciso spontaneamente di sedermi su questa panchina in attesa della fine. Poi era arrivato quel vecchio che mi aveva paragonato ad un animale selvatico con un forte istinto di sopravvivenza.
Offrii il viso alla pioggia lasciandomi rinvigorire da essa.
Percepii la vita nelle gocce che lentamente scivolavano sulla mia pelle trasparente.
E mi piacque immensamente. La vita.
Mi alzai e afferrai il bastone da passeggio che avevo lasciato cadere ai miei piedi poche ore prima.
Il vecchio barbone mi osservava, ma non pareva sorpreso.
Naturalmente.
Gli offrii un elegante e breve inchino e lui, sorridendo, mi congedò con un leggero cenno della testa.
Da allora non mi sono più seduto su quella panchina.

V.D.S.

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