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Il giovane Holden – J.D.Salinger

17 min read

Il giovane me stesso

 

 

Prima di rileggerlo, de Il giovane Holden ricordavo soltanto la figura di Phoebe.

Ero così piccola, quando l’ho letto la prima volta, da immedesimarmi completamente con la simpatica sorellina di Holden Caulfield, e da necessitare che fosse lei la dissimulata, assoluta, intrinseca protagonista di questo meraviglioso romanzo.

Nel corso di questa rilettura, allora, ho cercato dappertutto la schiacciante prova della predominanza di Phoebe – ricordavo persino il suo nome – e il momento in cui sarebbe apparso lampante che era lei il vero centro di tutto.

Chissà perché, ricordavo perfettamente il momento in cui la piccina si intratteneva a lungo con Holden, in casa sua – non di Phoebe, ma del fratello grandissimo. La casa di Holden, nella mia immaginazione, era quanto di più disordinato si potesse immaginare. Questo ragazzo era infatti un incredibile disadattato. Ricordavo perfettamente la sua sorellina che, in qualche rocambolesco modo speciale, lo traeva d’impaccio e gli salvava la vita.

In mente, ho ancora oggi ben impressa l’immagine per me rappresentativa di questo romanzo: c’è una stanza bianca – forse perché la copertina del libro è tutta bianca, inderogabile scelta di Salinger, che si riflette anche nella veste del suo volume riproposto nei classici di “Repubblica”, e nella quale, credo, si rifletta tutta la sua necessità di un’attenzione pura al testo –, immersa nel disordine, piena di cicche di sigarette – insieme a mia sorella, in quel periodo, ero in piena campagna antifumo contro mio padre, tanto che cospargevamo la casa di biglietti con su scritto “chi fuma avvelena anche di te, digli di smettere” – e con impiantato nel mezzo un divano, altrettanto bianco, ma sporchissimo. Sul divano, nella mia “visione”, è disteso questo vecchissimo Holden, ammalato e incosciente, forse persino drogato.

Intorno a lui, gravita la figura angelica della sorellina Phoebe, neanche troppo piccola, che, come una fatina felice, rimette gaiamente tutto al posto giusto, sollevando Holden dal suo stato di incosciente stupore.

In realtà, quest’immagine è del tutto arbitraria, ma spiega perfettamente chi ero io a quel tempo e in qualche modo denota un punto fondamentale del romanzo, anzi di tutta l’opera di Salinger. Solo i bambini, secondo questo autore, possono infatti redimere, salvare l’uomo dall’orlo dell’abisso.

A proposito della vecchiezza di Salinger e della distorsione delle dimensioni che mi caraterizzava da bambina, però, la spiegazione è un’altra. Mi capitava spesso, prima – ormai sono troppo vecchia anche per questo! – di ricordare, per esempio, una casa, e di definirla “enorme”. Rivedendola dopo anni, mi accorgevo invece che, al più, era costituita solo da uno stanzino e una cucina. Rimanevo esterrefatta. Questo succedeva perché il mio ricordo si riferiva a un’età in cui ero così piccola da vedere tutto con i miei occhi appunto piccolissimi, per i quali ogni cosa risultava sterminata. Ciò mi ispira ancora adesso un’ estrema tenerezza.

Tale sorprendente scoperta non mi capitava più da tempo. Invece ieri mi è capitato di andare a Soverato, in Calabria.

Ci ero stata solo un’altra volta, quando avevo circa sette, otto anni, e volevo fare la scrittrice. Ricordo che, per andare al mare, io e la mia famiglia dovevamo attraversare una via lastricata, pavimentata con certe mattonelle rosse dalle dimensioni abnormi. Questa via era piena di negozi. In molti si vendevano degli oggettini con su scritto “souvenir”. Io, che credevo di trovarmi molto al nord, forse anche fuori dall’Italia, ero convinta Soverato fosse una città di confine, e che “souvenir” fosse il suo nome francese, come accadeva per certi altri, lontanissimi, luoghi. Siccome dovevo sfogare la mia voglia di scrittura anche in vacanza, scrivevo ogni giorno a mia nonna. Ricordo ancora l’intestazione delle mie lettere, in cui spiegavo alla madre di mia madre la doppia valenza di questo nome. Scrivevo

Souvenir (Soverato)

e poi la data.

Solo dopo mia madre mi ha illuminato sul significato di quel termine francese, per il quale io mi ero figurata una storia simile a quella contenuta nel titolo “The Catcher in the Rye”, corrispondente inglese del nostro Il giovane Holden. Nell’edizione italiana di questo romanzo, l’editore spiega profusamente il significato del titolo originale, che si riferisce all’erroneo ricordo che conserva Holeden a proposito di una canzone scozzese di Robert Burns:

 

Gin a body meet a body

Coming through the rye;

Gin a body kiss a body,

Need a body cry?

 

Holden, travisando le parole della canzonetta, la ricorda invece così:

 

If a body catch a body coming through the rye

 

che letteralmente vuol dire: “Se una persona prende un’altra persona che viene attraverso la segale”. Ora, tralasciando i vari significati del titolo, del resto approfonditamente raccontati in ogni studio su Salinger, vorrei sottolineare invece il carattere poetico di questo pensiero, che Holden rivela essere la sua vera aspirazione lavorativa, quando racconta, in merito, a Phoebe che:

 

[…] mi immagino sempre tutti questi ragazzi che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. e io sto in piede sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo far altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia.

 

Questa necessità del giovane Holden, che si ripete nel corso di tutto il romanzo, come un’esigenza di genuinità e di rifiuto delle regole alto-borghesi (o meglio delle regole auto-imposte dall’uomo a se stesso), è, a mio avviso, qualcosa di decisamente poetico, struggente, bello. Ed è, credo, nel mio piccolissimo, lo stesso sentimento che provavo io quando pensavo a Souvenir come al nome francese di Soverato. Avevo immaginato tutta una storia, realistica, intorno a questa evidenza. Lo fanno tutti i bambini. Ma non lo fanno tutti gli adulti. Non lo fanno tutti gli scrittori. Non lo fanno tutti gli uomini, anzi lo fanno, ma inconsapevolmente. E questa è una delle prove – se ne servissero – delle genialità di Salinger che, avulso da termini e concetti eruditi e intellettualoidi, pure racconta la vita vera, regala informazioni importantissime ai suoi lettori anche su concetti di psicologia, elabora parabole per colpirli nel profondo con le proprie teorie.

Nessuno lo aveva mai fatto prima, non in questo modo, almeno. Tutti si erano sempre nascosti dietro una cortina di lacrime raccontando personaggi eroicamente tristi e malandati. Tanto che Salinger si sente in dovere di sottolineare che lui non è come gli altri:

 

Se davvero avete voglia di sentire questa storia, – inizia Salinger, con uno degli incipit più belli e perfetti mai scritti nella storia – magari vorreste sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d’infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto.

 

Ieri sera, inoltre, ho scoperto che i mattoni abnormi con i quali è lastricato il lungomare di Soverato in realtà non sono più grossi di un tascabile Einaudi, appunto di un libro, per esempio, come Il giovane Holden. Che non affatto così enormi come me li immaginavo. Che sono addirittura piccoli.

Le conclusioni che mi balenano in mente sono due. Uno: ormai sono diventata davvero vecchia. Due: con che con che sguardo, con che stato d’animo, si rilegge Il giovane Holden, almeno quindici anni dopo la prima volta?

Risponderò alla seconda auto-domanda. Con gli stessi, meravigliati, ammirati, innamorati occhi di quando avevo dieci anni. Il giovane Holden è infatti una mattonella del lungomare di Soverato, l’unica, che, per magia, mi pare ancora oggi la più grande e magica mattonella mai costruita dall’uomo. Anzi, se è possibile, adesso – che per certi versi capisco molto di più e per certi altri molto di meno – questo romanzo di Salinger mi appare ancora più meraviglioso di un tempo.

Anche per questo ringrazio la letteratura. Perché, davvero, al massimo mi fa diventare sempre più giovane, e in ogni caso non mi lascia mai invecchiare.

Io, invero, al contrario di Holden che, come afferma qualcuno, ha premura di crescere, e presenta già un alto grado di maturità pur nella sua visione del mondo a volte pessimisticamente infantile (lo dice lui stesso), io – e lo dico spassionatamente, che da un po’ è un vocabolo che adoro – non voglio crescere mai più.

Letterariamente, stilisticamente ineccepibile nel suo linguaggio mutuato dallo slang universitario del tempo – si parla degli anni Cinquanta, Sessanta – Il giovane Holden è stato e rimane una vera e propria rivoluzione.

Penso a come si potrebbe riscriverlo oggi, e sorrido sull’uso, da parte dello scrittore, dell’eufemismo “ca…” per indicare il termine gergale che si riferisce al membro maschile – per rimanere anch’io in un tono un po’ più alto, e non scadere nei soliti turpiloqui. Penso che oggi un giovane novellista crederebbe di interpretare la solita rivoluzione solo se parlasse in termini spiccioli, e spesso gratuitamente volgari, di rapporti sessuali sfrenati e ripetuti, di droga, anarchia, rifiuti umani eccetera.

Pur non essendo contro questi temi – in realtà non sono contro niente, nel senso che sono convinta che se qualsiasi cosa, in letteratura, viene adoperata per uno scopo, per comunicare un’idea, un disagio, una sensazione, allora è sempre lecita, qualunque cosa sia; al contrario, invece, quando è gratuito, nulla è permesso –, credo fermamente che uno degli aspetti più sbalorditivi de Il giovane Holden sia proprio quello di fare la rivoluzione con niente. Una rivoluzione semplice, e quindi ancora più rivoluzionaria, che però rivoluziona veramente tutto.

Nel suo libro – fatto di “ca…” e di “maledetto” e di “vecchio” e di “schifo”, e di termini colloquiali, quindi ancora più innovativi per la letteratura manierata del tempo –, J.D. Salinger interpreta infatti perfettamente il suo proprio disagio (è lo stesso scrittore a definire Holden “un giovane me stesso”), disagio che poi gli hyppies hanno voluto fare proprio, e che in generale la gioventù rivoluzionaria degli anni Sessanta, della Beat Generation e via dicendo, anzi “via discorrendo”, come direbbe Holden, ha in qualche modo plagiato, per assumerlo a proprio manifesto.

Ho letto che persino l’assassino di John Lennon leggeva questo libro. Mi ha fatto molto pensare. Penso che J.D. Salinger avesse urgenza di raccontare questa storia, come ebbe urgenza di raccontare la saga della famiglia Grass negli altri suoi libri, come ebbe urgenza di adoperare proprio questo tipo di linguaggio, e non un altro. Come ebbe urgenza di non raccontare direttamente la propria esperienza in guerra, ma di lasciarla sempre trasparire da tutti i propri scritti.

È proprio l’urgenza, infatti, io credo, una delle principali caratteristiche del talento.

Sono perfettamente d’accordo con l’idea di Salinger di ritirarsi per sempre nel suo rifugio di Cornish, nel New Hampshire, a seguito del successo schiacciante degli anni Cinquanta. Sono d’accordo, non perché lo farei, o non lo farei, anch’io. Ma perché, essendo un vero scrittore, uno scrittore enorme, Salinger aveva già descritto nel suo romanzo ciò che avrebbe voluto fare nella vita. E l’ha fatto. Per questo sono d’accordo:

 

Finalmente presi una decisione, la decisione di andarmene. Decisi che non sarei più tornato a casa e che non sarei mai più andato in un’altra scuola. Decisi che avrei rivisto soltanto la vecchia Phoebe per dirle addio e tutto quanto e ridarle i suoi soldi di Natale, e che poi mi sarei diretto all’ovest con l’autostop. Quello che dovevo fare, pensavo, era di andare all’Holland Tunnel e farmi dare un passaggio , e poi farmi dare un altro passaggio, e poi un altro e un altro, e in pochi giorni sarei arrivato nell’ovest, in qualche bel posticino pieno di sole dove nessuno mi conosceva e mi sarei trovato un lavoro. Pensai che potevo trovar lavoro in qualche stazione di rifornimento a mettere benzina e olio nelle macchine. Ma non m’importava che genere di lavoro. Fintanto che loro non mi conoscevano e io non conoscevo loro. Quello che dovevo fare, pensai, era far finta d’essere sordomuto, così mi sarei risparmiato tutte quelle maledette chiacchiere idiote e senza sugo. Se qualcuno voleva dirmi qualche cosa, doveva scrivermelo su un pezzo di carta e ficcarmelo sotto il naso. Dopo un po’ ne avrebbero avute piene le tasche, e per il resto della vita non avrei più sentito chiacchiere. Tutti avrebbero pensato che ero un povero bastardo d’un sordomuto e mi avrebbero lasciato in pace. Mi avrebbero fatto mettere olio e benzina nelle loro stupide macchine, e in cambio mi avrebbero dato un salario eccetera eccetera, e con quei soldi io mi sarei costruito una capanna da qualche e ci avrei passato il resto della mia vita. Me la sarei costruita vicino ai boschi, ma non proprio nei boschi, perché volevo starmene in pieno solo tutto il tempo. mi sarei fatto da mangiare io stesso, e in seguito, se volevo sposarmi o qualcosa del genere, avrei incontrato quella bella ragazza, sordomuta anche lei, e ci saremmo sposati. Sarebbe venuta a vivere con me nella mia capanna, e se voleva dirmi qualcosa doveva scriverlo su un maledetto pezzo di carta, come tutti gli altri. Se avessimo avuto dei figli li avremmo nascosti in qualche posto. Potevamo comprargli un sacco di libri e insegnargli a leggere e a scrivere.

 

In questo brano di questo suo magistrale libro, Salinger a mio avviso spiega perfettamente il perchè della sua scelta, scelta che a mio avviso richiama in modo pazzesco un brano di Christiane F.

Qui, Christiane si sta disintossicando – per la centesima volta, ma ogni volta è quella vera, poichè sinceramente Christiane crede, sempre, che non tornerà mai più alla droga, perché è la droga la vera bugiarda, non la piccola Christiane, dolce amica mia:

 

Quando il terzo giorno i dolori diventarono più sopportabili non feci altro che proiettarmi davanti agli occhi come un film il paradiso. Diventava sempre più concreto: continuavo ad andare a scuola, fino alla licenza liceale, avevo un appartamento mio, una Volkswagen cabriolet stava davanti alla porta di casa, ci viaggiavo quasi sempre col tetto scoperto.

Il mio appartamento era nel verde. […] Erta un appartamento di vecchia costruzione. Ma non era di quei vecchi appartamenti altoborghesi come quelli delle case che danno sulle strade intorno al Kurfurstendamm, con i soffitti pazzescamente alti e gli stucchi. Non era una casa con un salone per ingresso e guide rosse e marmo e specchi e le targhe dei nomi in lettere dorate. Non doveva essere dunque un appartamento di un palazzo che in qualche modo puzzava di ricchezza. Perché ricchezza, mi immaginavo, vuol dire fregatura, agitazione, stress.

Volevo un appartamento in una vecchia casa popolare, con due o tre piccolo stanze, soffitti bassi, finestre piccole e i gradini di legno consumati nella tromba delle scale, dove c’era sempre un leggero buon odore di mangiare e i vicini si affacciavano alla porta e dicevano: “Buon giorno, come va?”. Le scale erano così strette che quando si incontrava un vicino lo si urtava. Tutti in questa casa lavoravano sodo ma erano molto contenti. Non volevano arraffare sempre di più, non erano invidiosi, si aiutavano l’un l’altro, erano infatti completamente diversi dai ricchi ed anche dai lavoratori che abitavano nei casermoni di Gropiusstadt. Semplicemente in questa cada non c’era nessuno che si agitava.

[…] era la pace totale, non sapevo cosa fosse l’agitazione, non avevo nessun desiderio e nessun problema.

 

Nonostante completamente differenti sotto un certo punto di vista – Holden vuole stare solo, al massimo con la sua compagna sordomuta, Christiane invece desidera persino scontrasi fisicamente con le persone del palazzo – i due pezzi, a mio avviso, sono sorprendentemente simili.

In realtà, penso che persino la questione della solitudine sia fondamentalmente omogenea, perché sia Christiane che Holden desiderano più di tutto rapportarsi solo con persone che gli si dimostrano veramente affezionate, vivere nella pace e nella calma più totale. Non avere più alcun desiderio, il che è assurdamente doloroso per un ragazzino. Questi due adolescenti devono avere tanto sofferto da credere che i sogni siano piaghe da evitare come peste.

In questa luce, tra gli altri aspetti, Il giovane Holden si dimostra anche un’accorata richiesta di aiuto, la stessa, terribile, tremenda, inutile richiesta di Christiane, quasi coetanea del nostro eroe. La preghiera, il fallace tentativo di non soccombere sotto i colpi della normalità, di ciò che la morale comune considera giusto o sbagliato. La necessità di essere aiutati.

Ma, molto di più, la dimostrazione che a quattordici, quindici, diciassette anni, si può già aver vissuto abbastanza da implorare, addirittura da sognare, per se stessi, un sogno di assoluto anonimato, di leggerissima auto-conservazione. Leggero nel senso di privo di angosce, di scevro da paure. È agghiacciante, ma è la pura verità.

Nonostante provenga da un aulico mondo alto-borghese, da una famiglia unita e ricca, da una società che lo ama e lo coccola – mentre Christiane è il rifiuto per antonomasia, un essere in qualche modo predestinato al fallimento (si ricordi che per la piccola tedesca anche la smania di suo padre per i viaggi in Tailandia è una droga che serve a sfuggire dall’angoscia buia del presente) – pure Holden ha vissuto il tremendo lutto della morte di suo fratello e, forse a partire da questo, o forse no, ha cominciato a un certo punto vivere criticamente la vita, a sentirsi oppresso dal consueto tracciato che i genitori, che la Storia – se mi è concesso – aveva pensato per lui, come per ogni uomo.

Terrorizzati dall’ignoto, noi uomini infatti tendiamo a trasformare le nostre vite in meri ricalchi, ristampe, delle vite di altri e, dopo il coraggio indiscriminato della giovinezza, diventiamo codardi, paurosi di tutto, indolenti pigri lassisti faciloni, per rifugiarci infine nella noia e nell’oblio, pur di non affrontare i mostri dell’inconsuetudine. Siamo capaci, dopo, per quanto siamo pusillanimi, di mettere all’indice tutti quelli che non sono come noi, io credo soprattutto perché vogliamo dimenticarci che si poteva, che si può ancora, essere diversi, ma noi non lo siamo, non lo saremo mai. E questa orribile verità ci tormenta in ogni momento. Da questa meravigliosa possibilità mancata non sappiamo distaccarci con serenità. Il rimorso ci mangia gli intestini.

È su questo aspetto del libro che voglio soffermarmi, allora, un libro che è una bomba all’interno della società americana del suo tempo, società in cui giovani cercano una voce diversa, e trovano Salinger, e spesso ne traviano il messaggio.

Un libro che è un gioiello. Un libro che è il ritratto di tutti gli uomini del mondo.

Il linguaggio asciutto, irriverente, realistico di Salinger, la personalità schietta, ma così teneramente affettuosa, di Holden (come ho detto, per Salinger solo i bambini possono salvare il mondo), il suo animo bello, colto e sensibile, riconosciuto in pieno dall’equivoco prof. Antolini – non è un caso che l’unico essere umano che, durante tutto il romanzo, elogia a pieno Holden, lo capisce, lo appoggia, sia, probabilmente, un pedofilo, o ancora peggio nulla di particolare, a dimostrazione che non c’è salvezza per il protagonista, che non si fida di questa, magari buonissima, persona -, il suo tentativo continuo di salvare noi, lettori, pubblico, dal commettere i suoi stessi errori, il suo esplicitare continuo, filosofico, psicologico, ma mai erudito, degli elementari processi mentali che, spesso, noi stessi non riusciamo a cogliere, perché scivolano in maniera subliminale, appunto al di sotto del nostro livello di attenzione – come la questione delle anitre di Central Park – all’interno della nostra sfera di incoscienza (dove non li cerchiamo mai), il viaggio, dicevo, da Pencey a New York e poi in giro per questa enorme città senza volto, alla ricerca di se stesso, e in preda a una continua, degente depressione, dalla quale Holden tenta di scappare, e che irrimediabilmente lo lascia sempre più solo, ammalato, disincantato della vita: questo è un volto di Holden, un aspetto di Salinger, una sembianza del capolavoro.

D’altra parte, infatti, lo spirito giovane, fresco del protagonista viene irrefutabilmente alla luce durante tutto lo svolgersi del romanzo, con uscite spassose, brillanti, spregiudicate, insieme alla sua celata dolcezza, al suo amore per tutte le persone – alla fine anche i più cattivi gli mancano – al suo affetto folle per la sorellina, che lo salva.

La chimera di Jane Gallagher, la ragazzina di cui Holden è innamorato ma che non gli si palesa mai, è poi un altro elemento fondamentale del romanzo, in quanto di certo se Jane venisse alla ribalta, se si palesasse, concretizzandosi, nella storia, scadrebbe anche lei in chissà quale abusatissimo clichè, in un comportamento aggressivo o superficiale, in una frase cattiva, scostante, o ancor peggio in un abbandono, un altro abbandono, che Holden non potrebbe sopportare. Meglio, allora, che Jane non si veda mai, e che il suo ricordo divenga tanto più bello, fresco, intelligente affascinante, quanto più il resto del mondo si rivela insulso, buio, abulico, incolore.

Holden nudo, quindi, è un Holden buono, sincero, ricco di inventiva, un cantastorie nato, un genio dell’intrattenimento, un poeta, un ragazzo profondo e perspicace. Insieme molto maturo e tremendamente piccolo, sempre vero, genuino, in continuo rapporto di scambio con il lettore, Holden, l’alter ego di Salinger, è un vivo atto di coraggio e di letteratura.

Come non mai, infatti, lo stesso scrittore che si rinchiuderà dopo il successo del 1953 in un rifugio di Cornish, diviso soltanto con la moglie, lo stesso padre di una figlia che in L’acchiappa sogni ne denuncerà il carattere taccagno, freddo ed egoista, sottintendendo allo stesso tempo una sorta di dolentissima dichiarazione di amore eterno al genitore, lo stesso Salinger che forse non vedremo mai più, ma che rimane nella letteratura di ogni giorno, ci si è già regalato totalmente e spassionatamente con questo meraviglioso documento, come nessun altro fece mai, come neanche cent’anni di frequentazione. Ci ha fornito, ci ha forgiato un eroe – ci ha dato se stesso – che non vuole piacerci, che non tenta, come al solito, di farsi bello, di imbellettarsi, ai nostri occhi, ma che amiamo e comprendiamo più di tutti gli altri.

Ci ha consegnato una vera rivoluzione della letteratura, un documento filosofico (i cui picchi più espliciti si trovano nei due discorsi con i professori), psicologico, sociologico, storico, di costume, scritto con grazia, con estrema poesia. Ci si è svelato, ci si è rivelato, ci si è completamente raccontato. Così tanto che non poteva essere di più. Soprattutto, Salinger ci ha fornito uno strumento di analisi imperituro, una sorta di lente di in gradimento, senza alcun filtro, attraverso la quale esaminare il mondo, stupirsi, addolorarsi, ma anche amare appassionatamente, divertirsi, ridere e, sopra ogni cosa, conservare per sempre il nostro animo fanciullo, l’unico, anche secondo me, in grado di salvarci, quando tutto ci sembra perduto. Quando siamo veramente soli, e non riusciamo neanche a vederla più, una strada.

 

Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.

 

La rivoluzione letteraria e umana, in questo meraviglioso finale, si compie senza appello. Cosa c’è, infatti, di più sovversivo, di un libro, un pezzo di narrativa così riuscito, tanto perfetto, che inciti a gran voce – perché il finale, come si sa, purtroppo molte volte ci rimane impresso più di tutto – a non scrivere, a non leggere, a non parlare di se stessi con nessuno, un libro che si penta di aver raccontato, che predichi di tenersi per sé i sentimenti e le sensazioni, se non si vuol passare la vita a soffrire, e a rimpiangere quello che è stato?

E soprattutto un giovane, un appena diciassettenne alto-borghese, come può essere già conscio di tutto ciò, senza apparire mai, nemmeno una volta, falso e costruito, ma lasciandoci in testa, nel corpo, un’impressione viva di carne, sangue e muscoli?

Eppure succede, eppure è così, amici miei, come la terra, per Galilei, si muove intorno al sole.

 

Bibliografia di Salinger

marzo/aprile 1940 – I giovani amici, racconto di debutto di Salinger pubblicato sulla rivista Story Magazine

1948 – Un giorno perfetto per i pescebanana, racconto che segna l’inizio della collaborazione di Salinger con il New Yorker

1953 – Nove racconti

1961 – Franny e Zooey

1963 – Alzate l’architrave, carpentieri

1963 – Seymour-Introduzione

(gli ultimi tre romanzi costituiscono la saga della famiglia Grass)

molti racconti

 

Bibliografia su Salinger

2002 – Romano Giachetti, Il giovane Salinger (Baldini Castoldi)


Salinger su internet

http://lafrusta.net/rec_salinger.html

http://www.geocities.com/itcluzzatti/Holden/Salinger.html

http://it.wikipedia.org/wiki/Il_giovane_Holden

http://it.geocities.com/evidda/ILGIOVANEHOLDEN.html

http://biografie.leonardo.it/biografia.htm?BioID=386&biografia=Jerome+D.+Salinger

http://www.chinaski-edizioni.com/biografie/salinger/index.htm

http://www.isolapiana.com/max/recensioni/ilgiovaneholden.htm

http://www.girodivite.it/antenati/xx3sec/usa89.htm

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