La sabbia nera di una spiaggia. Un’isola inospitale. Un punto strategico.
Ci ritroviamo a Iwo Jima, solo che questa volta le cose le vedremo dal punto dei vista dei giapponesi. Ancora uomini, per lo più ragazzi, alle prese con qualcosa più grande di loro. La guerra.
Eastwood mantiene la sua promessa. Il suo manifesto antimilitarista è adesso completo. Non esistono più vincitori e vinti, buoni o cattivi, ci sono solo esseri umani in mezzo all’inferno.
Tutto parte (e finisce) dal ritrovamento, dopo quasi sessanta anni, di alcune lettere che i soldati giapponesi avevano scritto ai loro cari. Tra quelle parole il senso di una dimensione (quella della guerra) che è veramente impossibile capire da lontano. O meglio se ne scorgono i confini, le immagini ci aiutano a visualizzarla, l’orrore ce ne mostra la natura, ma l’essenza, la vera essenza, è qualcosa che appartiene solo a chi ha combattuto, a chi è morto e a chi è riuscito a farcela.
I giapponesi mostrano un senso della disciplina completamente assente dalla nostra mentalità. Una disciplina che se da un parte ha dentro di sé già il seme della propria grottesca natura dall’altra rivela una forza morale incredibile. L’obbedienza, il comando, la lealtà diventano valori che assumo una valenza eroica proprio perché legati alla cieca fiducia nella parola dei superiori. Si dimostra in questo modo di essere uomini, di non avere paura. Un comportamento che al di fuori delle logiche di guerra sarebbe però di assoluta stupidità. E’ questo uno dei paradossi sui quali mi fermo molto a riflettere. La guerra è un cambiamento totale degli schemi mentali dell’uomo. Diventano importanti cose che nella vita civile non hanno valore. E in nome di queste regole (quindi qualcosa di puramente arbitrario) si muore e si uccide. L’aspetto ludico della guerra, vista con occhio razionale e distante, è palese. Con i suoi regolamenti e i suoi obiettivi.
Clint Eastwood continua a narrare in una maniera classica e magistrale. Usa il montaggio come strumento narrativo, le dissolvenze come passaggio obbligatorio per entrare nei ricordi, la musica come elemento emotivo o descrittivo (o con un effetto straniante come nell’allucinante sequenza in cui alcuni comandanti giapponesi ascoltano una canzoncina cantata da un coro di bambini nipponici con la certezza che la morte è ormai vicina), le note di un piano che aleggiano sulle sponde dell’isola ormai deserta danno il senso del tempo passato, dell’inutilità della morte di migliaia di uomini, perché l’isola ancora esiste, silenziosa e solitaria, a testimoniare di come le cose passino e rimangano immutate. La natura non può che rimanere indifferente davanti a tanto orrore.
E poi ancora il grande lavoro sul colore, sui bianchi e sui neri. L’isola si trasforma ancora una volta in qualcosa di infernale, gli uomini che ci camminano sopra non sono ancora demoni, ma fantasmi, quello si.
E in mezzo a tutto questo c’è ancora chi cerca di mantenere la propria umanità, chi ancora riesce a conciliare gli obblighi delle regole militari con quelli della propria anima e dei propri ideali.
Clint Eastwood riesce ancora una volta a non cadere in facili moralismi ma ricerca quelle componenti umane (uguali per tutti, sia nell’orrore che nella bontà) che ci mostrino l’uguaglianza dei nostri simili. E quindi una ricerca che scavi nelle paure, negli istinti omicidi, nel senso di pietà, per portare alla luce tutto quello che ci accomuna e che per questo rende ancora più assurdo l’uccidersi a vicenda, il togliersi la vita in nome della fede nella propria patria.
La sabbia nera.
Testimone muto dell’orrore.
Perché del rosso del sangue non è rimasto più nulla.
Solo il mare che continua il suo ciclo.
Sole vite distrutte che nessuno potrà più creare.