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Irlanda: dallo stagno alla torbiera

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Appunti, sparsi di viaggio
 
Lo scisma ha scelto proprio questa terra, zona franca di dissidi e razzie, a tutt’oggi sfruttata e poco valorizzata per quanto, a tratti, supportata dall’Europa. L’Irlanda è figlia fragile dell’ultima glaciazione, quella che 10.000 anni fa la separò ma non la allontanò dalla Gran Bretagna, destinandola piuttosto ad una lunga deriva.
Nel 1541, il sovrano inglese Enrico VIII, si fece incoronare dal Parlamento re d’Irlanda, dopo aver divorziato da Caterina d’Aragona in un periodo in cui l’unico pericolo in terra irlandese è rappresentato dalla famiglia dei nobili Fitzgerald, almeno leggo così sulla mia lonely planet tutt’altro che tascabile. Intanto prendo qualche appunto mentre comprendo che Dublino non è classificabile se non come sintesi di molteplici storie fatte di colonizzazioni e desiderio di autodeterminazione. Percepisco sommariamente un paesaggio anglosassone accostato a quello olandese più orangista, a quello francese, al tedesco. E’ un paesaggio non rielaborato, come se nelle corde di questo popolo avesse importanza la giustapposizione rispettosa ancor prima dell’integrazione vera e propria, quella che rende sottile il confine delle differenze. Anche la cattedrale dedicata a Cristo che si chiama Church e Cathedral insieme, nasconde un percorso architettonico di stratificazioni storiche che hanno origine da una chiesa vichinga. La Christ Church Cathedral preserva un’ulteriore bizzarra attrazione: una macabra teca di vetro contenente un gatto ed un topo mummificati, ritrovati nella canna di un organo mentre si rincorrevano nel 1806.
Enrico VIII, dapprima confutò le tesi di Lutero ma poi, quando decise di sposare la dama di corte Anna Bolena, rinnegando la moglie spagnola Caterina, imparentata oltretutto con Carlo V, inventò addirittura una nuova religione riformata: l’anglicanesimo. E’ vero che l’eccessiva ingerenza di Roma, ne è l’evidente scaturigine politica, ma in pieno luteranesimo Enrico si era visto riconosciuto dal Papa il titolo di Difensore della fede. Ecco che la storia inglese del Cinquecento, nell’Europa opulenta e guerrafondaia delle mecenatesche monarchie nazionali, mi appare poco interessata ad un senso profondamente spirituale della religione. Si sintonizza semmai su spinte sentimentali e visionarie oltre che su una solidissima politica matrimoniale. Ulteriori elementi indecifrabili, come l’oscillazione tra la visione del principe e quella del principio, hanno reso questo periodo particolarmente vivace, quasi che tra l’attrito e il trait d’union, si tentasse un compromesso per mettere in campo il potere quanto le idee, in una dimensione che, forse dopo la scoperta della prospettiva, iniziava a caldeggiare la progettualità e l’armonia come forme indiscusse di benessere per l’uomo.
Il clero inglese non solo accettò l’annullamento del matrimonio ma riconobbe Enrico VIII capo della chiesa anglicana, svincolata da Roma grazie all’Atto di supremazia che egli fece approvare dal Parlamento. Per giunta, quasi in competizione con Lutero, introdusse la Bibbia in lingua inglese, represse con violenza i cattolici e nell’ombra allevò una serpe, la sorella, la cattolica Maria Tudor, poi detta la Sanguinaria per la nota repressione contro i protestanti. Dietro l’Irlanda c’è tutta la storia della monarchia inglese, ovviamente, che ad essa si intreccia senza potersene mai affrancare, ma spesso nella storia valgono anche le storie e le storielle, le micro-motivazioni personali o le attribuzioni, oltre ai grandi fatti scanditi dalle date. Letta così diventa meno impressionante LA STORIA. Oppure è un esercizio della memoria, una sorta di enigmistica fatta di trappole e ricorrenze, un modo per giocare ad anticipare il futuro. Sicuramente diverte e appassiona potenziando la parte investigativa di ognuno di noi. Oggi più che mai sembra importante trovare la chiave d’accesso: al futuro, alla sopravvivenza, alla logica. Oggi più che mai si cerca il filo rosso, una metodologia per decodificare il tutto e così il tutto diviene spunto per la catalogazione e il nostro cervello impara a sfruttare meglio i connotati che lo avvicinano ad un microprocessore a svantaggio dei dati emotivi. La catalogazione però, potrebbe rivelarsi la strada giusta e democratica per dare spazio ad ognuno facendolo rientrare in una statistica. Meglio invisibili o schedati?
La storia è utile per capire che esiste una scienza di fatti, date, trattati, paci e dichiarazioni di guerra accanto a una storia indecodificabile che muove l’individuo, come schiavo o come re, ad intraprendere azioni e a credere nella propria immortalità. Una storia fatta di emozioni e coincidenze non troppo logiche, di rimandi, di favolistica magia e scarsa nobiltà d’animo dell’uomo, essere vivente tra i più autodistruttivi del pianeta. La storia può apparire un’anchilosata maniglia che va su e giù senza riuscire mai ad aprire nulla. Eppure, presa nel verso giusto, apre lo sguardo e aiuta a relativizzare. Sembrano averla capita bene gli irlandesi questa necessaria mescolanza tra le saghe nordiche e la realtà, tra la fiaba musicale e la politica, è la fede nella storia che può trasformarsi in leggenda. Sono pieni di arte da condividere, gli irlandesi, orgogliosi sulla strada del riscatto, fieri soprattutto della loro cultura. La capitale è piena di papiri, pergamene, libri miniati provenienti da tutto il mondo, libri di giada, corani risalenti al IX secolo ed esposti gratuitamente nella Chester Beatty Library accanto, per esempio, ad una mostra su Rembrandt. E poi a Dublino è custodito il famoso Book of Kells, uno dei libri più antichi del mondo, contenente i quattro vangeli vergati in latino.
Di certo sono anche, nel bene e nel male, un popolo visionario e pieno di attribuzioni storiche. Si pensi alla vita del patrono San Patrizio a cui si collegano la nascita e la diffusione del cristianesimo. Venne rapito da pirati irlandesi e fatto schiavo, riuscì a tornare in Gran Bretagna ma quando trovò la pace, ebbe delle visioni mistiche che gli indicavano l’Irlanda come paese da evangelizzare e così vi fece ritorno. Yeats e Beckett non sono certo da meno in materia di visioni e difficile redenzione dalla marginalità, non solo quella di alcuni individui, almeno per Beckett, ma anche quella degli irlandesi stessi e del genere umano. Forse ogni popolo con difficoltà di sviluppo ed emancipazione, se spinge il suo futuro nella direzione dell’indipendenza, fa paura, più paura di quanto non faccia un popolo tradizionalmente forte. Hanno molta ansia di definizione identitaria a penalizzarli. Il loro NO referendario al trattato di Lisbona sembrerebbe un grido d’aiuto e d’allarme planetario più che un modo di fare spallucce di fronte alla possibilità di cooperare con l’Europa.
O le cose non stanno proprio così?
Può darsi che Enrico VIII avesse sottovalutato la presenza dei vichinghi in Irlanda, già mescolati ai celti a partire dall’VIII secolo. Furono loro a fondare Dublino su un putrido stagno (Dubh Linn significa stagno scuro). Lo stagno, in alcuni casi di non abbandono, è diventato un’utile torbiera, un combustibile protetto in alcune aree e dunque una delle piccolissime economie di risparmio che garantisce sopravvivenza soprattutto nei periodi difficili. I vichinghi sono alla base di ogni opera architettonica irlandese di rilievo, cattolica o protestante che sia, e gli invasori Normanni altro non furono che un gruppo di vichinghi francesi. Guerrieri razziatori, come i loro antenati celti o galli. Resistenti. Avevano compreso l’utilità di unirsi ed integrarsi con le popolazioni autoctone e la necessità di darsi da fare velocemente in situazioni di emergenza e di possibili invasioni. I primi celti invece, erano depositari di una raffinata tradizione del soprannaturale pratica e spirituale insieme, amata da poeti e musicisti e tanto rincorsa da Yeats nel tentativo di riviviscenza delle epopee celtiche e del gaelico nell’Ottocento. Si tratta di quella “druidica malia” di cui parla in Ombre sulle acque, alludendo all’antica religione segreta di questi popoli. Purtroppo gli irlandesi posseggono una solarità cosparsa ancora di una salsedine coloniale che li spaventa e li danna come la cocciniglia per alcune piante. Ma il tracrollo vero e proprio dell’Irlanda ad opera degli inglesi, arrivò agli inizi del Seicento, dopo la cosiddetta “fuga dei conti” dall’isola quando, in assenza di una guida, i protestanti Elisabetta I e poi Giacomo I, imposero il loro dominio con la politica della confisca delle terre ai cattolici, quella plantation da cui ha origine la divisione dell’Ulster.
Eppure se la cavano meglio di noi nella Repubblica d’Irlanda e alla fine hanno tanta fantasia e meno ansia di auto-mercificazione. Certo, se un pacchetto di sigarette costa 7 euro e cinquanta e la produttività è in crisi, qualcosa non va e qualcosa dovrà cambiare. Ad oggi appaiono, tuttavia, meno a rischio di noi in fatto di colonizzazione. Noi italiani, ammesso che abbia senso una comparazione, oscilliamo tra allarmismo, rassegnazione e sacre speranze nascoste, oltre che fra un trend borsistico e l’altro. Sembriamo così confusi che se non ci viene detto dal telegiornale, non siamo in grado di capire se siamo ricchi, poveri, ai confini del baratro, in presunta povertà o in un ipotetico declino recessivo. E così anche il nostro umore tenderebbe ad oscillare tra un’impennata e un ribasso, come se la fiducia tra gli esseri umani potesse dipendere solo da un’attività economica. Forse la globalizzazione, oltre ad accorciare le distanze, ha reso più piccola la percezione della terra e più simili gli stili di vita e i problemi, primo fra tutti l’inspiegabile impossibilità di accettare una scarsa crescita globale e attivarsi rapidamente per riorganizzare il mondo alla luce di questa guaribile malattia.

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