Come prendersi delle belle mazzate in faccia, a bruciapelo, è così il primo racconto di Bukovski da Compagno di sbronze, intitolato La macchina strizzafegato… mica piacevole, ma fa bene leggere della roba così; chi l’ha detto che le pagine devono essere comode comode, magari con quella scritturina di plastica, deodorata, gonfiabile, di quegli scrittorini italiani carini, con la loro foto in quarta di copertina, che fanno opinione, le inchieste di costume: sulle ultime depravazioni di moda in tinello…
… insomma siamo in partenza per Venezia, tutti alla Biennale, è il giorno dove ci saranno TUTTI, anche JanClè, che magari lo possiamo anche vedere da vicino, e forse anche toccare. Siamo il plotoncino bello di artisti della Provinciabestia, tutti felici compagnucci in gita, con il biglietto per “Addetti ai lavori”, diobono, allora siamo artisti per davvero!
E che c’entra Bukovski nell’incipit? Allora…?
C’entra, c’entra.
Il teatro dell’arte incomincia al primo binario del treno per Venezia.
L’artista giovane, l’uomo vivo e incazzato con il suo destino e quello dell’arte e dell’universo mondo, sta sputacchiando bile ed ideali contro la Grande Madre di tutti gli artisti, la Responsabile dell’Arte della Provinciabestia, donna lunga e modigliana, donna dolce furba emiliana. Kepoùz vuole una casa per gli artisti, parla di diritto alla casa per gli artisti, o anche diritto ad un atelier, e allora io voglio salotti per scrittori (Faulkner avrebbe chiesto un bordello), e allora cessi per i critici. Kepoùz mi ricorda quello che scrive Tom
Wolfe in Come ottenere il successo nell’arte: la danza indiana dell’artista incazzato da giovane, quando è ancora uno sfigato da soffitta. Teatro a gratis sul primo binario.
Siamo sul treno e si dà la stura a dottissime discussioni sullo stato dell’arte, e anche della donna. Entra in scena l’Artista Dentista che si rivela maestro nel lasciar cadere pensieri e citazioni in conversazioni metafisiche altrimenti indigeribili alle dieci del mattino.
Noto l’appartarsi osservante, il contegno discreto del pittore serio, di nero vestito (darkeggiante avrebbe scritto Tondelli), ci osserva da una distanza tecnica, occhieggia da dietro le pagine del suo libro, si decentra dalle nostre parole, fugge senza alterigia i discorsi e si dedica a segni e gesti che si muovono al sicuro, custoditi nel suo quaderno.
A Venezia si sta girando il nuovo film di Fellini; c’è la Disneyland dell’Arte, un tripudio di cappelli panama e americani in vacanza; il circo Barnum è tutto qui, anche senza Bonito Oliva. Gli artisti sono scintillanti e si fanno le foto ricordo con i critici e i mercanti.
Gli artisti sono in festa con le loro sahariane e i loro tailleurini viola di lamè… e che c’entra Bukovski?
C’entra, c’entra.
Ogni tanto gli occhi limpidi e profondi della TAU, artista giovane e carpigiana, mi sorprendono ad ammirare le addette ai lavori, ha già scoperto la mia vocazione voyeuristica, e in questo ho due colleghi altrettanto esperti in forme e colori e proporzioni, il Fotografo e l’Artista Dentista.
Il sole è alto e caldo, illumina i Giardini così tanto che ti vien quasi da chiudere gli occhi; la giornata è fatata; dappertutto flash e fotografi in assetto di guerra, telecamere e cappellini da Ascot e artisti e performer. La soundtrack è internazionale, siamo nel centro del ciclone, molte donne bellissime, qualche femmina, anche noi non sfiguriamo, dalla Provinciabestia con passione, occhi critici e candidi, davanti alle opere il buon senso padano.
Perchè Bukovski, perchè il racconto La macchina strizzafegato? E allora perchè queste anatomie impossibili (bello questo nuovo slogan di JanClè per la mostra sul ritratto e l’impronta); e DOVE VA L’ARTE?
E sempre sempre ogni anno queste domande da bar, i dibattiti da tolksciò, mentre ce n’è di artisti che sono al lavoro, che amano il proprio destino, e lavorano, lavorano, lavorano, alla facciaccia dei dibattiti, dei requiem, delle filologie d’accatto e dei trend economici.
Ora siamo all’horror di Museo Correr. A Palazzo Grassi non c’hanno fatto entrare, c’era quella rompiscatole di Lady D. Questo horror non ancora trash ma già consacrato come postmodern, così leccato, così colto alla… a la Greenaway, e c’è la Greenaway davvero che passeggia davanti alle sue foto preferite, con le mani dietro la schiena, e la donna modigliana si emoziona, una delle poche emozioni di questa
Biennale.
Mi mancano tanto i trittici di Bacon (che adesso se li sta godendo
Lady D.) e non ne posso più degli accartocciamenti postindustriali di
Cesar e delle cyberseghe tecnologiche, e della tristezza senza colori di Kossof, voglio un po’ d’arte che ti afferri le viscere, che parta dalle viscere per poi uscire poesia… sublimazione di bile ed emozione, voglio delle “tele che cantino”, direbbe il pittore darkeggiante, voglio la semplicità dell’energia.
Siamo davanti ad una tavola sontuosamente imbandita, l’ennesimo buffet dove non siamo stati invitati, e dove ci serviamo fregandocene, e prendiamo quello che vogliamo, in tutta libertà: è l’immagine di noi e l’arte di questa giornata: è l’ultima immagine che deve rimanere negli occhi di questa giornata alla Biennale, insieme alle parole lorde di verità di Bukovski,
… leggere assolutamente il suo racconto, a questo punto, e i corpi di mistero si muovono nel quaderno del pittore nerovestito mentre il treno imbocca il tunnel padano.