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Difesa d’ufficio e ”gratuito patrocinio”

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L’avvocato serve all’innocente,

il colpevole può mentire

B. Franklin

 

I due concetti vengono spesso confusi così come, per opinione comune, erroneamente si pensa che il difensore assegnato d’ufficio, e non scelto sulla base di un rapporto di fiducia tra avvocato e cittadino alle prese con il sistema giudiziario, debba essere pagato dallo Stato.

Prima di tutto quello della “difesa d’ufficio” rappresenta un concetto generale, che vuole indicare, in materia penale, la difesa garantita a ciascun imputato che non abbia provveduto a nominare un proprio difensore di fiducia o ne sia rimasto privo. E’ prevista dal Codice di Procedura Penale[2] al fine di garantire il diritto di difesa in ogni processo, diritto inviolabile dell’uomo riconosciuto dalla Costituzione italiana all’articolo 24[3].

Con l’espressione “gratuito patrocinio”, invece, si fa riferimento al beneficio dell’assistenza legale gratuita alle persone che non sono in grado di sostenerne le spese[4]. Anch’esso trova fondamento nell’art.24 della Costituzione, il cui comma 1 riconosce che “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi“, e il comma 3 per cui “Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e per difendersi davanti ad ogni giurisdizione[5].

L’importanza del diritto al “gratuito patrocinio” ha assunto rilevanza anche a livello internazionale, essendo, da molti anni, riconosciuto come diritto fondamentale dell’individuo da numerose norme pattizie[6]. Recentemente anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea riconosce il diritto ad un ricorso effettivo ad un giudice imparziale e il suo art. 47 recita: “Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’unione siano stati violati ha diritto ad un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente ed imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia“.

Nel nostro ordinamento, in particolare, il percorso che ha portato alla piena affermazione dell’istituto in tutti gli ambiti processuali, è stato lungo, avendo esso origini molto antiche risalenti addirittura all’epoca imperiale romana. Inoltre, tutti gli interventi del legislatore nel corso degli anni non hanno fornito una disciplina unitaria, ma si sono limitati a previsioni specifiche nell’ambito delle singole giurisdizioni[7].

Nel 1973, la legge n. 533 ha istituito per la prima volta il patrocinio a spese dello Stato, ma, nelle sole controversie di lavoro e di previdenza sociale[8]. Successivamente, è entrata in vigore la legge n. 117/1988, che ha disciplinato il patrocinio ha spese dello Stato nei giudizi per la responsabilità civile dei magistrati. Solo nel 1990, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Penale, la legge n. 217 ha introdotto il patrocinio a spese dello Stato nel processo penale e nei procedimenti civili per il risarcimento dei danni derivanti da reato. Quindi il R.D. del 1923 ha rappresentato l’unica normativa di riferimento in tema di assistenza giudiziaria dei non abbienti nel giudizio civile ed amministrativo fino all’emanazione della legge 29 marzo 2001 n. 134, che ha riformato l’intero istituto con l’introduzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti nei giudizi penali, civili, amministrativi, nonché in quelli di volontaria giurisdizione, e ha fornito per la prima volta una disciplina unificata dell’istituto. Occorre precisare però che la legge, che doveva entrare in vigore il 1º luglio 2002, non è stata mai attuata, in quanto è stata trasfusa nel “Testo unico in materia di spese di giustizia” (D.lgs. 30 maggio 2002, n.115), che riunisce e coordina l’intera disciplina.

Al fine di essere rappresentate in giudizio sia per agire che per difendersi, le persone non abbienti possono richiedere la nomina di un avvocato e la sua assistenza a spese dello Stato, usufruendo dell’istituto del Patrocinio a spese dello Stato[9].

Per essere ammessi al Patrocinio è necessario che il richiedente sia titolare di un reddito annuo imponibile, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a euro 9.723,84[10]. Se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso il richiedente[11]. Nel solo ambito dei procedimenti penali, la regola che impone la somma di tutti i redditi prodotti dai componenti della famiglia è temperata dalla previsione di un aumento del limite di reddito che, a norma dell’art.92 del T.U., è elevato ad euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi[12].

Il Patrocinio a spese dello Stato può essere concesso nell’ambito dei giudizi civili, amministrativi, contabili o tributari già pendenti ed anche nelle controversie dello stesso tipo per le quali si intende agire in giudizio. Purché, le loro pretese non risultino manifestatamene infondate, possono richiederlo: i cittadini italiani; gli stranieri, regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo; gli apolidi; gli enti o associazioni che non perseguano fini di lucro e non esercitino attività economica.

L’ammissione può essere richiesta in ogni stato e grado del processo ed è valida per tutti i successivi gradi del giudizio. Se la parte ammessa al beneficio rimane soccombente, non può utilizzare il beneficio per proporre impugnazione[13].

La domanda di ammissione in ambito civile si presenta presso la Segreteria del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, competente rispetto al luogo dove ha sede il magistrato davanti al quale è in corso il processo; o al luogo dove ha sede il magistrato competente a conoscere del merito, se il processo non è ancora in corso; o al luogo dove ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato per i ricorsi in Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti[14].

Il Consiglio dell’Ordine dopo il deposito della domanda valuta la fondatezza delle pretese da far valere e se ricorrono le condizioni per l’ammissibilità, entro 10 giorni emette uno dei seguenti provvedimenti: accoglimento della domanda, non ammissibilità della domanda, rigetto della domanda; indi, trasmette copia del provvedimento all’interessato, al giudice competente e all’Ufficio delle Entrate, per la verifica dei redditi dichiarati. Se l’interessato viene ammesso può nominare un difensore, scegliendo il nominativo dall’Elenco degli Avvocati abilitati alle difese per il patrocinio a spese dello Stato appositamente approntati dai Consigli degli Ordini del distretto della competente Corte di Appello. Se la domanda non viene accolta l’interessato può proporre la richiesta di ammissione al giudice competente per il giudizio, che decide con decreto[15].

In ambito penale le regole sono le stesse quanto ai limiti di reddito, l’ammissione può essere richiesta (e se concessa è valida) per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure derivante ed incidentali, comunque connesse, salvo nella fase dell’esecuzione, nel procedimento di revisione, nei processi di revocazione e opposizione di terzo, nei processi relativi all’applicazione di misure di sicurezza o di prevenzione o per quelli di competenza del Tribunale di Sorveglianza (in questi casi occorre presentare autonoma richiesta di ammissione al beneficio).

La domanda di ammissione in ambito penale si presenta presso l’Ufficio del magistrato davanti al quale pende il processo e quindi alla cancelleria del G.I.P., se il procedimento è nella fase delle indagini preliminari; alla cancelleria del giudice che procede, se il procedimento è nella fase successiva; alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, se il procedimento è davanti alla Corte di Cassazione[16].

Entro 10 giorni, da quando è stata presentata la domanda o da quando è pervenuta (o anche immediatamente, se l’istanza è presentata in udienza) il Giudice competente verifica l’ammissibilità della domanda e può dichiarare l’istanza inammissibile, può accoglierla o respingerla.

Sulla domanda il giudice decide con decreto motivato che viene depositato in cancelleria. Del deposito viene dato avviso all’interessato. Se detenuto, il decreto gli viene notificato. Se l’ammissione è chiesta in udienza, il giudice provvede immediatamente. In ogni caso, copia della domanda e del decreto che decide sull’ammissione al beneficio sono trasmesse all’Ufficio delle Entrate territorialmente competente per la verifica dei redditi dichiarati.

Contro il provvedimento di rigetto, l’interessato può presentare ricorso al Presidente del Tribunale o della Corte di Appello entro 20 giorni dal momento in cui ne è venuto a conoscenza. Il beneficio non è ammesso nei procedimenti penali per evasione di imposte; se il richiedente è assistito da più di un difensore.

Ciò che appare evidente è che l’aver ancorato ancora una volta il concetto di “non abbienza” ad un criterio oggettivo fisso, concernente il solo reddito, senza tener conto, del variabile costo dei singoli processi, comporta una limitazione significativa all’accesso degli aventi diritto, astratta e scarsamente conforme alle finalità del dettato costituzionale.

Questo comporta anche che sono frequentissimi i casi in cui soggetti non abbienti (senza fissa dimora o extracomunitari), non accedono al “gratuito patrocinio” in materia penale e ugualmente non sono in grado di pagare le spese dell’avvocato d’ufficio; l’art.116 del T.U. spese di giustizia, prevede che l’onorario e le spese spettanti al difensore d’ufficio “sono liquidati dal magistrato quando il difensore dimostra di aver esperito inutilmente le procedure per il recupero dei crediti professionali…” dunque, in ultima analisi, sempre “anticipate” dall’erario, che a sua volta mantiene solo un formale diritto al recupero delle somme dal soggetto tenuto, che spesso si rende irreperibile, forma neanche tanto “occulta” di difesa d’ufficio “gratuita”, ma sempre più costosa per le finanze pubbliche.

 

«”La legge è uguale per tutti”

è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici,

sulla parete di fondo delle aule giudiziarie;

 ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa,

è indispensabile l’aiuto di quella ricchezza che egli non ha,

allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria»

Piero Calamandrei



[1] Nell’immagine “La Giustizia” di Piero Bargellini, Firenze 1929

[2] L’art. 97 c.p.c. prevede che il difensore d’ufficio sia nominato dal giudice o dal pubblico ministero sulla base di un elenco di difensori predisposto dal Consiglio dell’ordine forense, d’intesa con il Presidente del Tribunale. Il difensore d’ufficio ha l’obbligo di prestare il suo patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato motivo. Le spese della difesa di ufficio sono a carico dell’imputato.

[3] L’art. 24 della Costituzione, prevede un vero e proprio obbligo per lo Stato di garantire a tutti l’esercizio del diritto di difesa: comma 2 “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento

[4] Cfr. “Difesa d’ufficio e gratuito patrocinio. Aspetti sociologici e giuridici” di Grazia Macrì, in www.altrodiritto.unifi.it

[5] In questo modo le previsioni dell’art. 24 rappresentano l’attuazione del principio di uguaglianza “sostanziale” sancito dall’art. 3 della Costituzione. Infatti la garanzia di un’effettiva assistenza legale per i non abbienti rappresenta uno degli obblighi dello Stato diretti a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana oltre che l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

[6] Vedi art. 6, comma 3, lett. c) della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma 4 novembre 1950); Patto internazionale dei diritti civili e politici (New York 19 dicembre 1966), art. 14, comma 3, lett. d).

[7] Nel 1861, durante l’unificazione d’Italia, venne esteso a tutto il Regno l’istituto dell’Avvocatura dei poveri, che affidava la difesa dei non abbienti ad uffici statali formati da giuristi nominati e stipendiati dallo Stato. L’Avvocatura dei poveri era stata creata dallo Stato sabaudo piemontese, ma, nello Stato unitario, ebbe vita breve. Infatti, con la cosiddetta legge Cortese (n. 2626 del 1865) il governo, adducendo ragioni di riduzione della spesa pubblica, aboliva gli uffici pubblici di assistenza ai poveri ed introduceva il sistema del patrocinio gratuito come ufficio onorifico ed obbligatorio del ceto forense. Successivamente, con il R.D. 30 dicembre 1923 n. 3282, l’assistenza giudiziaria dei non abbienti fu disciplinata in modo organico. Si passò definitivamente da un sistema di assistenza pubblica ad uno basato esclusivamente sulle prestazioni dei liberi professionisti. I presupposti per la concessione del patrocinio gratuito erano: lo stato di povertà e la probabilità dell’esito favorevole della causa (in modo che la parte perdente potesse poi pagare le spese). Inoltre, la decisione sull’ammissione al gratuito patrocinio era affidata ad una commissione mista, a carattere amministrativo e non giudiziario. A seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, tale previsione fu aspramente criticata in quanto faceva dipendere l’esercizio del diritto dalla valutazione di un organo amministrativo, violando così il principio contenuto nell’art. 24, comma 1, e il principio del giudice naturale di cui all’art. 25 della Costituzione. Nonostante i numerosi tentativi e proposte di legge, la disciplina del R.D. del 1923 è rimasta in vigore per molti anni (per più di un secolo), visto che ricalcava appieno la disciplina preesistente del 1865. Cfr. Macrì, cit. sopra

[8] Questa legge, ha introdotto nel nostro ordinamento il principio della retribuzione a carico dello Stato dei difensori (e degli altri soggetti) che prestano la loro opera a favore del non abbiente.

[9] Artt. dal 74 al 141 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – D.P.R. 30/05/2002, n. 115, cfr. la voce “Patrocinio a spese dello Stato” sez.Servizi per il cittadino, su www.giustizia.it, sito istituzionale del Ministero della Giustizia.

[10] Nonostante tale importo sia stato innalzato (DM 29 dicembre 2005 Adeguamento dei limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato – GU n. 27, 2 febbraio 2006), rispetto alla previsione originaria di Euro 9.296,22, prevista dell’art. 76 del T.U. 115/2002, proprio tale limite costituisce, a parere di molti operatori del settore giudiziario, il principale ostacolo all’effettivo accesso dei non abbienti ad una assistenza legale gratuita, dato che è difficile affermare che un soggetto con tale reddito sia “benestante”, o anche solo in grado di sostenere oneri legali per tutta la durata del procedimento.

[11] Eccezione: si tiene conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi.

[12] Bisogna ora individuare in cosa consiste questo ‘costo della giustizia’. Quali sono le spese principali, da sostenere per agire e difendersi in un giudizio? Innanzi tutto possono esservi: a) ‘spese processuali’ in senso stretto, ossia dipendenti dal compimento di atti di un determinato processo, b) ‘spese stragiudiziali’, ossia quelle che la parte si trova a compiere per il miglior esito del processo. Alla prima categoria, appartengono le cosiddette ‘spese fiscali’, cioè le somme a beneficio dell’amministrazione finanziaria dello Stato, da corrispondersi, in occasione del compimento dell’atto, in particolare; le cosiddette ‘tasse’ di registro e di bollo.

Nella seconda categoria, possono farsi rientrare, anche gli ‘onorari difensivi’, le somme quindi che il difensore deve percepire per la sua opera, essendo egli un libero professionista. Il costo del difensore in un processo, non è un costo irrisorio, fattore questo che crea maggiore svantaggio per chi non ha i mezzi sufficienti per affrontare la spesa.

[13] Questo aspetto costituisce un indubbio limite, considerando la frequenza con cui nel nostro sistema giudiziario le sentenze vengono ribaltate nei diversi gradi di giudizio.

[14] I moduli per le domande sono disponibili presso le stesse Segreterie del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. La domanda deve essere presentata personalmente dall’interessato con allegata fotocopia di un documento di identità valido, oppure può essere presentata dal difensore che dovrà autenticare la firma di chi sottoscrive la domanda. Può essere inviata a mezzo raccomandata a.r. con allegata fotocopia di un documento di identità valido del richiedente. La domanda, sottoscritta dall’interessato, va presentata in carta semplice e deve indicare:- la richiesta di ammissione al patrocinio; – le generalità anagrafiche e codice fiscale del richiedente e dei componenti il suo nucleo familiare; – l’attestazione dei redditi percepiti l’anno precedente alla domanda (autocertificazione); – l’impegno a comunicare le eventuali variazioni di reddito rilevanti ai fini dell’ammissione al beneficio;- se trattasi di causa già pendente; – la data della prossima udienza; – generalità e residenza della controparte;- ragioni di fatto e diritto utili a valutare la fondatezza della pretesa da far valere;- prove (documenti, contatti, testimoni, consulenza tecniche, ecc. da allegare in copia).

[15] In caso la decisione da parte del Consiglio dell’Ordine non pervenga entro termini ragionevoli, l’interessato può inviare una nota al Consiglio dell’Ordine stesso e per conoscenza al Ministero della Giustizia – Dipartimento Affari di Giustizia – Direzione Generale della Giustizia Civile- Ufficio III.

[16] La domanda deve essere presentata personalmente dall’interessato con allegata fotocopia di un documento di identità valido, oppure può essere presentata dal difensore che dovrà autenticare la firma di chi sottoscrive la domanda. Può, inoltre, essere presentata dal difensore direttamente in udienza. Potrà anche essere inviata a mezzo raccomandata a.r. con allegata fotocopia di un documento di identità valido del richiedente. Se il richiedente è detenuto, la domanda può essere presentata al direttore dell’istituto carcerario; se è agli arresti domiciliari o sottoposto a misura di sicurezza ad un ufficiale di polizia giudiziaria. Questi soggetti ne curano la trasmissione al magistrato che procede; se il richiedente è straniero (extracomunitario), per i redditi prodotti all’estero, la domanda deve essere accompagnata da una certificazione dell’autorità consolare competente che attesti la verità di quanto dichiarato nella domanda (in caso di impossibilità, quest’ultima può essere sostituita da autocertificazione).

 

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