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Intervista con Mirco Ballabene

12 min read

Comunicato Niafunken

Mirco Ballabene – 7 composizioni improvvisate per contrabbasso solo

In cd e digitale dal 10 febbraio 2023 da Niafunken

“7 composizioni improvvisate per contrabbasso solo” è il primo disco in solo del contrabassista Mirco Ballabene. I brani sono tutti improvvisati e quattro dei sette sono dedicati a grandi contrabbassisti dalle cui tecniche caratterizzanti sono state ispirate le improvvisazioni stesse: il doppio pizzicato di Mark Dresser, il tremolo di Joëlle Léandre, la cavata di Peter Kowald o l’alternanza fra note ordinarie e armonici di Stefano Scodanibbio. Ballabene parte da queste tecniche e tenta di sviscerarne le possibilità, focalizzandosi su ciascuna di esse o forzando lo strumento per condurle al parossisimo. Un’improvvisazione, invece, è dedicata al grande compositore Salvatore Sciarrino, perché ispirata proprio all’ascolto della sua opera per flauto solo, nonché dalla sua esplorazione di certi ambiti dinamici e processuali, nel tentativo di riprodurre il respiro. L’unica composizione improvvisata in cui si utilizza una preparazione sullo strumento è la n. 6, in cui dei chiodini giocattolo di plastica colorata vengono inseriti sulle corde per ottenere le sonorità dei quattro movimenti che la compongono.

Perché composizioni improvvisate e non composizioni istantanee? Perché i brani sono stati costruiti nel tempo, attraverso molte esecuzioni e aggiustamenti, proprio come se fossero delle composizioni, in un certo senso, ma, al contrario di queste, non sono mai stati scritti e all’atto pratico restano delle improvvisazioni, anche se le gestualità o la direzione del brano possono risultare molto simili fra un’esecuzione e l’altra. In definitiva, il tentativo è quello di improvvisare creando della musica da cui possa emergere un pensiero strutturato e un sentimento della presenza che non sempre è scontato riuscire ad esprimere quando si improvvisa, quando cioè, le gestualità, le dinamiche e i respiri non sono stati fissati su carta dopo mesi, o a volte anche anni, di riflessioni. Inoltre si tende ad una forte riconoscibilità di ciascun brano rispetto agli altri, privilegiando la dimensione verticale dello scavo in profondità, piuttosto che la dimensione orizzontale della pluralità.

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https://kultunderground.org/art/39300/

Intervista

Davide

Ciao Mirco e ben tornato su Kult Underground. Due anni fa parlammo di “Right to party”, lavoro in quartetto. Per esplorare il tuo strumento, attraverso alcune specifiche tecniche, hai scelto invece la modalità solista. Perché e come è cresciuta questa esigenza?

Mirco

Grazie Davide per avermi invitato di nuovo su Kult Underground, è un vero piacere.

L’esigenza di pubblicare un lavoro in solo è nata dallo studio sullo strumento che, negli ultimi anni, soprattutto durante la pandemia, è stato piuttosto intenso. A un certo punto ho sentito il bisogno di fermare il frutto dei miei studi in una registrazione, perché per me la pubblicazione di un disco è sempre un passo importante per definire il punto in cui mi trovo in quel determinato momento. Inoltre mi sentivo quasi in dovere di realizzare, con le tecniche studiate, un prodotto artistico che fosse compiuto, per assumermi la responsabilità della creazione, senza cullarmi troppo nel confortevole ambiente degli studi domestici. Insomma, penso che tra i doveri dell’artista che voglia definirsi tale, ci sia anche quello di esporre al mondo il proprio operato e, ripeto, di assumersene la responsabilità. Tutto ciò, per quanto mi riguarda, comporta un’ulteriore fase di studio e approfondimento che rappresenta comunque, nel bene e nel male, una crescita personale.

Davide

Il doppio pizzicato di Mark Dresser, il tremolo di Joëlle Léandre, la cavata di Peter Kowald o l’alternanza fra note ordinarie e armonici di Stefano Scodanibbio. Quali peculiari e ulteriori possibilità hai potuto comprendere e sviscerare da queste tecniche?

Mirco

Diciamo che, portando all’estenuazione queste tecniche, ho tentato di esplorarne le possibilità per creare dei brani che si fondassero quasi completamente su di esse. Quindi parlerei di possibilità compositive ed espressive, più che di ulteriori possibilità tecniche. Per ottenere ciò mi sono imposto anche una certa durata per ogni brano, in modo tale da non accontentarmi di una semplice esposizione della tecnica, bensì cercando di creare qualcosa che fosse realmente un pezzo d’arte dotato di una sua autonomia, per così dire, e di una forte impronta espressiva. Questo discorso vale soprattutto per le composizioni improvvisate dedicate a Mark Dresser e a Stefano Scodanibbio, che realmente si basano perlopiù sulle tecniche da te citate (nel brano dedicato a Dresser c’è anche spazio per il doppio glissato, che ho mutuato sempre dal contrabbassista californiano). Per quanto riguarda invece le composizioni improvvisate dedicate a Kowald e Léandre direi che questi grandi musicisti e interpreti sono stati all’origine di una suggestione che mi ha condotto ad immaginare i brani a loro dedicati, in quanto la cavata del primo e il tremolo della seconda sono le loro peculiarità che più mi sono rimaste impresse ascoltandoli, ma poi le mie improvvisazioni sono andate anche in altre direzioni.

Davide

Sei anche alla ricerca di una tua peculiare invenzione nel suonare il contrabbasso? È la prima volta, per altro, che ascolto un contrabbasso preparato, se ho capito bene, in questo caso, con i chiodini di Quercetti, gli stessi – suppongo – le cui teste colorate appaiono sulla copertina…

Mirco

Sinceramente mi interessa molto di più creare musica con le tecniche che già esistono e che sono veramente tante. Non credo che un artista contemporaneo, oggi debba farsi prendere troppo dalla smania di ricercare l’originalità del modo di suonare in sé, perché credo molto nello sviluppo del percorso sonoro o nell’orchestrazione di elementi non così originali ma che insieme possano dar vita a una musica che possa ancora affascinare e, perché no, definirsi bella. Quando lo scopo del fare musica diventa stupire con i modi più assurdi di suonare lo strumento, poi si rischia di scadere nel ridicolo in un attimo e magari non si approfondiscono le tecniche che già esistono per creare musica degna di esistere. Voglio dire, dopo Scodanibbio e Kowald, si fa fatica a pensare a nuovi modi di suonare lo strumento, eppure non è che in giro non esistano contrabbassisti estremamente bravi e personali (penso a Brandon Lopez ad esempio). Molte tecniche che gli improvvisatori utilizzano provengono dalla musica contemporanea, poi sta all’utilizzo che se ne fa.

Detto questo può capitare di trovare delle preparazioni a cui ci si affeziona e che non hanno una tradizione neanche nell’ambito delle preparazioni stesse. Sicuramente per me è stato il caso dei chiodini Quercetti, ma che, appunto, sono una preparazione e che, quindi, non definirei un modo nuovo modo di suonare il contrabbasso. Li ho utilizzati per la Composizione improvvisata n. 6 perché, di nuovo, mi interessava approfondire le possibilità di questa preparazione che da anni mi accompagna, ma che avevo utilizzato solo in improvvisazioni estemporanee e mai per dare vita a un brano che, considerati i quattro movimenti, supera i dieci minuti.

Davide

Vorrei approfondire il tema della ossimorica “composizione improvvisata”, cosa cioè hai stabilito e fissato e stratificato in precedenza, quindi in qualche modo composto anche se non scritto sulla carta, e cosa c’è stato di estemporaneo. Inoltre, in che modo hai qui anche continuato il discorso dell’improvvisazione timbrica che ha caratterizzato il precedente lavoro “Right to party”?

Mirco

Potrei dire che ho stabilito e fissato tutto, senza stabilire e fissare niente, perché i brani sono stati provati molto prima di essere fermati su disco e molte di queste prove le ho registrate a casa e riascoltate per capire come correggere il tiro o se inserire elementi strutturali più stringenti che spesso emergevano dalle improvvisazioni stesse. Le ho volute chiamare così, perché di estemporaneo non hanno molto, visti i diversi mesi in cui ci ho lavorato, ma allo stesso tempo non sono scritte e di fatto ogni esecuzione è diversa dall’altra, anche se il risultato risulta certamente simile. Ciò che potrei considerare totalmente estemporaneo è il respiro che ogni esecuzione può avere, nel senso che riuscire ad improvvisare in maniera naturale e non forzata, pur avendo dei parametri da rispettare e un processo da seguire, è un aspetto che ritengo molto affascinante per la mia pratica esecutiva, perché richiede un livello di controllo molto elevato che, per quanto mi riguarda, non è così scontato quando si improvvisa. Questo vale sia per i brani più frenetici per cui non bisogna assolutamente interrompere il flusso (penso alle composizioni improvvisate n. 2, 4, 6 e 7), che in quelli più introversi, per così dire, in cui la temporalità del respiro diventa essa stessa un elemento espressivo fondamentale alla riuscita dell’esecuzione (penso alle composizioni improvvisate n. 1, 3 e 5). Ovviamente anche l’esecuzione di brani composti richiede un controllo molto elevato, ma di un altro tipo secondo me e poi quest’ultimo ambito non è l’ambito in cui mi muovo io, quindi non si tratta di dire quale forma di controllo sia la più difficile da ottenere, ma quale forma di controllo ci interessa approfondire e per me resta quella dell’improvvisazione, nonostante l’interesse che nutro anche per la composizione sia elevato.

In definitiva ho scelto il sintagma “composizione improvvisata”, perché penso che comporre l’improvvisazione sia la strada che intendo seguire, dato che troppo spesso le improvvisazioni pure, ammesso che esistano, oggi mi lasciano un certo senso di insoddisfazione. In questi termini comporre il timbro di una certa improvvisazione per me è fondamentale e quindi credo che il discorso avviato nelle improvvisazioni di Right to Party continui, oltre al fatto che mi interessa creare più agglomerati timbrici che linee melodiche, come credo si capisca ascoltando anche questo disco, brani cioè fortemente caratterizzati dal punto di vista timbrico e che, da un certo punto di vista, non vanno da nessuna parte, ma vivono di una loro dinamicità e variabilità interna, nel tentativo semplicemente, si fa per dire, di farli esistere.

Davide

Con questo lavoro, in realtà, sei andato oltre il jazz, in un territorio sperimentale che rientra secondo me nella categoria della musica classica contemporanea. O, meglio: «Un tempo nella definizione di musica contemporanea si comprendeva la tendenza alla ricerca e alla sperimentazione, poi si è cominciato a definire contemporanea qualsiasi forma d’espressione musicale che appartenesse al nostro tempo. Allora si è passati a definire questo tipo di ricerca come musica d’arte, ma adesso si tende a chiamare musica d’arte anche il rock, il jazz e la canzone d’autore. Nutro il massimo rispetto per questi generi musicali, per il talento e la professionalità degli autori di tante belle canzoni, quelle che restano nel cuore e accompagnano le nostre vite. Ma questo continuo slittamento del senso delle parole mi inquieta, nella musica e non solo» (Luciana Pestalozza, in Milano, laboratorio musicale del Novecento). Come la definiresti tu?

Mirco

Non so come definirei questa musica. Sicuramente non è jazz, ma non credo possa definirsi neanche musica classica contemporanea, perché non è scritta, anche se gli esiti possono sembrare affini. Forse la definirei musica contemporanea improvvisata, perché è bene ricordare che l’improvvisazione non appartiene soltanto al jazz, ma non parliamo neanche di un tipo di improvvisazione che appartiene a determinate e nette tradizioni storicizzate. Qualcuno in passato l’ha chiamata musica creativa improvvisata, ma in questa definizione c’è già un giudizio di valore che andrebbe lasciato a chi ascolta e non a chi propone.

Davide

Leggevo in questi giorni “Il soccombente” di Thomas Bernhard, un racconto immaginario su Glenn Gould. Per tutta la sua vita, vi ha scritto Bernhard, Glenn aveva avuto il desiderio di essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come intermediario musicale tra Bach e lo Steinwey. “L’ideale sarebbe che io fossi lo Steinwey, che non avessi bisogno di Glenn Gould, diceva…” Chi è Mirco Ballabene intermediario tra il suo strumento e la musica che vi suona?

Mirco

Riuscire ad essere l’intermediario tra lo strumento e la musica che vi suono, sarebbe già una gran cosa per me. Uno degli scopi che mi sono posto con questo lavoro, è stato quello di riuscire a non frappormi, con le mie ansie e i miei ragionamenti, fra la musica e lo strumento; riuscire a far fluire il respiro della musica senza affanni o forzature è l’obiettivo più alto che mi posso porre e quando e se ci riesco, ecco che la musica giunge alle nostre orecchie. Da dove giunga non so, ma resto fermamente convinto, come diceva Proust, che l’artista è un esploratore dell’invisibile che riporta i frutti della sua esplorazione ai sensi umani. Lo strumento è uno strumento appunto, ma anche io, insieme a lui, lo sono: il mezzo, il medium, quello che sta in mezzo, dunque, fra l’invisibile e le sue fugaci epifanie.

Davide

“Morirò senza aver capito le donne e l’intonazione dei contrabbassi”, scherzò una volta Arturo Toscanini. Qual è il tuo rapporto con i microtoni o, viceversa, con il sistema equamente temperato?

Mirco

Quello del sistema non temperato credo sia un ambito che un artista cosiddetto di ricerca abbia il dovere di frequentare e ovviamente la cosiddetta musica classica contemporanea non è nuova a questo tipo di esplorazioni, per non parlare delle musiche extraeuropee. Più interessante trovo il fatto che musicisti come Steve Lehman, ad esempio, abbiano portato i quarti di tono nella composizione e nell’improvvisazione jazz, cosa che fino a quel momento non mi pare fosse accaduta, ma forse mi sbaglio. Poi questi devono essere sempre mezzi votati all’espressione e quindi utilizzati con coscienza e responsabilità, ma certamente dovremmo anche smetterla di pensare che il sistema temperato sia quello giusto o quello migliore e iniziare a considerarlo semplicemente uno dei sistemi di cui poter usufruire. Tra l’altro la sperimentazione armonica era molto più accentuata, da questo punto di vista, prima che arrivasse il sistema ben temperato, ma non mi voglio addentrare troppo in argomenti che sono ancora in procinto di approfondire, desiderio, questo, nato da un incontro con la compositrice italiana Francesca Verunelli che proprio da questo punto di vista sta compiendo una ricerca molto importante.

Detto questo, nel disco utilizzo l’accordatura standard, non quella da solista, con la quale onestamente non mi sono mai trovato bene.

Davide

In questi due anni, poiché anche scrittore, hai scritto e pubblicato qualcosa di nuovo? Stavi anche lavorando a un disco in duo con Lorenzo Binotti.

Mirco

No, non mi definirei scrittore, perché sono anni che non scrivo più nessun saggio critico o recensione letteraria: è stata una strada che ho accarezzato per un po’, ma poi ho capito che ero attratto più dal creare che dal parlare delle creazioni altrui, anche se nutro un immenso rispetto per la figura del critico, la quale oggi troppo spesso invece viene messa in discussione in modo piuttosto becero e volgare.

Detto questo, il duo con Lorenzo, PVAR, è ancora in fase di lavorazione, perché abbiamo deciso di prenderci del tempo per riuscire ad ottenere il risultato giusto per noi. Nel frattempo, da qualche settimana in pratica, è nato eKPYrotic, un duo con l’altro mio grande amico e collaboratore Massimiliano Furia, il quale sta sperimentando un nuovo set di percussioni con cui mi sto trovando molto bene; importante in questo progetto lo avrà l’elettronica di sintesi da me realizzata, ambito, questo dell’elettronica, che mi interessa sempre di più. Inoltre in questi anni ho continuato a studiare composizione contemporanea con il Maestro Marco Momi, percorso che mi ha condotto a comporre diversi brani che però non hanno ancora visto una loro prima esecuzione.

Davide

Cosa seguirà?

Mirco

Come dicevo, i duo con Lorenzo Binotti e Massimiliano Furia, coi quali fra l’altro avrei in cantiere anche un trio di miei brani, dovrebbero essere i progetti che per primi potrebbero vedere la luce in versione discografica. Per il resto si stanno affacciando all’orizzonte nuove collaborazioni di cui però ancora non mi sento di parlare, perché ancora non si sono concretizzate, ma sicuramente la possibilità di conoscere e incontrare nuovi musicisti con cui condividere un percorso duraturo per me resta la cosa più importante, anche perché a questo punto il lavoro in solo è stato fatto e tornerò a lavorarci solamente se avrò una reale esigenza, cosa che potrebbe accadere domani o mai più.

Davide

Grazie e à suivre…

 

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