Per intanto scusate lo pseudonimo, ma nella vita non si sa mai. In fondo Aristodemo (quello di Sparta, delle Termopili) fu marchiato con l’appellativo di codardo.
Potrei dirne tante, e forse lo farò. Comincio dall’ultima e tenterò un percorso a ritroso, zigzagando nella memoria, per fare il punto, se possibile, e capire che cosa sia oggi la poesia, che cosa sia il fare il poeta, e non per un gratuito j’accuse, bensì per mia tardiva ma autentica crisi.
Oggi ho ricevuto una lettera uguale a tante altre dello stesso genere che ricevo ormai da vent’anni. Qualche settimana fa ho spedito tre copie di un mio libro per un concorso di poesia, sezione poesia edita, ottimamente sponsorizzato e organizzato da una Associazione italiana. Ho pagato una tassa con vaglia di euro 25, euro 32.50 in tutto con le commissioni e il bollo dell’ufficio postale. Non voglio nominare questo Centro Culturale, perché non so, non ancora, se questo concorso di letteratura sarà seriamente gestito (è alla prima edizione). Normalmente io non partecipo a nulla ove sia richiesto un pagamento, ma questa volta sono stato attratto dalla possibilità di riscuotere un premio di 1000 euro, che per me, nel perenne bisogno di una sempre più lampante precognizione di povertà futura passando per la cosiddetta povertà grigia, sarebbero un mio magro stipendio in più, una quattordicesima eventuale, magari buona per fare finalmente qualche lavoretto di miglioria in casa. Non molto, magari giusto una controsoffittatura là dove sono sempre perseguitato dalle macchie di umido provenienti dal sottotetto, altro segno rappresentativo di ristrettezza coi suoi squallori e abbandoni visibili e tangibili. Inoltre avanzo un bel po’ di copie della mia pubblicazione. Già, perché dopo tanti anni, nel 2006 mi sono finalmente deciso di pubblicare una silloge di poesie. Pure affidandomi a un vecchio amico, editore serio e stimato, altro non si poteva fare (e non si può fare) che fare fronte al sacrificio, pari a 1800 euro di esborso per 700 copie, 350 a lui, l’altra metà a me. Del che, lo avevo previsto, ancora non so che farne. Ho ricevuto molti complimenti e consensi, ma le uniche copie che si vendono sono quelle in mano all’editore, sulle quali non ho royalties (è d’uopo ricordare che io quelle copie gliele ho già pagate, sicché lui non deve neanche rientrare delle spese, come si suol dire). Anzi, in una serata di presentazione del libro insieme a quello di un noto e bravo disegnatore satirico, ho venduto tutte le copie portate per l’occasione dall’editore. Io, oltre al piacere di mettere dediche su ogni volume, non ho avuto il piacere né di potervi vendere le mie, né di vedere un soldo, anzi, mi sono dovuto comprare anche la copia del collega con il quale avevamo fatto una brillante serata alternando le sue vignette improvvisate alla mia lettura. Ma andava bene così: mi è stata in fondo pagata una cena tra illustri colleghi e non si può ignorare che l’editore doveva pur sostenere le spese del locale e almeno un rimborso per il grande poeta e scrittore invitato e intervistato prima di noi (io non farò mai nomi, dal momento che non voglio venga riconosciuto chicchessia; io non ce l’ho con nessuno in particolare; piuttosto, so anche essere grato… Ma il problema è altro, in una astrusa e grottesca condizione generale).
Tornando al concorso di cui sopra, perché non tentare, dunque, anche solo per cercare di rientrare delle spese fatte per pubblicare quel libro?
Or bene, nell’attesa in ottobre che la Giuria e il Comitato d’Onore si pronuncino al riguardo, io certo solo del fatto di non aver mai vinto o guadagnato nulla in denaro con la poesia, ho ricevuto la proposta di comparire all’interno di una antologia di poesie prescelte, svincolata dalla Giuria del Concorso, per lasciare una testimonianza tangibile della iniziativa. E’ stata scelta una delle mie liriche tratta dalla antologia edita di cui ho finora parlato, per essere quindi inclusa in tale volume antologico con veste editoriale raffinata (così è scritto e promesso), corredato da belle immagini e brevi commenti per tutti i lavori. Va detto che rispetto a certi altri editori, capaci di chiedere centinaia di euro per essere inseriti in volumi siffatti e anche peggio, questo Centro Culturale ha chiesto solo l’obbligo di acquistarne due copie al prezzo di 40 euro. Niente di che, giusto una cena a base di pesce se voglio togliermi una soddisfazione, oppure il costo di una mia bolletta della luce, se si tratta di far fronte a improrogabili necessità del quotidiano mai arrivando alla fine del mese.
Ora, che fare? Mi suona strano che queste persone non considerino il fatto che a un autore non può fregare molto di pubblicare su una antologia una poesia già pubblicata e venduta in un libro. Al limite, qualcosa di inedito… Se proprio… Anzi, direi che per una volta, avendo pubblicato un libro e posto sotto diritto d’autore il suo contenuto, dovrei invece essere io nella posizione di dover dare consenso, pronto anche a rinunciare a dei guadagni (come ormai si vuole in poesia), invece che ricevere una lettera in cui sembra mi si faccia un favore, un onore, una lusinga, purché pagando il mio debito contributo. Nel ricevere questo tipo di proposte, mi sono davvero fermato a riflettere sulla condizione della poesia e del poeta. L’ho fatto anche altre volte, ma questa volta ho deciso che devo cominciare a scrivere qualcosa a qualcuno, divulgare, cercare forse aiuto, se non per cambiare qualcosa (impossibile pretendere tanto), almeno per capire. Perché deve continuare questo malcostume? Perché oggi il poeta (quello cartaceo, quanto meno, a fronte del Web) non deve soltanto accettare di non pubblicare (nessun editore considera più la poesia un investimento da fare) o di pubblicare non solo senza guadagnare nulla, ma addirittura acconsentendo di essere colui che paga del denaro se vuole soddisfare la curiosa velleità di pubblicare? Certo, è già successo. Mi dicono che anche Montale e altri grandi abbiano dovuto sborsare denaro per pubblicare i propri lavori, per lo più in forma di sostenibile plaquette, almeno fintantoché non diventarono famosi. Mi sta bene, la poesia non vende, non fa mercato. Lo ha definitivamente sancito anche Hans Magnus Enzensberger sulla sua completa e sintetica definizione di poesia oggi… Tra le altre cose si legge che le poesie si sono dimostrate incompatibili con le leggi di mercato universalmente valide. Al contrario degli altri beni culturali, il loro valore commerciale tende a zero. Questa singolare immunità viene deplorata da molti poeti, da altri invece considerata un privilegio (L’espresso, 19 giugno 2008)”. E allora va bene così. Non sarà con la poesia che guadagnerò qualcosa. Che sia pure un privilegio, purché non finisca per essere la storia della volpe e dell’uva. Però…
Però a volte non è nemmeno detto che pubblicare con l’obbligo (squallido, permettetemi almeno di definirlo così) dell’acquisto di almeno una copia sia conditio sine qua non così chiara. In una antologia di racconti di un editore di cui non faccio nomi, fregiatasi della prefazione da richiamo di un notissimo scrittore nostrano (invero inutile e nulla dicente, ma a cui sicuramente fu corrisposta equa mercede per il disturbo), ebbi qualche tempo fa l’onore di apparire con due racconti (gli altri autori ne avevano uno soltanto). Una ventina di pagine in un libro di circa cento pagine in tutto, perciò un quinto o un sesto suppergiù dell’intero libro. Racconti che sono stati molto apprezzati. Anzi, in alcuni blog leggevo che erano i soli ad esser stati davvero apprezzati. Ma questo a me non importa, perché non mi piace rischiare di essere pensato vanaglorioso, presuntuoso e spocchioso. Tutto è nostro e tutto ci sarà tolto, recitavano dei Versi di Lagerkvist. Che importa? Penso tuttavia che l’editore dovesse tenerne conto, insieme al fatto che tra tutti quegli esordienti io mi ci trovavo anche bene, ma con un carico già di vent’anni di fatiche forse meritevoli di almeno un pizzico in più di riguardo o rispetto. Insomma, non proprio uno sconosciuto. Bene, avuta la mia copia dopo un anno dall’uscita, su mia richiesta, senza sapere di doverla acquistare, pensando di meritarla semplicemente, il libro mi è giunto con un assurdo bollettino di conto corrente per pagare 12 miserabili euro. Sono seguiti un mio epigramma non proprio encomiastico, un po’ sarcastico direi, all’editore, che intanto introitava dalle vendita in tournée e non l’ha presa bene, e quindi uno scambio poco edificante, precocemente conclusivo di una qualche altra forma di collaborazione a venire. Ma a voi, popolo del tutta l’arte dev’essere gratuita, abituati al “Mulo” e altre forme di file sharing e di gratuita copiatura (ne sono anch’io “colpevole”, chi non lo è, scagli la prima pietra), pensate mai che questo sia giusto? Io le regalo anche le mie cose, permetto anche che qualcuno ci guadagni qualcosa perché possa continuare a fare le sua parte pur necessaria (un piccolo editore le deve pure affrontare le sue spese), ma pretendo che nessuno mi chieda di pagare per ciò che regalo e di non essere più insultato (com’è capitato) se decido che non è giusto. Vi sembra un compromesso accettabile? Possiamo fare qualcosa? Se per scrivere un autore deve pubblicare (sennò perché scrivere?) e se per pubblicare deve pagare coi suoi soldi, senza rifarsi e senza guadagni, e se in tutto ciò lo Stato non ci mette una parola, non è questo l’inizio della fine della cultura di un popolo?