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Dux in Scatola

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È un libro di teatro molto particolare quello che Vi propongo questa volta. Non abbiate paura non si tratta di un libro scritto da un fanatico destroide bensì da un teatrante inquieto, burlone e irriverente, forse convinto umanista, che si pone con il suo sguardo critico al di sopra di ogni categoria-ideologia politica. Daniele Timpano.
Il suo libro: Dux in scatola, autobiografia d’oltretomba di Benito Mussolini edito da Coniglio Editore ne “i Calcestruzzi”, collana di narrativa provocatoria, colta e punk (come si legge nel quarto di copertina oltre a: “D’altronde qualcosa dovrete pur mettere nelle vostre nuove librerie Ikea”…) è la narrazione in prima persona del Duce, o meglio di quello che ne rimase di lui subito dopo la morte: il suo corpo. Un corpo decisamente splatter perché martoriato, sventrato, preso a colpi di pistola sul volto, deformato nel cranio a colpi di manganelli (quelli del popolo che festeggiò la sua morte); un corpo che infine puzza mentre imputridisce dentro un baule che si fa un giretto per l’Italia del dopo guerra. Un corpo e un “capo deforme per sfacelo scheletrico” che spaccato vede uscire un cervello da sezionare e studiare: una parte a Milano all’Istituto di Medicina Legale e l’altra “in vacanza all’ospedale Santa Elisabetta di Washington”, un po’ come è successo al protagonista di L’innaffiatore del cervello di Passannante spettacolo di Ulderico Pesce, che come Timpano in parte si inserisce nel filone degli autori-attori del Teatro e Narrazione.
Il testo infatti a livello formale ricalca il monologismo a volte descrittivo, a volte soggettivo, altre esplicitamente documentaristico degli autori del Teatro e Narrazione (che sono ormai parecchi e tra gli ultimi la tendenza è stata di passare dall’orazione civile pseudo-didattica all’orazione sociale con contrappunti poetici). Timpano però che prende istanza da un universo teatrale fatto di alterità artistiche (cosa che del resto contraddistingue la rassegna Ubu Settete – fiera di alterità teatrali romane di cui ha curato insieme ad altri l’ideazione e l’organizzazione); è portatore di una voce altra, una voce stanca di far parte di clichè rassicuranti, una voce che è contraddittorietà perché si fa carico di punti di vista diversi anche fra i più insoliti. E allora mentre la scena descritta è quella di Loreto l’autore si sofferma ad interpretare il pensiero di Mussolini che in quel frangente mentre la folla urla il suo nome, lui molto ingenuamente ed egocentrico ci dice: “gridava la gente, e la gente è l’Italia, che viene a vedermi, che salta anche la messa per venire a trovarmi.”
La scrittura si fa a volte – come in questo caso appena citato – poetica e musicale, riscoprendo anche nella prosa la rima, quasi si volesse far carico dell’antica tradizione della ballata. E a livello contenutistico è un continuo ribaltamento del punto di vista: dall’io Mussoliniano che è in scena sia nel corpo dell’attore che all’interno del baule (unico elemento scenografico) all’io dell’autore che è Daniele Timpano, autore per l’appunto e narratore.
È come investito da una “sindrome” che ricorda artisti come Peter Sellers, l’interprete multiplo del Dr. Stranamore di Kubrick; e così come il Dr. Stranamore anche Timpano inevitabilmente e quasi come a causa di un tic patologico e imprevisto, di tanto in tanto esce una mano dal pugno chiuso o interpreta il saluto romano. In questo caso: Io è un altro e un altro e un altro. E non poteva essere diversamente per un autore inquieto come Timpano, un autore che perde continuamente il centro della sua narrazione, un autore super-effettato che ci avverte: “Questa storia la racconto molto bene” – svelandosi nella sua funzione scenica di narratore come afferma in post-fazione Antonio Audino – “Ma ve la racconto dopo”. Negazione dunque. Negazione della storia in se e negazione di un senso, un messaggio moraleggiante, tanto che a volte il carnefice (Mussolini) si identifica con la vittima.
Più inquietante è invece il risvolto contemporaneo della vicenda: l’autore infatti oltre ad essersi documentato sulle vicende del ’45 e della scomparsa del corpo del Duce nel ’46 (che tra l’altro ci fa sapere che l’avevano portato in montagna dopo varie ridicole peripezie…) ci informa di gruppi neo-fascisti o sulla Madonna del Fascio o ancora ci descrive l’episodio di quando andò a visitare la tomba di Mussolini: “Ma è solo qui a San Cassiano, a Predappio, che ho avuto paura. Mi sono sentito circondato, indifeso, alla mercè dei presenti: fascisti gli occhi, fascisti le facce, fasciste le foto del duce listate di nero, fasciste le targhe all’entrate e all’uscita, fascista lo statuto della guardia d’onore che è appeso all’ingresso, fascista la testa di marmo del duce, […] fascisti i vivi, fascisti i morti. Qui sotto, davanti a te, che sei me, solo fascismo e fascisti.” – e conclude poi così – “E io che c’entro? Che c’entra Benito con Timpano? Oddio, no! lo sapevo! Non dovevo venire: oggi ho la faccia troppo giudea. Dovevo farmi la barba… la plastica al naso… costruirmi un corpo vero con un po’ di ginnastica… o almeno portale le lenti a contatto! Pugno chiuso: viva l’Italia!
Così pressappoco finisce questo testo che tra l’altro è estremamente pungente anche nei titoli che l’autore dà alle varie scene, per citarne alcuni: L’Italia siamo io, riferendosi all’egocentrismo del Duce, o Benito in montagna alludendo alle villeggiature borghesi o ancora Upim! che starebbe per Uniamoci Per Impiccare Mussolini, ma poi si corregge ricordandosi che Upim è un grande magazzino e sulla scia ci ricorda che comunque a Predappio si possono trovare: “bronzi, buste, tazze, santini e quadretti” con la faccia del Duce, “quadretti magnetici… quelli che si attaccano al frigo; trovate il manganello “Me ne frego” – 35 cm, legno nero con impugnatura marrone chiaro, scritta 1° lato, appunto, “Me ne frego”, scritta 2° lato “Dux Mussolini”, euro 12,50 + IVA -, ma trovate anche il vino del duce “Barcollo ma non molla”, la birra del duce e il liquore del duce – disponibile nella sua confezione mignon da sei pezzi.”

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